2000
2000

Quanto scrivi

quanto hai da dire

quanto hai da dare

per fare tuo

che disse

è tutto sbagliato

è tutto da rifare.

 
Vivi tra le righe

che docili

escono dalle tue mani

che semplici

escono dalla tua mente

che dolci escono dalla tua anima

sei famiglia ora

sei casa

sei lavoro

e la tua musa t’accompagna

nella vita e nella fantasia

e insieme vi donate al mondo

e al mondo andate

girandogli intorno

con occhi di luce

un addio al passato

un addio al silenzio

un addio al Concorde

un addio Charlie Brown

benvenuta vita nova.

 


1 GENNAIO 2000

L'arte a Vienna
 

GENNAIO 2000

All'Abetone con Mamma e Mattia, ma Patty dov'è?

3 FEBBRAIO 2000
Cogito ergo sum!

Non per gli altri
ma perché gli altri
sappiano.

Sognare ad occhi aperti
è meraviglioso
quanto pericoloso.

Il pensiero
è una bolla di sapone
lo guardi meravigliato
e lui svanisce.

È il povero che non ruba
che si guadagna il Paradiso
non il ricco che regala.

L’acqua
più spumeggiante
non può rimanere
in bottiglia.

La tua bocca
è una piccola ferita
che si apre
sulla luce del tuo volto.

Ogni tanto si cresce
e quello che ieri
ci sembrava essenziale
oggi diventa superfluo.

La vita
non merita di essere disprezzata
la vita
vuole essere consumata.

Vorrei provare ancora
le emozioni
dell’occhio che ti guarda
senza sapere chi sei.

Le donne
vogliono essere come gli uomini
ma se gli uomini
volessero degli uomini
non andrebbero a cercarsi una donna.

Ieri
ti amavo
domani no
domani
ti amerò.

Quando facciamo delle domande
a noi stessi
non dobbiamo aver paura
delle risposte che potremo darci.

Sono così ignorante
da credere
di dispensar cultura.

Con tutta la miseria
che vediamo intorno
quello che ci preoccupa
e che non colpisca noi.

Non importa
quanto sarà dura
perché saremo in due a sognare
ed in due si sogna più forte.

Non c’è uomo
più solo
di colui
che ha scacciato gli amici suoi.

Imitiamo gli altri
perché non ci accorgiamo
di quanto valiamo noi stessi.

È grazie a te
che scrivo
ed è per te
che desidero scrivere.

L’amore
arriva in silenzio
senza avvertire
e senza essere chiamato.

C’è un attimo
prima di nascere
prima di morire
in cui sappiamo del prima
e sappiamo del dopo.

Guardiamo i bambini neri d’Africa
perché abbiamo bisogno
di vedere
chi soffre più di noi.

In fisica
il lavoro si misura
con l’energia del corpo
l’uomo
lo misura
con il potere della mente.

È un casino
quando
quello dello specchio
fa cose diverse da noi.

Non è
bianco, rosso o nero
ma è solo
povero o ricco.

Eppure
prima che arrivassi io
non c’era niente.

Passiamo la vita
ad aspettare che succeda qualcosa
mentre la vita
succede senza farcene accorgere.

L’amore basta a se stesso
il resto
è zucchero a velo
che si può scuotere via.

Chi non ci arriva
non ci arriverà mai.

Il bisogno è di giornata
non ha tempo di invecchiare.

Non puoi capire
chi ti è diverso
non pretendere
che capisca te.

Poeta è colui
che narra la sua storia
che sia d’infamia
o che finisca in gloria.

Visto
che è già stato detto tutto
non rimane
che ripetersi.

La tristezza
è silenziosa
quanto la serenità
canta.

Si sta troppo bene
per preoccuparsi
di quelli
che stanno male.

Vorrei essere povero
per non aver paura
di diventarlo.

Ricco
è colui che gode
di ciò che ha.

Con la fama
nascono i soldi
con i soldi
si nutre la fama.

Non si può mai affermare una cosa
che subito
siamo pronti a smentirla
o la smentiamo nostro malgrado.

Sono una perfetta
imperfetta.
Patrizia.

Nella mia imperfezione
sono quasi perfetta.
Patrizia.

Mi manchi
perché so com’è
quando ci sei.

La sofferenza
è misericordiosa
se non diventa
arroganza.

Il destino
è una madre generosa
che ci regala ogni giorno
due strade da scegliere.

Gran difetto dell’uomo
il dubitare
ciò che io dico
è ciò che è
non ciò che tu pensi.

Per fare del male
basta non fare del bene.

Il coraggio che manca agli uomini
è di lasciarsi guidare dalla donne.

È meno faticoso fare del male
che fare del bene.

Non si può capire
quanto è importante
per colui che
lo ritiene importante.

Non sarò mai ricco
perché spendo
o spendo
perché sono ricco.

Lascio che i miei capelli crescano
perché ciò che è di me
possa uscire fuori
e andare lontano il più possibile.

Quando si parla
stringere
è come strizzare un frutto
il succo se ne va via.

Riempimi
io sono il vaso
e tu l’acqua
che darà nutrimento
a tutti i miei fiori.

Cambierei il desiderare
con il non desiderare
se ciò non volesse dire morire.

Dammi
ti prego
o dammi la forza
per vivere senza.

Non c’è cosa più semplice
che pensare
e pensarne il contrario.

Non c’è odio per i genitori
che sia giusto tramandare sui figli.

Non c’è verità più vera
della nostra verità.

Vivere
è correre più veloce
del tempo che passa.

Vivere
è camminare lentamente
e lasciare che il tempo
non si accorga di noi.

Non lasciare
che la vita cavalchi te
cavalca la vita.

La vita è piena di abitudini
e non c’è peggior cosa
che abituarsi a quelle.

Le piccole imperfezioni
sono un danno
le grandi imperfezioni
sono un simbolo.

Sarò maestro di me stesso
per le cose
che gli altri mi hanno insegnato.

Non ci sono luoghi comuni
più comuni di quelli
che vogliamo condividere
con gli altri.

Chissà
se è più facile perdonare la stupidità
o la cattiveria.

Anche la preghiera
del più orrendo brigante
e ben accetta in cielo.

Meglio essere
dei brutti se stessi
che delle belle copie
che col tempo sbiadiscono.

Non c’è miglior consigliere
del desiderio.

È quando sei cambiato
che ti accorgi
che potevi cambiare.

La libertà
vive dentro di noi
e non possiamo farla uscire.

Mi piacciono le favole
perché rendono reale
quella parte di vita
che non riusciamo a vivere.

Ti auguro tutto il bene
ed auguro a me
di esserci
e goderlo con te.

I tuoi amici
sono quelli
con cui desideri uscire
quando non ci sono.

La sera ragione
la mattina desiderio.

Ogni patto stretto
è un patto da rompere.

È dal profondo
della bassezza
che prende slancio
il grido di aiuto.

È nell’umiltà
che possiamo trovare
la nostra grandezza.

Parlo ogni sera con Dio
per ritrovare me
dentro il mio io.

Ti amo
non si dice con la bocca,
anche.

Non c’è niente
che devi fare
ma è meraviglioso
sapere che puoi.

È più grande
la paura di sbagliare
degli errori
che si commettono.

È ciò che dici
quando va detto
non ciò
che avresti voluto dire.

La fretta
è il peggior collega di lavoro.

Tutto il mondo è bello
visto dall’alto
è da sotto che fa paura.

Quello che non riuscirò a fare
te lo dirò
quello che non riuscirò a dire
te lo scriverò.

La poesia è un evento
non puoi mettere un titolo
a tutto ciò che pensi.

Amalo pure
ma che nulla tolga
all’amore che hai per me.

È il cruccio di ogni amante
che ciò che manca all’altro
non sia nelle proprie tasche.

L’amore
è una piuma
che vola leggera
dove la soffia il vento.

Un tempo
si compravano dischi
per stare in compagnia
oggi
si comprano dischi
per restare soli.

Non è avere
ma spendere.

Fa più spavento
cambiare
che annoiarsi nel solito.

È quando hai paura di ferire
che meglio affondi la spada nella carne
purtroppo.

Poveri esseri umani
così convinti di essere invulnerabili
e in fondo così spaventati.

A che serve morire
se gli altri continuano a vivere
a che serve vivere
se gli altri continuano a morire.

È meravigliosa
l’illusione
di averti regalato la gioia.

Non si muore solo di coltello
uccide anche la fame
e la disperazione.

Le poesie
sono i pensieri
che non sono andati perduti.

Quanto è stupido
e inutile
tutto ciò che non è amore.

Non ti fidare
di che guarda in basso
o a paura di te
o di se stesso.

In amore
come in guerra
chi conquista
impone.

Si conquista
sia con la spada
che con l’ago.

A volte
è più bello avere dei sogni
che realizzarli.

Non c’è bisogno
che tu sia nei miei pensieri
perché tu sei
i miei pensieri.

Abbiamo patito così tanta sete
che adesso possiamo bere
l’uno dell'altra
per tutta la vita.

La mia vita
è correre verso di te
e nel frattempo
pensarti.

11 MAGGIO 2000

Allo Stagno

Aquile e Paperi
Pierino Paperino era veramente un gran testardo e sua madre, Matrona Paperona, era proprio disperata. La poveretta aveva avuto una nidiata di dieci pulcini, aveva accudito tutte le uova allo stesso modo, le aveva tenute ben al caldo e aveva aiutato tutti i piccoli ad uscire dal guscio, uno ad uno con la stessa cura, con lo stesso amore. Pierino Paperino si era però dimostrato subito un gran bel ribelle, appena rotto il suo uovo se ne era uscito fuori non con un bel “qua qua”, come tutti i suoi fratelli e le sue sorelle, ma con uno stridente “ahaa ahaa” come quello di un uccello predatore. Pierino si credeva infatti un Aquila e non c’era assolutamente modo di poterlo convincere del contrario. Si era dipinto il piumaggio come quello del grosso rapace e si arrampicava sugli alberi a forza di becco e zampe e poi si gettava di sotto nel tentativo, a dire il vero del tutto vano, di riuscire a volare proprio come un aquila. Matrona Paperona si era rassegnata e con il passare del tempo si era abituata alle stranezze di Pierino. La vita nello stagno era così proseguita nella normale quiete, rotta ogni tanto dalle scorribande di Pierino che, travestito da aquila, cercava di predare i compagni di gioco che, più che spaventarsi, si burlavano di lui. Un bel giorno si trovò a passare per lo stagno una bella paperina e Pierino le si getto incontro cercando di spaventare anche la nuova venuta. Quando però le si trovò di fronte rimase proprio come un papero, davanti a se si presentava la più bella paperina che i suoi occhi avessero mai visto.
“Chi, chi, chi sei tuuu?” le chiese Pierino tra lo sbigottito e l’estasiato.
“Ciao”, rispose la paperetta, “Io sono Peperina Paperina e tu chi sei con quegli strani colori sulle piume, che razza di volatile sei così conciato?”
A sentirla rivolgerglisi in quel modo Pierino sprofondò nello stagno per la vergogna, immergendosi completamente zampe incluse e quando se ne ritornò fuori l’acqua aveva fortunatamente ripulito tutte le sue piume dagli strani e assurdi colori con cui si era dipinto. Vedendosi così ritornare bianco candido si sentì pure ridiventare papero e fiero di esserlo.
“Io sono Pierino Paperino e scusa per quello strano travestimento” le disse mentendo un po’, “Stavo facendo divertire i miei fratelli” aggiunse senza andare lontano dalla verità “Sai loro ancora passano il tempo giocando ma tu da che parte dello stagno provieni?” le chiese finalmente.
“Io vengo dalla gola là in fondo, sono molto stanca e non so proprio come poter fare per ritornare al mio nido”
“Non preoccuparti” le disse Pierino “Ti accompagno io e se ti stancherai ci fermeremo per farti riposare, fino a che non saremo arrivati io veglierò su di te”
Da quel giorno Pierino Paperino non ha mai più pensato alle aquile e non ne ha mai vista nessuna né vera né finta, vive invece sereno la sua dignità di essere papero e la sente volare alta sopra tutto lo stagno libera e fiera.
Ed ogni sera guarda il sole tramontare oltre lo specchio d’acqua, tenendo le morbide zampe di Peperina Paperina.
Zan Zan
Zanza e Rina erano due inseparabili e insopportabili comari, allo stagno nessuno ma proprio nessuno riusciva a sopportarle. Le due zanzare non si adoperavano certo per farsi degli amici fra gli altri animali, anzi gongolavano della loro insopportabilità. Durante il giorno sonnecchiavano, finché il sole era alto e quelle poche volte che si degnavano di partecipare alla vita dello stagno, era soltanto per sbeffeggiare gli altri. Si mettevano tranquille, sedute su di un filo d’erba e trascinavano la giornata punzecchiando gli sfortunati abitanti del laghetto che si trovavano a portata di pungiglione. Entravano nelle narici delle povere anatre e facevano loro il solletico oppure le pungevano sul didietro e poi, veloci, se ne volavano via prima che queste le potessero raggiungere con una beccata. A volte nuotavano a pelo d’acqua e si facevano vedere dai pesci che, sempre affamati, appena se ne accorgevano balzavano fuori a bocca aperta dandosi un gran colpo con la coda, le due zanzare però facevano sempre in tempo a scansarsi e i pesci finivano dritti dritti nelle reti tese dai pescatori. Una volta mentre erano sdraiate placide su di un filo d’erba che sporgeva fin sopra lo stagno, fecero di tutto per farsi notare da una piccola rondine, questa si gettò in picchiata per ingoiarsele ma loro volarono via con un balzo e la povera rondinella finì a farsi il bagno nell’acqua fredda. La sera allo stagno tutti se ne andavano a dormire presto e per le due ronzanti amiche il laghetto diventava tropo noioso, così andavano in paese a fare baldoria, gli uomini erano il loro piatto preferito. Se ne tornavano all’alba ubriache di sangue, spremuto e succhiato ad ogni angolo, nelle taverne unte e sudate e nelle osterie rumorose e distratte, addirittura a notte fonda li attendevano nei risvolti dei letti, pronte a ronzare fuori appena gli sfortunati umani cercavano di prendere sonno, questo le faceva veramente divertire. Ma il loro momento preferito era la domenica, ah quello era giorno pieno. Al mattino presto arrivavano i cacciatori, tutti bardati e organizzati si appostavano in silenzio nei loro capanni, a quel punto Zanza e Rina entravano in azione, prima gli si mettevano a ballare davanti agli occhi, poi gli ronzavano nelle orecchie ed infine li infilzavano dietro il collo e succhiavano liete il loro sangue. I poveri cacciatori erano così presi a difendersi dalle zanzare che non riuscivano mai a sparare un colpo e le due comari se la ridevano di gusto. Nel pomeriggio arrivavano le famigliole per il pic nic e le due zanze si gettavano a capofitto sulle rosee braccia scoperte, sulle caviglie e loro piatto prelibato, sulle faccine dei poveri bimbi in fasce, che venivano poi ritrovati nelle loro carrozzine con il visetto ricoperto di brufoli rossi. A questo punto le due davano veramente di matto.
Un giorno si trovava a passare di là Silvana la rana che stava insegnando il nuoto ed il salto ai suoi ranocchini.
“Su su da bravi, così, allargare bene le zampette” esortava i propri piccoli, “e adesso su, una bella spinta e un gran salto in alto” li spronava.
“Zzi, zzi, che bravi, che bravi, zzaltate, zzu da bravi zzaltate” intervennero prontamente le due zanzare, “zzaltate e fate un bel zzalto in alto, cozzì quando viene il contadino gli zzaltate tutti in padella e lui non si affatica a darvi la caccia” e poi “zzzz, zzzz, zzzz, zzzz” se la ridevano ronzando di gusto.
“Lo trovate tanto divertente?” le apostrofò Gosto il rospo.
“ Zzi, zzi, che rizzate, tutti i ranocchini in fila che zzaltano e poi tutti i ranocchini zzaltati in padella, zzzz, zzzz, zzzz, zzzz” ridevano a crepapelle.
Gosto non fece altre domande, aprì la sua grande bocca e ne fece uscire una lunga lingua che schizzò verso le due zanzare, le quali sgranarono gli occhi per la sorpresa ma non fecero in tempo a spostarsi e ci si appiccicarono sopra. Si sentì solo il rumore dello stomaco di Gosto che le inghiottiva, poi un tranquillo silenzio.
Allo stagno nessuno sentì mai la loro mancanza.
Croak
Le serate estive allo stagno trascorrevano tiepide e tranquille, l’acqua era ancora tiepida e l’aria fresca della sera mitigava il gran caldo che aveva accompagnato l’intera giornata tra schiamazzi, starnazzi e schizzi. Lo stagno si preparava al riposo notturno e dopo l’insistente frinire delle cicale che aveva annoiato e sfinito le orecchie di tutti gli abitanti dello stagno, finalmente ci si abbandonava ad un placido sonnecchiare; ci si ripuliva ben bene il piumaggio o si lustravano le squame, ci si scambiavano gli ultimi pettegolezzi, si mettevano a nanna i piccoli e gli innamorati di tutte le razze e di tutte le dimensioni si scambiavano il bacio della buonanotte.
Quando il silenzio ormai imperava su tutta la superficie dell’acqua e nei dintorni, quando tutti stavano ormai per assopirsi e dedicarsi ad un lungo e ristoratore sonno che li avrebbe sanati delle stanchezze della giornata trascorsa e li avrebbe rinvigoriti e resi pronti ad affrontarne una nuova e movimentata, l’indomani, ecco proprio a quel punto si sentiva chiaro, luminoso nel buio il primo verso:
<Croack!>
No, non era a quel primo verso che il sonno veniva interrotto, ma sicuramente era ormai spezzato l’incantesimo del riposo.
<Croack, croack!>
Ecco, a questo punto tutto lo stagno era nuovamente sveglio e da quel momento in poi si riusciva ad udire un solo rumore, un solo verso:
<Croack, croack, croack, croack, croack, croack!> e non sarebbe più finito per tutta la notte. Era la famiglia Ranocchioni.
Non si poteva davvero più andare avanti così, i piccoli di madama Paperotta si svegliavano impauriti di soprassalto e starnazzavano tutta la notte. Nonna Anatrona, già a vanti con l’età e bisognosa di riposo soprattutto dopo il caldo della giornata trascorsa, ansimava su e giù per lo stagno brontolando e borbottando. I pesci saltavano fuori indispettiti, Comare Talpona era costretta a scavare profondissimi tunnel per dare riposo alla sua famigliuola e perfino le cicale, che avevano cantato tutto il dì, avevano le loro rimostranze da fare e incredibile a dirlo, pure Sor Grillo, che era addirittura di rango nobile sì che tutti lo chiamavano il Marchese, non si tirava da parte a osteggiare il gracidare delle rane, che a suo dire impediva a loro grilli di potersi scambiare i messaggi musicali a cui tanto tenevano e a cui si dedicavano con impegno.
Un bel giorno fu indetta un’assemblea di tutti gli abitanti dello stagno e ognuno ebbe da dire la sua contro Ugo Rospo, Claretta Ranocchietta e la loro gracidante prole.
<Mi si drizzano le piume, appena li ascolto così mi bagno e prendo il raffreddore> disse Martina Paperina.
<Se di notte non riposo, prima o poi mi pescano!> brontolò Fausto Trota.
<I miei piccoli devono imparare a volare, se non riposano finiranno tutti a capofitto nell’acqua> aggiunse Gino Rondone, che aveva il nido su di un albero proprio sopra lo specchio d’acqua.
Insomma, tanto dissero e tanto fecero che l’assemblea, all’unanimità, decise di cacciare la famiglia Ranocchioni ed il loro insopportabile gracidare.
Le notti diventarono silenziose, tranquille e rilassanti e tutta la popolazione ne rimase felice e finalmente riposata, fino a quando…
Il silenzio dello stagno aveva attirato nella zona nuovi animali, grossi, affamati e predatori. Così gli abitanti dello stagno persero di nuovo il sonno ma stavolta era la paura la causa dell’insonnia per cui tutti divennero di nuovo nervosi e e ancor più intrattabili di prima.
Fu proprio il Marchese, Sor Grillo che, con il capo cosparso di cenere andò a trovare la famiglia Ranocchioni nella loro nuova abitazione e li pregò in ginocchio a nome di tutto lo stagno di tornare a gracidare nelle loro acque natali.
Da allora, ogni sera, allo stagno si tiene il concerto dei ranocchi, diretto personalmente dal Marchese, con scrosci di applausi, volteggi di uccelli e salti e schizzi della famiglia de Trotis. Quando poi il buio è profondo nonno Apone passa con il suo secchiello pieno di cera e tura le orecchie a tutti, passeri, cavedani, salamandre e così via. E fra uno sbadiglio e uno sbatter d’occhi, augura la buona notte all’intero laghetto.

La famiglia Ranocchioni continua poi, da sola, la sua esibizione gracidatoria a difesa dello stagno e finalmente tutti dormono felici e contenti.
Ramon el toro
Al termine di ogni faticosa giornata di pascolo, più o meno al calare del sole, veniva a passare dalle parti dello stagno una nutrita mandria di mucche; bianche, enormi, quiete, e con delle lunghissime corna che svettavano verso il cielo. Dopo aver ruminato per l’intero giorno, sotto il sole cocente o sotto la pioggia battente, si fermavano tutte in fila, l’una accosto all’altra, ad abbeverarsi nell’acqua fresca e dissetante dello stagno. Silenziose, tranquille e a dire il vero un po’ troppo scorbutiche, si accomodavano sulla riva e intingevano i loro grandi musi dentro l’acqua, capitava addirittura a volte, che qualcuna si immergesse per intero nello stagno, per trovare refrigerio o forse per liberarsi di qualche dispettoso insetto che le si fosse attaccato, troppo voracemente, alla pur dura ma sempre sensibile pelle. Ogni sera per i pesci era un appuntamento fisso, si avvicinavano alla sponda del laghetto e da sotto si mettevano a guardare le facce enormi delle mucche, immerse nello stagno, le lunghe lingue si muovevano veloci per imbarcare acqua e farla scendere nella gola e nello stomaco. E sì, viste al contrario, erano proprio buffe. Fra i tanti pesci curiosi che si davano appuntamento per questo ameno spettacolino serale c’erano due pesci gatto Micio e Mocio, due fratelli che si dilettavano nello studio degli animali che gravitavano intorno allo stagno e su ognuno di loro dipanavano assurde teorie basate principalmente sulla loro ignoranza, caratteristica che non avrebbero mai voluto ammettere. Allo stagno si facevano chiamare professore da tutti e guai a chi non anteponeva tale aggettivo davanti ai loro nomi. Esaminavano ogni sera le pacifiche mucche ed erano attratti in particolar modo da quell’enorme borsa con le rosse dita che penzolava loro da sotto la pancia. Dopo numerosi sforzi a convincere le mucche a parlare, erano arrivati a conoscere l’esatta, per una volta, utilità di tale accessorio. <Queste sono le nostre mammelle> aveva infine detto loro spazientita la mucca Rosina, per liberarsi dalle insistenti domande <Sono la fonte della vita, qui si attaccano i nostri vitellini per succhiare il latte che li farà crescere forti e sani, qui si abbevera anche il contadino che con il nostro latte nutre tutta la sua famiglia.>
Soddisfatti e inorgogliti da tanta conoscenza che era loro caduta addosso, nuotarono per lo stagno a raccontare a tutti la nuova grande scoperta.
Un bel giorno si fermò ad abbeverarsi allo stagno il giovane toro Ramon ed i professori Micio e Mocio accorsero immediatamente ad esaminare la mucca nera non appena Ramon immerse il muso nell’acqua.
<Si, si, si, ne avevo già viste anche di marroni> sentenziò il professor Micio, <Io ne conoscevo anche di pezzate con macchie di colori vari> aggiunse Mocio <Ma non ne avevo mai viste di completamente nere> e si gettarono sul povero toro a ricoprirlo di domande. Chi sei, da dove vieni perché sei nera e bla bla bla un sacco di domande inopportune e insopportabili e poi il colpo di grazia:
<Dove sono le tue mammelle?> chiese insospettito Micio
<Già è vero dove sono le tue mammelle, quelle tanto utili e dal succo così importante e saporito? >
Il povero toro Ramon non seppe rispondere, non ci aveva mai pensato e non ci aveva mai fatto caso, tutte le mucche che conosceva avevano le mammelle e anche la sua mamma lo aveva nutrito con il succoso nettare che se ne succhiava fuori e lui, lui le mammelle non le aveva, gli rimaneva soltanto un ciuffo di peli proprio nel mezzo alla pancia.
I due pesci gatto cominciarono a studiarlo approfonditamente, analizzando i dati di cui erano in possesso e effettuando nei giorni successivi studi approfonditi su di lui e sulle mucche che si avvicinavano allo stagno. Il povero Ramon si affidò completamente ai loro consigli, ahimè, stolto più lui dei due pesci gatto che si credevano professori, così passarono i giorni e il consulto medico del Professor Micio e del Professor Mocio dette il responso, il toro Ramon aveva una inspiegabile ed esotica malattia che chiamarono smammalia o più comunemente conosciuta come malattia dei senza mammelle, per la quale non si era ancora scoperta alcuna cura. Rattristato depresso e disperato il toro Ramon vagò ancora per giorni abbattuto a guardare ed invidiare le belle protuberanze piene di latte, che ogni mucca sana si portava comodamente appese al ventre.
Un bel mattino il contadino caricò il toro Ramon sul carro per portarlo alla monta taurina e là incontrò il vecchio zio Manuel che, vedendolo così depresso, gli chiese il motivo di tanta tristezza e Ramon si confessò.
Lo zio Manuel scoppiò in una sonora e canzonatoria risata e pensò bene di spiegare alcune cose a Ramon prima che fosse troppo tardi. Gli parlò di api e di cavoli di cicogne e di farfalle e lo rassicurò sul fatto che le mucche avevano sì le mammelle per nutrire i piccoli ma che questi nascevano proprio grazie al fatto che loro tori le mammelle non le avevano.
Rinvigorito e rassicurato Ramon dette così avvio ad una fruttuosa carriera di toro da monta, ridendo poi di sé alla vista dei propri vitelli che succhiavano il latte dalle mucche loro madri e per un bel pezzo se ne stette lontano dallo stagno.
Durante un breve vacanza alla fattoria natale, in un pomeriggio di sole, si recò allo stagno e mentre si abbeverava per rinfrescarsi dell’arsura di quel torrido giorno, riconobbe il Professor Micio e il Professor Mocio nel retino del figlio del contadino che si trovava a pescare nel laghetto. I due si dimenavano con forza ma inutilmente, nel tentativo di riuscire a sgusciare fuori dalla rete, così Ramon sorpreso e divertito si avvicinò loro e disse:
<Salve a voi signori miei, ben ritrovati ma cosa vedo mai, voi dovete essere ben malati e di qualche malattia assai rara che si potrebbe chiamare probabilmente sgambata o più volgarmente malattia dei senza gambe, siete molto sfortunati ma non preoccupatevi imparerete qualcosa di nuovo e importante stasera, anche se non avete le gambe salterete lo stesso in padella>

Così detto se ne andò con un sorriso sulle labbra ed un fascio d’erba in bocca, da masticare con tranquillità ed in pace. Ancora oggi Ramon è conosciuto come uno dei migliori e più prolifici tori della regione.
Saggio a tutto tondo
Sul fondale sabbioso dello stagno aveva preso casa da tempo un vecchio barbo, conosciuto da tutti come il Sapiente dello stagno. La sua anziana età e la sua esperienza ne avevano fatto il saggio del laghetto. Tutti, più o meno, si erano da sempre rivolti a lui per i più svariati e innumerevoli consigli che andavano dall’educazione dei piccoli alla costruzione di tane sicure, passando per indigestioni, ami scampati e mal di pinne. Rosina Trotina gli aveva chiesto udienza per avere da lui preziosi lumi al fine di poter conquistare il bellissimo ma scontroso Albertone Trotone e il Sapiente le aveva dato così ottimi suggerimenti di comportamento che Rosina si era maritata di lì a un mese. Gaetana la rana aveva chiesto consigli per migliorare la sua tecnica di cattura degli insetti, il Sapiente le aveva dato degli attrezzi per allenare la lingua e Gaetana era divenuta la più lesta e paffuta rana dello stagno. Rino il girino era dovuto andare a scuola dal Sapiente per imparare a saltare correttamente e poter diventare un bravo ranocchietto, dopo due mesi di esercizi finalmente era stato promosso.
Per ringraziamento dei saggi consigli, gli animali dello stagno portavano in dono al Sapiente dei preziosissimi e prelibati doni: insetti serviti tra due chicchi di mais, paffuti vermi abilmente tolti dagli ami dei pescatori, lombrichi e bachetti vari e il vecchio pesce si ingrassava felice, chiuso dentro la sua tana. A volte anche se nessuno lo chiedeva il saggio barbo si metteva a raccontare vecchie storie di vita dello stagno e chi passava dalle sue parti si fermava, come attratto da una calamita ed ascoltava incantato. Da un suo racconto c’era sempre da imparare qualcosa e la dura vita dello stagno riservava sempre delle brutte sorprese a cui era meglio esser pronti a far fronte.
Il tempo passava e il sapiente ingrassava dentro la sua tana, tanto era ingrassato che ormai non poteva più uscir fuori dal suo rifugio, così continuava a dispensare consigli attraverso il piccolo foro da cui, magro, era entrato tanto tempo prima.
Bruno, l’orso che ogni tanto, passando da quelle parti, si fermava a fare uno spuntino al lago, pensò bene, per diletto, di mettersi a scavare una buca sulla riva dello stagno. Il suo intento, più un passatempo che altro, era di accertare se qualche succulenta larva o chissà, un saporito animaletto nascosto in attesa di sbucar fuori a notte fonda, si potesse celare sotto la morbida erba della riva. Scava scava arrivò fino alla piccola grotta che ospitava il rotondo Sapiente e ne fu felicemente sorpreso, tanto da complimentarsi di aver avuto una tale insulsa ma ben riuscita idea. Anche il Sapiente ne fu più che sorpreso, cercò di dimenarsi e di stringersi più che poteva per fuggire passando attraverso l’angusta apertura della sua tana ma arrivato alle branchie, non riuscì proprio ad andare avanti ed ogni sforzo fatto lo portò ad immobilizzarsi sempre di più.
Stanco e sfinito, rigido come un baccalà, rischiava davvero di diventare il piatto principale della cena che Bruno avrebbe presto potuto fare. L’orso se ne sarebbe fatto volentieri un sol boccone ma il vecchio barbo era diventato talmente grande, ingrossato a com’era a forza di mangiare i doni culinari degli abitanti dello stagno e a non far mai una nuotata per il laghetto, che l’orso avrebbe dovuto addirittura apparecchiarsi la tavola per poter gustare il pescione con calma sulla riva dello stagno.
Tutto questo avrebbe potuto diventare realtà da un momento all’altro se non fosse passato per caso da quelle parti un cacciatore. Era proprio un cacciatore di orsi e quando vide la sua preda preferita non perse un attimo di tempo, imbracciò il fucile in men che non si dica e si mise a sparare a più non posso, senza nemmeno prendere bene la mira, tanta era la foga che aveva di conquistarsi quel bel trofeo, di cui già vedeva la pelle coperta di folto pelo distesa nel salotto dove teneva diversi trofei delle sue tante cacce per il mondo. Ma tanta fu appunto la fretta di catturare quella preda, a cui da così tanto tempo dava la caccia, che di tutti i colpi che sparò nemmeno uno andò a colpire l’orso e il cacciatore se ne dovette ritornare a casa sconsolo e senza cartucce.
Intanto Bruno che da quell’avventura ne scampò proprio per un pelo, appena aveva udito il primo colpo sparato dal cacciatore si era subito preso un bello spavento, aveva lasciato perdere il grosso pesce che se ne era ricaduto fortunosamente nello stagno e nella fretta di scapparsene via lontano aveva pesticciato tutto il terreno intorno a se facendo franare l’ingresso della tana del vecchio pesce sapiente. Senza nemmeno girarsi una volta Bruno l’Orso se ne fuggì via a gambe levate già dimentico della cena che aveva perduto, troppo occupato com’era a non diventare a sua volta il tappeto di qualcun altro.
Nel frattempo, in tutta quella gran confusione, che era durata un attimo ma che era sembrata non finire mai, il vecchio Barbo era finito nuovamente in acqua e lesto lesto, approfittando del passaggio che le zampone dell’orso avevano aperto, se ne era nuotato veloce veloce nello stagno, verso la salvezza, verso la tranquillità. Adesso il grosso barbo nuota per lo stagno, felice per lo scampato pericolo e di aver abbandonato la stretta tana in cui si era disavvedutamente rinchiuso.
Anche questa volta tutti ebbero qualcosa da imparare da quella incredibile storia e il vecchio Sapiente più di tutti gli altri, adesso il pescione ha nuovi e importanti consigli per i pesci ed anche per qualche orso fortunato.
Il pesce surgelato
L’inverno allo stagno era sempre molto tranquillo. Quando infatti la stagione fredda faceva il suo imperioso ingresso sparivano, dalle rive del laghetto, le frotte di gitanti che le avevano tappezzate per tutta l’estate. Un’orda barbara armata di tavolini, asciugamani e abbronzanti, sempre con i piedi nell’acqua a loro frescura ma a danno di chi sotto, nell’acqua, doveva destreggiarsi fra quella selva in movimento, spesso e volentieri, accompagnata da maleodoranti esalazioni. Non c’erano più nemmeno i bambini a rincorrere pesci, rane e cavallette ed erano spariti, per fortuna, anche i rifiuti che avevano galleggiato untuosi o che erano sprofondati ingombranti sul fondo dello stagno. D’inverno però era freddo. Gli insetti se ne stavano rintanati al calduccio delle proprie tane, avvolti in bozzoli di tela ruvida che si erano cuciti intorno, dopo essersi infilati nella piega di un ramo, sotto una corteccia o in un piccolo foro. Gli animali più piccoli raramente mettevano il naso fuori dal tepore dei loro rifugi e solo i soliti ritardatari correvano ancora un po’ intorno all’acquitrino, alla ricerca frenetica delle ultime riserve di cibo da stipare nella tana e da consumare con calma e con parsimonia, durante il rigido inverno che, di li a poco, sarebbe arrivato prepotente a sospendere la frenetica vita dello stagno fino alla prossima primavera. Rane salamandre e serpentelli se ne stavano al riparo dalle gelide correnti invernali e tutti si prendevano particolare cura dei piccoli e delle larve preparandole a passare comode e sicure la lunga notte dell’inverno. Nello stagno la tranquillità l’avrebbe fatta da padrona per tutto l’inverno e poi sarebbe sbocciata nel vigore e nel calore della primavera. Beh, per lo meno avrebbe dovuto, perché quell’inverno ci pensarono i pesci a movimentare lo stagno, anzi il pesce, il pesce Gustavo.
Gustavo la Reina era un pesce a dir poco vanitoso, anche se si deve ammettere, che in fondo ne aveva tutte le ragioni perché era proprio un bell’esemplare. Grosso, robusto, con i suoi bei labbroni carnosi le squame luccicanti ed uno sguardo languido e ammiccante da pesce lesso. Gustavo passava intere giornate a rimirarsi nei sassi più brillanti o nei cocci di vetro e se in quel momento non c’era una superficie su cui specchiarsi, non si riguardava certo dal fermare trote o cavedani e chiedere loro quanto fosse bello e se non fosse addirittura il pesce più bello dello stagno. Se poi proprio non c’era nessuno, si affacciava addirittura fuori dall’acqua, alla ricerca di una rana, di una lucertola, di una cavalletta o di chiunque dovesse passare in quel momento, per interrogare il malcapitato sulla propria bellezza e magari chiedere osservazioni o consigli su come mantenere le squame lucide o la pinna caudale più dritta. Gustavo era ancora giovane ma alla prossima primavera avrebbe finalmente raggiunto la maturità ed anch’egli si sarebbe potuto accoppiare con una bella pescia, per fruttificare poi l’unione con una sfilata di avannotti, magari tutti belli come lui. Per coronare i suoi desideri e soddisfare la sua indiscussa e preponderante vanità, aveva perciò deciso di farsi vedere in tutta la sua bellezza, potenza e grazia dalle signorine pesce dello stagno, le quali sicuramente si sarebbero tutte innamorate di lui che poi, con calma durante l’inverno, avrebbe potuto scegliere fra queste la sua fortunata, a suo pensare, compagna per la prossima primavera. Gli altri abitanti del lago sopportarono a mala pena tutto ciò! Nuotava avanti e indietro freneticamente tutto il giorno, in su, in giù, a pancia sotto, a bocca aperta, con le pinne ben distese e in mostra in tutto il loro splendore e poi salti a non finire, un potente balzo fuori dall’acqua e poi grandi tuffi nello stagno e spruzzi da tutte le parti e non si può certo negare che fosse davvero bravo oltre che davvero bello. Ma l’inverno si faceva ogni giorno più rigido e una bella, non per Gustavo, mattina il laghetto gelò e lo fece proprio mentre il vanitoso tuffatore stava facendo un salto lunghissimo, con avvitamento e capriola. Ebbe appena il tempo di infilare la testa nell’acqua che il ghiaccio lo congelò, così mezzo dentro e mezzo fuori a conservare immobile la sua azione incompiuta, come fosse una fotografia. Gustavo rimase in quella posizione per l’intero inverno, nel vano tentativo di dibattersi e liberarsi, con la pinna fuori dal ghiaccio quasi come una freccia ad indicare la sua posizione nell’immacolata distesa bianca che aveva surgelato lo stagno. Da quello sfortunato momento fu costretto a trascorrere l’inverno in una posa scomoda e alquanto ridicola, sì che tutti poterono notare quanto fosse bello ma anche quanto fosse sciocco. Senza contare che riuscì a nutrirsi solo di quel poco che, per caso, passava davanti alla sua affamatissima e sempre più insoddisfatta bocca. A primavera, con i primi giorni di tepore, la lastra di ghiaccio che ricopriva lo stagno cominciò a sciogliersi e Gustavo, ormai ridotto alla lisca, riuscì finalmente a liberarsi. Da vero vanitoso incallito qual’era, la prima cosa che fece fu cercare un vetro per specchiarvisi dentro ma quando si vide rimase sconcertato, il pesce grosso e in forma che era rimasto incastrato nel ghiaccio qualche mese prima era diventato uno scorfano secco e brutto mentre gli altri pesci, riposati e ben nutriti, apparivano tutti sani e belli, lucenti e robusti. Il povero Gustavo cercava di entrare nelle grazie di qualche signorina pesce ma queste, appena lo vedevano con le squame penzoloni e le pinne mosce mosce, scappavano via impaurite o si spanciavano dalle risate. Così a Gustavo la Reina, non più bello e non più imponente, non rimase altro che nuotarsene mesto, solo e pensieroso tra la melma del fondale mentre gli altri pesci saltavano e sguazzavano in coppie allegre e serene per tutto lo stagno.
Senza rete
A Lilla Libellula piaceva moltissimo volare. Era proprio contenta di non essere nata pesce, lucertola o lupo; nuotare strisciare o camminare non le sembravano affatto entusiasmanti come un volo librato sui prati o sullo specchio argenteo dello stagno. Forse una rana, beh una rana poteva quasi immaginarsi cosa fosse volare, anche se era solo capace di saltare e un balzo per quanto lungo fosse, non era mai come volare. E Lilla lo sapeva bene, perché spesso rospi e ranocchie le erano saltate dietro nel tentativo, per sua fortuna vano, di trasformarla in pranzo ma la piccola libellula volava più in alto, dove nessun salto poteva portare le sue inseguitrici.
Così Lilla volava, si produceva in armoniosi volteggi fra l’erba alta e poi si tuffava a volo radente sopra il laghetto, giravolte, giri della morte, acrobazie, planate e picchiate, poi d’improvviso volava in alto e ridiscendeva veloce sui prati e tra i fiori. Sua madre Lula Libe Lula era sempre molto preoccupata ed ogni volta che Lilla usciva di casa le raccomandava di non volare mai troppo in alto dove anatre, germani reali ed aironi ne avrebbero fatto un sol boccone. E nemmeno di volare troppo vicino all’acqua dove i pesci l’attendevano pronti a balzare fuori tutt’a un tratto e inghiottirsela mentre ancora sbatteva le ali.
Lilla invece non aveva paura, i suoi mille volteggi le avevano insegnato a destreggiarsi fra le bocche spalancate dei pesci ed i becchi appuntiti degli uccelli, a guardarla sembrava sempre che dovesse diventare il pasto di qualcuno e poi, all’ultimo momento, cambiava direzione, zigzagava, virava, si buttava in picchiata o saliva in alto verso il cielo libero lasciando risplendere nel sole le sue meravigliose alette color madreperla.
Era una meravigliosa giornata di primavera ed il calore che si sentiva nell’aria preannunciava una meravigliosa estate. Lilla volava tranquilla, divertendosi come sempre ad ingannare pesci rane e uccelli e facendo impaurire non solo la povera Lula ma anche le sue giovani compagne di giochi e di voli, le quali non si azzardavano mai a seguirla nelle sue avventate evoluzioni, artistiche ed ammirabili ma pur sempre pericolose. L’uomo non passava di là per caso, era a caccia di farfalle e la sfortuna volle che gli sgargianti e luminosi colori delle ali della volteggiante Lilla attirassero più del dovuto la sua attenzione, allungò appena il braccio con cui teneva la rete per farfalle, interessato a quell’esserino luminoso che le stava volando sotto gli occhi e Lilla finì dritta dritta nella rete. Dopo essere sfuggita ai più temuti predatori, alle più voraci bocche dello stagno, alle lunghe lingue dei rospi ed ai balzi delle rane, era finita fra le grinfie distratte di un mite ed amorevole cacciatore senza armi.
Lilla fu sopraffatta dalla paura, si mise a sbattere forte forte le sue alucce, quelle leggiadre ma robuste foglie di madreperla che mille e mille volte l’avevano tirata fuori dalle situazioni più disperate. I suoi tentativi rimasero però vani, avvolta com’era dalla rete, non riusciva che a dibattersi inutilmente, stancandosi senza ottenere alcun risultato, se non quello di aggrovigliolarsi ancora di più tra quelle maglie morbide che la stringevano.
L’omino si mise ad ammirare quell’animaletto che non smetteva di muovere freneticamente tutto il suo corpo in quello che si avvide era appunto il tentativo di sfuggirgli tra le mani. Certo non era venuto allo stagno a cacciar libellule, il suo interesse erano le farfalle, grandi e piccole con le ali dipinte come tramonti o come prati fioriti, con il sole che vi splendeva dentro o con l’accecante luce del mistero che vibrava fra i battiti delle ali. Ma quelle di mille colori quasi trasparenti della povera Lilla fecero si che, avendola ormai catturata, lo spensierato ometto decidesse di tenerla per sé. L’avrebbe portata a casa per conservarla in un quadretto tutto per lei, con il fondo di velluto e la cornice di legno chiaro, con uno spillo nella schiena e le lunghe ali iridescenti distese a mostrare quelle luminescenze di cui Lilla era andata sempre molto fiera.
Dall’alto del cielo aveva assistito a tutta la scena un germano reale, ghiotto di insetti ed in special modo di libellule e pensò bene che quello che aveva intravisto nel retino del cacciatore non era certo un boccone da lasciarsi sfuggire l’uccello già si immaginava di stringere la libellula nel becco e di gustarsela con sommo piacere e mentre i suoi pensieri vagavano comandati dallo stomaco decise tutto ad un tratto di entrare in azione. Si gettò a capofitto verso Lilla ed il distratto cacciatore, il quale se lo vide arrivare addosso chissà da dove senza nemmeno rendersi conto di costa stava accadendo. L’impatto fu inevitabile, il germano capitombolò per terra, perse qualche piuma e penso bene di darsela a ali spiegate prima che la sua maldestra azione gli provocasse qualche altro guaio. L’omino finì a gambe all’aria perdendo il controllo del retino che, volando per aria, allargò le sue maglie quel tanto che fu sufficiente a Lilla per spiccare il volo verso una nuova libertà.
Adesso Lilla vola alta fra anatre e germani ma sta molto ma molto attenta e vola bassa a pelo d’acqua fra pesci e ranocchi ma sta molto ma molto attenta, perché i pericoli sono sì quelli che conosce e sa come evitare ma ora sa che ce ne sono anche di nuovi, strani e sconosciuti nascosti dietro ad ogni filo d’erba.
Ciao a tutti e buon divertimento allo stagno.

20 MAGGIO 2000

Aiko


della Pianura
 


 

Il gelo era ormai passato, i ghiacci resistevano testardi sulla vetta del Monte Sacro, ancora circondato da sciami di nebbie e fredde brine. Da lassù l’aria fresca di nevaio lasciava discendere gli ultimi aliti della stagione finita e anche se alla sommità della montagna solo in pieno solare il calore si sarebbe fatto sentire, più in basso la Grande Pianura era oramai completamente sgombra dalla fredda presenza della neve. Il suolo ancora brullo già mostrava i primi coraggiosi fili d’erba e qualche fiore frettoloso faceva capolino sotto tiepidi raggi di sole. Fiorile se ne stava per esplodere con i suoi colori, con i profumi e con i venti tiepidi della Grande Pianura, l’erba sarebbe cresciuta rapida e alta, pronta a nascondere a proteggere ed a nutrire tutti gli abitanti della valle. Damon era il nuovo Capobranco del popolo della Vetta, la sua forza, la sua determinazione, l’innata saggezza, la combattività e la fierezza, degna del più robusto nero e peloso stallone che si fosse mai visto nella Grande Pianura, l’avevano reso il degno successore del vecchio Salainok.
 
 
Il predecessore di Damon, nella lusinghiera ma faticosa carica di guida per il Popolo dei cavalli della Vetta, era stato grande nella saggezza e nel temperamento, condottiero insostituibile per il branco e insuperabile componente del Consiglio a capo della Mandria che abitava la Grande Pianura, un immensa distesa verde che si estendeva tra la montagna, ripida e rocciosa e la foresta, fitta e buia. Salainok era stato forte e capace con i devoti figli di Uin, dio di tutti i cavalli ma, suo dolore e sconfitta, incapace di trattenere l’esuberanza e l’arroganza del proprio figlio Galan, sfortuna per lui e per tutta la pianura.
 
 
Galan era divenuto presto una triste leggenda ma la sua storia aveva origine dalla verità. Era accaduto solo poco tempo addietro ed era stato il peggior evento che il branco della Vetta avesse sofferto, di più era stato il più orribile accadimento mai verificatosi in tutta la Grande Pianura, sia per la Mandria che per tutti gli animali piccoli o grandi che trovavano rifugio nella valle e che da essa traevano sostegno. Un cavallo aveva ucciso un altro cavallo. Galan, figlio di Salainok, aveva ucciso Nadir, padre di Damon e Ministro privato di Salainok. Da allora il malefico cavallo vagava per chissà quali terre lontane, ogni tanto tornava alla Grande Pianura per rubare del cibo o per spaventare giumente e puledri, quel fiorile però il suo ritorno aveva uno scopo ben preciso, doveva in qualche modo terminare ciò che aveva cominciato.
 
 
Durante l’ultimo Nevaio il vecchio Salainok si era incamminato mestamente verso la sommità del Monte Sacro, lungo il sentiero avrebbe avuto il tempo di porsi le domande che nel corso della sua esistenza erano rimaste senza risposta e certamente fra queste ce ne sarebbe stata una bella sfilza dedicata al suo pur sempre amato ma irrecuperabile e malefico figlio. Dalla cima avrebbe poi spiccato un ultimo grande salto e si sarebbe ritrovato a galoppare nelle verdi distese del paradiso dei cavalli, con i suoi avi ed i suoi compagni di mille corse tra i boccioli profumati della Valle dei Fiori e le fresche ombre del Bosco dei Semi Duri. Là, tra le celesti praterie del cielo, avrebbe sicuramente ricevuto le risposte ai suoi interrogativi ed il giusto conforto per la sua difficile paternità.
 
 
A capo di tutta la Mandria della Grande Pianura c’era il Consiglio dei Dieci, si riuniva per ogni luna nuova ed era formato dai dieci Capobranco dei popoli della pianura accompagnati dai loro fidi Ministri. C’era il popolo della Piana, quello della Steppa, quello del Bosco, del Colle, dei Fiori, della Costa, delle Caverne, del Ruscello, del Lago e infine il popolo della Vetta. Ogni branco aveva occupato uno dei tanti territori che formavano la Grande Pianura, i vari popoli erano in pace tra loro e vivevano tutti felicemente riuniti nella vasta e generosa valle. Qualche scaramuccia ogni tanto animava la pianura e soprattutto nella stagione degli amori, i cavalli si fronteggiavano in scontri impetuosi, si prodigavano in rapimenti di puledre e talvolta effettuavano sconfinamenti un po’ troppo vistosi nei territori altrui, tutte ghiotte occasioni per dare inizio a movimentate zuffe generali che erano più vicine a dei folcloristici combattimenti che a delle vere e proprie battaglie. Ogni popolo aveva il suo territorio da cui trarre nutrimento, da accudire e da conservare fertile per le generazioni future, tutti condividevano però i benefici e soprattutto la grande abbondanza di cibo che la Grande Pianura offriva. La vera e propria pianura era posta al centro degli altri territori e costituiva il ritrovo di tutti i branchi ed il luogo dove i puledri scalciavano le loro prime lotte, dove i cuori si rincorrevano al suono degli zoccoli e dove i cavalli prima gareggiavano, vanitosi e arroganti e poi conquistate le loro puledre, consumavano quieti e docili le giornate della stagione amorosa che coronava poi gli sforzi di stalloni e giumente con la nascita di nuovi puledri, nutrimento primario per la vita di tutta la Mandria della Grande Pianura.
 
 
La giumenta avanzava lentamente, il sole era alto nel cielo ed il calore che sprigionava ed irradiava sulla Grande Pianura era niente a confronto di quello che la giovane Savannah sentiva crescergli dentro. Portava avanti una zampa dopo l’altra, senza una meta, ritmando il respiro con il suo lento trotterellare, cercando di far coincidere i dolori dentro il suo ventre con il rumore degli zoccoli sulle dure rocce della Vetta. Damon non l’abbandonava per un attimo, la seguiva accompagnando i suoi passi a quelli di lei, sommando il rumore dei suoi zoccoli ed il battito del proprio cuore a quelli della sfinita compagna. Damon riusciva a tenere sotto controllo contemporaneamente la pianura e la sua compagna, attento che non avessero a sorgere problemi o contrattempi tra i componenti del suo popolo. Risse per il cibo o per nuove conquiste potevano distrarlo dal suo principale interesse, proprio nel momento cruciale dalla tanto attesa e desiderata nascita di un puledrino, bello, sano, nero e con il pelo lungo. Girovagavano inquieti alla ricerca di un luogo che li potesse accogliere per il parto, un posto dove finalmente potersi fermare, con il passo ritmato, tenuto da Savannah per contrastare le pulsioni interne che le stringevano il ventre, si ritrovarono presto a calcare il morbido suolo della pianura, così il loro erede avrebbe avuto quello della pianura come appellativo, preceduto dal nome che avevano già scelto per lui: Aiko.
 
 
All’inizio apparve il naso, due nere narici che fiutarono l’aria ancor prima di sapere che c’era un fuori da trovare, furono il suo saluto alla Grande Pianura e tramite il suo primo respiro cominciò a conoscere la valle che l’avrebbe accolto. Savannah continuava a procedere lentamente, le sue zampe affaticate si trascinavano le une dietro le altre fino a trovare un nuovo ritmo. Passo, contrazione, guizzo in fuori del piccolo Aiko, che cercava di uscire dal ventre pur sempre generoso ed accogliente della madre ma i profumi che cominciava a catturare erano ben gradevoli ed attraenti ed in lui già premeva il desiderio di conoscere questo posto così vario e così, così luminoso. Il muso era infatti completamente uscito e la luce calda e sgargiante di quel giorno di sole colpì gli occhi di Aiko, il piccolo puledro ancora non riusciva a distinguere le forme ma poteva certo notare la differenza fra la luminosità che l’attendeva nella valle ed il caldo ma buio pancione della mamma. Con fatica per entrambi ma con naturalezza e senza intoppi Aiko riuscì a poggiare le zampe anteriori a terra, potè così assaggiare con i suoi zoccoli il sapore fresco della Pianura, poi finalmente sgusciato completamente si ritrovò dritto su tutte e quattro le zampe prima di crollare a terra dopo un breve istante. Damon, che aveva seguito tutto con attenzione si avvicinò al puledrino per far sentire il proprio odore, il proprio calore e il respiro, insieme alla compagna lo carezzarono dolcemente strusciando muso contro muso, per incoraggiarlo ad alzarsi. Ci fu un attimo di timore, le gambe fini come piccoli arbusti tremarono appena poi Aiko si ritrovò in piedi e cominciò a compiere i primi passi, i primi trotterellanti passi ed il primo abbozzo di galoppo prima di franare sopra la morbida erba fra le fragorose risate di Damon e di Savannh. Dopo un primo sbigottimento ed un po’ di risentimento anche Aiko si mise a ridere e finalmente a vivere. Quei primi giorni vicini al proprio puledro fecero ritornare alla mente di Damon ricordi antichi e dolorosi, quelli della sua giovinezza, quando suo Padre Nadir era Ministro del Popolo della Vetta, fedele e laborioso assistente di Salainok, ricordarsi quei giorni fu un po’ come viverli di nuovo, in tutta la loro intensità e fu come riesumare un fantasma sepolto nel tempo.
 
 
Salainok era appena divenuto Capobranco, acclamato a gran nitrito dal popolo della Vetta e benedetto dal gran dio Uin, protettore di tutti i cavalli. Il branco era composto da un centinaio di meravigliosi esemplari molti dei quali ostentavano un pelo nerissimo e lucido a garanzia della loro appartenenza alla Vetta. Fra i più numerosi della Grande Pianura il branco della Vetta occupava anche un posto di rilievo nelle decisioni del Consiglio, il popolo della vetta aveva sempre offerto dei saggi ed onesti consiglieri e per questo era sempre ben visto e rispettato. Già da Ministro Salainok aveva contribuito alla formazione di nuove leggi, sia per la spartizione del territorio che per il controllo della situazione alimentare, contribuendo anche a risolvere particolari problemi anche agli altri popoli. La sua compagna Mariann, finita l’attesa, aveva partorito uno stupendo puledro, nero, dal pelo lungo e dal forte nitrito, gli fu messo a nome Galan e poiché era nato sulla dura roccia sarebbe stato chiamato Galan della Vetta e di li a poche stagioni avrebbe rappresentato la più oscura sventura per tutto il branco e per l’intera Mandria. Galan si sarebbe macchiato delle peggiori infamie mai compiute in tutta la Pianura, già da piccolo la disubbidienza, l’invidia e la cattiveria lo portavano a continue punizioni che col tempo si rivelarono però inutili. Il padre nonostante la sua posizione e le sue forti dottrine, faticava a riprenderlo e addirittura durante una riunione del Consiglio dei Dieci fu proposta l’ipotesi di cacciarlo dalla Pianura e più di uno dei partecipanti si schierò a favore e addirittura il capo del Popolo della Steppa propose di ucciderlo gettandolo dalla cima del Monte Sacro ma era ancora un puledro, acerbo e un po’ troppo ribelle, crescendo avrebbe sicuramente imparato e poi, in realtà, nessuno avrebbe avuto il coraggio di mettere in pratica le pur giuste proposte che erano state lanciate durante quel consiglio, mai era accaduto che un cavallo fosse allontanato dalla Mandria, figuriamoci ucciderlo, il tempo avrebbe sicuramente fatto dimenticare tutto questo e Galan un giorno sarebbe diventato un buon Capobranco. Ma tutto questo non avvenne. Il tempo passava, Galan cresceva e con lui cresceva la sua cattiveria, di notte compiva assurde scorribande tra gli altri branchi per spaventare i piccoli puledri, rubava le scorte di cibo, lottava con i cavalli più deboli, con i vecchi stalloni malati, non era mai presente alle riunioni del branco e tanto meno a quelle della Mandria. Non faceva parte del gruppo, ma la sua indipendenza non era guidata da sani principi Galan cresceva e con lui crescevano la sua cattiveria, il suo odio e la sua invidia nei confronti di Nadir. Lo stallone era il padre di Damon e ricopriva una carica molto importante, era infatti Ministro del Popolo della Vetta, era in pratica colui che vigilava sul branco, che provvedeva a definire gli scontri e che concordava nuove disposizioni e nuove leggi con gli altri Ministri, colui insomma che operava materialmente le decisioni di Salainok e del Consiglio dei Dieci e grazie alla sua carica, soprattutto colui che un giorno ne avrebbe preso il posto. Ma quel posto lo voleva Galan e lo voleva molto presto, non avrebbe atteso certo la morte del padre, figuriamoci se si sarebbe messo in coda dietro a Nadir, Galan avrebbe presto governato il popolo della Vetta e ne avrebbe fatto il popolo guida di tutta la Mandria e lui sarebbe divenuto l’unico e solo capo di tutti i cavalli della pianura e questi lo avrebbero dovuto seguire, onorare, e assecondare.
 
 
L’odio e la follia di Galan arrivarono a fargli architettare un piano per liberarsi di Nadir, galoppando a più non posso lo raggiunse nei pressi del territorio del Lago e ancora trafelato, gli riferì che il figlio Damon si era intestardito nei suoi propositi e nonostante i consigli contrari che egli stesso aveva cercato di dare, era voluto salire sulla cima del Monte Sacro per vedere con i propri occhi il segreto della Vallata. Solo pochi istanti prima invece Damon e Galan erano assieme nella Valle dei Fiori e là Galan aveva cominciato a ricamare il suo malefico progetto.
 
 
Damon e Galan trotterellavano sulla distesa verde, immersa in un fiorile caldo, come poche giornate riuscivano a regalare, l’erba ed i fiori erano un manto variopinto a sfondo verde che si perdeva a vista d’occhio. Gli uccellini volavano cantando, lanciando i loro acuti versi per tutta la valle e le farfalle, come fiori ballerini, sembravano proprio danzare, davanti agli occhi ingenui e curiosi di Damon, al ritmo degli armoniosi suoni di rigogoli, passeri e usignoli. L’aria frizzante entrava dalle narici e pizzicava dentro al naso facendo sentire tutta la sua forza, tutta la potenza della natura, tutto il calore che il sole donava, in quel meraviglioso fiorile inoltrato. Giornate spensierate un po’ per tutti, momenti in cui chiunque si poteva ritrovare a correre dietro alle farfalle, giorni in cui l’amore dava i propri frutti, giorni in cui molte giumente davano alla luce i propri puledri. La stessa epoca in cui, nel ciclo passato, anche Damon e Galan erano venuti alla luce, entrambi in pieno giorno, baciati dal sole, uniti nella gioia della nascita che in breve tempo si sarebbe trasformata però in una sventurata unione di tristi eventi, tristi ricordi e tristi momenti e che li avrebbe cuciti insieme per sempre, da amici prima e da nemici poi.
 
 
Oltre la Valle dei Fiori, in fondo, quasi all’orizzonte guardando verso il sole che sorge, la pianura si interrompeva bruscamente e la dura roccia prendeva il posto dei colori e del verde dell’erba, la scarna pietra scendeva ripida per un lungo tratto e là in fondo dove, così si diceva, nessuno si era mai avventurato si vedevano luccicare le anime dei sacri fondatori della mandria. In realtà un tempo qualcuno era arrivato fino laggiù, era riuscito a tornare ed aveva raccontato ciò che aveva visto. La verità era conosciuta solo dai componenti del Consiglio dei Dieci e dai loro Ministri ed era gelosamente tenuta segreta come tutte le sacre leggende sul Monte Sacro e sul dio Uin, protettore dei cavalli della pianura, che abitava tra le nubi della montagna ed estendeva il suo regno in tutta la volta celeste e le migliaia e migliaia di anime dei saggi cavalli volavano in cielo ogni notte e li si poteva vedere, in forma di stelle luccicanti nel buio del cielo notturno poi, di giorno ridiscendevano sulla terra e si recavano a pascolare nella Vallata, là dove, affacciandosi dalla Valle dei Fiori, li si poteva vedere brillare e luccicare sotto la luce splendente del sole. Nel profondo della gola rocciosa che si formava al di là della Valle dei Fiori alle pendici del Monte Sacro, dalla parte opposta alla Grande Pianura, in quella porzione di pianoro conosciuto come la Vallata, si raccoglievano in realtà le ossa di tutti i cavalli che, vecchi e affaticati avevano arrancato lungo gli stretti sentieri del Monte Sacro e giunti sulla cima, dove si apriva un ampio spazio leggermente degradante verso la vallata avevano, come diceva la leggenda, spiccato l’ultimo salto verso una prateria celeste e piena di stelle protettrici e amiche. I resti dei vecchi cavalli, morti sulla cima del Monte Sacro, erano negli anni scivolati oltre il bordo della montagna ed erano rotolati giù fino in fondo, fino alla Vallata e la si erano raccolte le une sulle altre, stagione dopo stagione, branco dopo branco per tutte le mandrie che si erano avvicendate nella Grande Pianura. Adesso sul fondo della Vallata luccicavano, nelle giornate calde e soleggiate, le ossa di migliaia e migliaia di cavalli, puledri, stalloni e giumente che nel corso del tempo avevano percorso la lunga salita del Monte Sacro, da soli o trasportati malati dai Ministri del Popolo.
 
 
<Ma davvero mio padre ti ha detto questo?> chiese Damon fra un salto e una scrollata.
<Tuo padre mi ha chiesto di accompagnarti qui nella Valle dei Fiori, lui ti avrebbe raggiunto più tardi, alla fine della riunione del Consiglio dei Dieci> confermò mentendo Galan <Tuo padre ha veramente intenzione di rivelarti il segreto della Vallata, purtroppo io devo andarmene via subito, il mio grande padre Salainok mi attende per darmi insegnamenti sul comando, per divenire il nuovo Capobranco della Vetta.>
<Mio padre mi rivelerà il segreto, il segreto della Vallata!> esclamo Damon strabuzzando gli occhi dalla gioia e dalla curiosità <Il segreto, il segreto delle anime di mille cavalli, uau, sai Galan sono proprio felice di questo e sono orgoglioso di meritarmi questo premio da mio padre ma perché mi sono guadagnato un premio, cosa ho fatto per ottenerlo, eh Galan cosa ti ha detto mio padre, cosa ti ha detto?>
<Beh, come dire è una cosa che i padri importanti fanno per i loro figli, tuo padre oggi ti rivelerà il segreto della Vallata, ti racconterà tutto come già da tempo mio padre ha fatto con me> precisò Galan continuando a mentire <poi tu, come me, dovrai conservare il segreto e non raccontarlo mai a nessuno>
<Ma a nessuno nessuno, nemmeno agli altri puledri, nemmeno agli amici>
<No, mai> disse Galan non riuscendo più a smettere di mentire <Anch’io non l’ho mai raccontato a nessuno, adesso potrei tranquillamente svelarti il segreto ma non posso, sarà tuo padre a dirti tutto, solo lui può raccontartelo>
<Va bene va bene non lo dirò a nessuno ma tu…, davvero tu non puoi dirmi niente, dai racconta ,dai solo un po’, dai>
<No!>
<Dai, su dai, solo un pochino pochino>
<Mmmh, vabbè, solo un pochino pochino però eh, solo un po’, anzi no, guarda mi sembra proprio che stia arrivando qualcuno, io sarà meglio che me ne vada, si allora vado, tu aspetta qui che tuo padre arriverà fra poco e ti racconterà tutta la storia del segreto della Vallata, poi fammi sapere eh mi raccomando> aggiunse allontanandosi <io vado, ciao Damon, ciao ciao a presto.>
<Ciao Galan, ciao e grazie di tutto, ciao>
<Ciao ciao, si ciao stupido> mormorò tra sé Galan, ormai lontano <Ciao ciao e aspetta pure tuo padre, che non arriverà mai, no caro mio se tutto fila secondo i miei piani tuo padre non arriverà mai più, ciao ciao sciocco puledrino, ciao ciao> e si gettò al galoppo. Via verso la Vetta, doveva raggiungere Damon al più presto e mettere in scena la seconda parte del piano, dopo essersi preso gioco del figlio adesso doveva trottare a burlarsi del padre.
 
<Presto presto Nadir, presto presto> Galan arrivò trafelato alle pendici della montagna, là dove cominciava il territorio del popolo della Vetta. Nadir trotterellava tranquillamente controllando la pianura e gli avvenimenti pacifici che vi accadevano quotidianamente, pronto sempre e comunque ad intervenire per qualsiasi motivo.
<Cosa c’è Galan, cosa è mai successo> chiese diffidente al puledro, ormai lo conosceva bene e sapeva quanto poco c’era da fidarsi di lui.
<Presto Nadir> riprese trafelato <E’ Damon, è salito, io… ,io, glie l’ho detto di non farlo, ma lui…, lui ha tanto insistito>
<Cosa stai dicendo Galan di cosa stai parlando, per Uin>
<Damon, Damon è voluto salire per il sentiero, è… è voluto salire, io… io non volevo, gli ho detto no… no, non andare ma …non sono riuscito a fermarlo, mio padre, ha detto, mio padre sarà d’accordo, va tutto bene mi ha detto ma io, io… non gli ho creduto e sono venuto qui da te per dirti tutto>
<Allora Galan per favore, se vuoi davvero dirmi tutto ricomincia da capo, parla e fallo con calma, cosa ha fatto Damon?>
<Allora ecco uhmm Damon è salito per il sentiero, ha detto che voleva arrivare in cima, che voleva vedere il luogo da cui tutti spiccano l’ultimo salto, per volare nelle pianure celesti, ha detto che tu lo sapevi o che anche se non lo avessi saputo, sarebbe stato tutto a posto che non c’erano problemi, lui voleva soltanto salire e poi tornare indietro, da solo>
Nadir sapeva bene di cosa si trattava, più di una volta aveva accompagnato cavalli vecchi o malati fino allo spiazzo sulla sommità della montagna e sapeva quanto fosse duro e pericoloso il tragitto che portava fino alla cima ed aveva visto con i propri occhi i corpi di cavalli anziani e stanchi che, saliti sulla montagna da soli, avevano abbandonato i loro corpi lungo il sentiero o erano caduti nei crepacci o nelle strette gole disseminate lungo la strada. Nadir non pose altro tempo in mezzo, partì al galoppo per raggiungere il piccolo Damon per riuscire a fermarlo prima che fosse troppo tardi. Galan si gettò dietro di lui e galoppò faticosamente sulla salita della montagna. Damon intanto non aveva avuto la pazienza di aspettare il padre nella Valle dei Fiori e non era molto distante dai due quando questi si misero a galoppare verso il monte, rimase insospettito dalla scena che vide, così impaurito e incuriosito prese anche lui a galoppare lungo il sentiero che portava in cima al Monte Sacro.
 
Nadir giunse sulla cima del monte, era stanco, sfinito dal veloce galoppo e dall’aver percorso l’intero sentiero in così breve tempo. Più volte aveva salito la montagna ma sempre con calma, accompagnando cavalli stanchi e malati ed alcune volte aveva impiegato un intero giorno per giungere fino alla sommità, là dove si era poi separato da loro dopo amorevoli parole di conforto e di amicizia. Quella volta invece la foga, l’impeto e la paura per il figlio Damon, dettata dal suo irrefrenabile istinto di padre, l’avevano portato sulla cima in pochissimo tempo. Appena arrivato cominciò disperatamente a guardarsi intorno nella speranza di vedere il figlio e di poter intervenire prima che gli potesse accadere qualcosa ma intorno non vedeva nessuno e tutto era silenzio. Quando un filo di fiato ritornò nei suoi forti polmoni, cominciò a nitrire forte per chiamare Damon, il suo era un grido disperato ed impaurito, nitriva, cercava, ascoltava ma intorno a lui c’era solo il vuoto, si avvicinò senza ormai speranza al bordo del precipizio, sicuro ormai di affacciarsi e di riconoscere sul fondo della Vallata il corpo esanime del caro figlio. Galan era ancora molto giovane ma la sua follia e il suo odio lo aiutarono a mantenere la veloce andatura di Nadir, su per lo stretto sentiero, fra le tortuose gole e in mezzo a tutti i pericoli della salita alla cima del Monte Sacro, come Damon anche lui si era più volte ferito scivolando sui friabili sassi del sentiero o colpendo col proprio corpo le dure rocce che lo delimitavano ma per entrambi le ferite ricevute rappresentavano soltanto un ulteriore stimolo a scalare ancora più rapidamente la montagna, Galan raggiunse così il largo spiazzo sulla montagna e vide Nadir sporgersi dal precipizio.
 
 
Damon si addentrò tra le strette viscere del Monte Sacro dietro a Galan e al padre Nadir e lo fece, inizialmente, con tutta la sacralità ed il rispetto che si usa quando il nostro corpo va a disturbare un luogo sacro, i suoi passi erano lenti, cauti, e silenziosi e più il sentiero diveniva ripido e stretto più Damon saliva lentamente, guardandosi intorno impaurito dal luogo e dalla sua importanza, sentiva più avanti i rumori delle veloci cavalcate del padre e di Galan e ad un certo momento, facendosi coraggio, provò a chiamare Nadir, lo invocò ma la sua flebile voce si frantumò alla prima stretta curva del sentiero e non raggiunse le orecchie del padre. A quel punto Damon, un po’ con il cuore, un po’ con la ragione acquistò quella decisione e quella fierezza che lo avrebbero poi contraddistinto da adulto e partì al galoppo, anche se, durante quel tragitto, ancora i suoi giovani occhi avevano da vedere cose molto più spaventose di uno stretto, tortuoso e buio sentiero. Cominciò galoppare incurante del sacro suolo su cui posava i suoi zoccoli anche se la sua andatura era frenata dalla pericolosità e dalla difficoltà del percorso, lungo i lati della stradina vedeva ogni tanto dei piccoli monti di strani sassi con strane forme e più ne vedeva e più si rendeva conto che non erano sassi, fino a che non ne trovò uno con ancora tutte le ossa ben saldate fra di loro e potè rendersi conto di cosa realmente fossero. Cavalli o perlomeno quello che ne restava. Zampe, teste, corpi vuoti e inanimati, tutto ad un tratto il sentiero sembrò ancora più stretto, ancora più buio, le pareti sembravano piegarsi addosso a lui, i rami dei pochi arbusti sembrava che lo volessero ghermire, che si volessero impossessare di lui, sembrava desiderassero fermare la sua cavalcata verso la cima, verso il luogo dove suo padre lo stava cercando, riconobbe il nitrito di Nadir che invocava il suo nome, suo padre si disperava e Galan, il suo strano e temibile amico, era con lui. Ma erano insieme per lo stesso scopo o avevano due diversi desideri da soddisfare, quelle insistenti e maldicenti voci sulla superbia del suo amico Galan erano false o avevano un fondamento di verità. Non si rese conto allora e ripensandoci non si è mai saputo dare una risposta, se fu la paura di quel luogo sacro e misterioso, se fu la rabbia verso quel Galan che lui credeva amico o l’amore per il padre ma le sue zampe misero letteralmente le ali, i suoi zoccoli non toccavano il suolo sembrava come trasportato dalle forti aquile della Vetta. La sua corsa fu però inutile, giunto alla fine del sentiero appena affacciatosi sul largo spiazzo alla sommità del monte, la scena che gli apparve dinanzi fu la più straziante e dolorosa che i suoi occhi avrebbero mai visto.
 
 
I due cavalli stavano lottando furiosamente, Galan aveva sorpreso Nadir proprio vicino al precipizio e adesso stava cercando di gettarlo di sotto con tutta la sua prepotenza e la sua folle rabbia. I due non si risparmiavano i colpi, fieri e imbizzarriti l’uno davanti all’altro, con gli zoccoli che scalpitavano sullo spigolo del dirupo, feriti in più parti del corpo dalla corsa lungo il sentiero, dalla lotta, dai morsi e dai calci che si scambiavano con grinta e con furore ma alla fine fu una mossa di Galan a terminare la lotta, con le zampe posteriori si puntò e con quelle anteriori riuscì a colpire Nadir che fu spinto nel vuoto della Vallata. Si udì un atroce nitrito e poi solo la voce di Damon che gridava il nome di suo padre.
 
 
E fu gridando che Damon percorse all’indietro il sentiero e ritornò sfinito e sgomento verso la valle, i suoi nitriti si sentirono per tutta la Grande Pianura, amplificati dalle strette gole della montagna si riversarono, come un fiume in piena, verso le orecchie dei cavalli che stavano placidamente pascolando. Tutta la mandria si riversò alle falde del monte incontro ai nitriti disperati di Damon, nessuno riusciva a capire cosa stesse mai succedendo e quando il figlio di Nadir apparve furono tutti colpiti dal tormento che gli si leggeva sul muso.
<L’ha ucciso> gridò <Galan ha ucciso mio padre Nadir!>
La mandria cominciò prima a mormorare e poi a sollevarsi.
<Come è mai potuto accadere?> c’era chi si chiedeva.
<Io lo sapevo che quello era un poco di buono!> c’era chi esclamava.
<Presto cerchiamolo> gridavano i cavalli imbizzarriti
<Dov’è andato?> chiedevano.
<Chi lo ha visto?> domandavano.
<Dobbiamo cercarlo, presto organizziamo delle squadre>
<Popolo della Steppa seguitemi> nitrì il loro Capobranco
<Voi del Lago, da questa parte>
<Cavalli della Steppa al galoppo>
<Presto branco della Vetta cercate mio figlio> nitrì Salainok <E che sia fatta per lui la giustizia che merita> aggiunse demoralizzato e sconfitto l’umile Capobranco.
Il popolo della Vetta e la mandria tutta rimasero sbigottiti nell’ascoltare le parole del povero Salinok ma la su fedeltà al popolo della Grande Pianura andava al di là di ogni altro diritto ed inoltre l’affronto subito da Nadir, dalla sua famiglia, dal suo popolo e dall’intera Mandria era arrivato nel profondo del suo cuore ed aveva colpito duro. Non era mai riuscito da solo a controllare e contrastare il proprio figlio ed era riuscito a non farlo cacciare credendo in cuor suo che un giorno sarebbe cambiato ma le sue speranze erano risultate vane e sentiva sua la colpa della morte di Nadir. Se avesse fatto esiliare Galan, quel giorno, adesso non avrebbe potuto uccidere il suo fedele compagno, anche perché sicuramente gli scopi della sua azione sarebbero venuti a mancare. Salainok aveva intuito che suo figlio voleva impunemente impossessarsi della Mandria e di tutta la Grande Pianura.
 
 
Il Consiglio dei dieci si riunì frettolosamente ed in quella breve, concitata e triste riunione fu deciso di esiliare per sempre Galan dal teritorio della Grande Pianura e che la trasgressione a tale ordine sarebbe stata punita con la morte, nonostante sapessero che nessuno avrebbe avuto il coraggio di ucciderlo, anche se in molti avrebbero gradito affrontarlo in un combattimento ad armi pari. Da quel giorno Galan divenne il fantasma della pianura, le madri impaurivano i propri turbolenti puledri minacciandoli di chiamarlo per portarli via o ricordandogli che sarebbero diventati come lui e di conseguenza scacciati dalla pianura, se non avessero obbedito. Il povero Salainok subiva senza ribellarsi questa umiliazione, sempre più debole, sempre più chiuso in se stesso, in quello stato d’animo che, in pochi cicli di stagioni lo avrebbe poi portato alla morte tra le sofferenze dei sensi di colpa e l’immensa tristezza per quanto accaduto a suo figlio e al suo caro amico Nadir. La vita nella pianura riprese a tranquillizzarsi dopo pluviale mentre la stagione di nevaio, che quell’anno sarebbe stata particolarmente rigida, già faceva sentire i primi freddi. Ogni tanto qualcuno diceva di aver visto Galan, o di aver sentito il suo folle nitrito ma dopo un po’ di tempo rimase solo una leggenda, almeno per tre cicli di stagioni, fino a quel fiorile che vide la morte di Salainok, la proclamazione di Damon a Capobranco e la nascita di Aiko.
 
 
Quel mattino Aiko riuscì a convincere Savannah e Damon a lasciarlo giocare da solo nella Valle dei Fiori, più di una volta si era recato tra i magnifici colori del prato fiorito con i propri genitori e come tutti i puledrini era affascinato dall’arcobaleno di piante che si distendeva immenso dalla pianura fino al costone della Vetta da una parte e alla tetra Vallata dall’altra. Forse era proprio quel miscuglio di cose che rendeva così appetibile la Valle dei Fiori a tutti i piccoli. Colori, fiori, profumi, insetti di tutte le dimensioni e anch’essi colorati, che svolazzavano o saltellavano e poi la dura roccia su un versante e la leggenda delle anime luccicanti che abitavano la Vallata sull’altro. Gira, gira, trotta o galoppa i puledri finivano sempre a rimirare a bocca aperta, i luccichii che si riflettevano sul lontano fondo della valle proibita. Non era un cosa particolare che Aiko andasse da solo nella Valle dei Fiori, in fondo era il luogo di ritrovo per giochi e passatempi fra i piccoli cavalli della pianura che, appena erano abbastanza grandi da poter ritrovare la strada per il loro territorio e dopo una lunga serie di preghiere e di musi imbronciati riuscivano a strappare ai loro genitori il permesso di galoppare da soli tra i fiori colorati. Aiko stava trottando con gli altri puledri, scorrazzavano in lungo e in largo rincorrendo farfalle, cavallette, api, solcando quel mare verde pieno di macchie colorate. Gira gira, anche Aiko finì al bordo della valle e si ritrovò a cercare i luccichii di cui tutti parlavano, nel bene e nel male, misteri, leggende, il dio Uin, la Vallata era il luogo da cui, si dice, provenivano i cavalli ed il luogo, si precisava, in cui sarebbero tornati e la cima del Monte Sacro era il trampolino per la pace che la valle sottostante prometteva e Aiko ne era attratto quanto la misteriosa valle, se non di più, la sua curiosità e la sua fantasia lo facevano galoppare anche nei pensieri e aveva già formulato a suo padre il desiderio di salire sul Monte Sacro. Aiko era completamente assorto nei sui pensieri, già si vedeva sulla vetta del monte a rimirare le anime luccicanti dei cavalli di tutti i tempi e non sentì che gli si stava avvicinando un cavallo fino a che non percepì il calore del suo fiato proprio sul collo. La sorpresa e l’essere colto in flagrante a sbirciare nella Vallata erano cause sufficienti a fargli fare un bel balzo di paura ma la vista di quell’orribile essere lo congelò con gli zoccoli piantati per terra.
<Ciao, tu devi essere Aiko?> gli domandò quell’incredibile stallone nero e peloso, completamente ricoperto di cicatrici, con un occhio quasi del tutto chiuso e senza un orecchio.
<Ss….s….sss….ssss….sì> riuscì a rispondere il puledro <Eeeee t…tt…tu cccc….ccc…..cccchhhiii sss….ssss….sseiiii?> cercò di chiedergli.
<Io sono colui che non puoi vedere, sono l’errore della Mandria, sono colui che sa, colui che potrebbe liberare la mandria intera dall’insulso potere del Consigli dei Dieci, colui che ne avrebbe il diritto> terminò quasi ringhiando e Aiko ebbe un fremito di paura ma poi scovò il coraggio che viveva libero nel suo sangue e dopo i primi tremiti cominciò a parlare tranquillo.
<E qual è il tuo nome?> chiese.
<Il mio nome te lo posso dire certo, come ho potuto farmi vedere da te, ma tu devi promettermi che non rivelerai a nessuno di me e del nostro incontro>
<Prometto> esclamò subito Aiko.
 <Ma si e io dovrei credere ad una promessa così impulsiva, così immediata di un piccolo puledrino bugiardo che non vede l’ora di andare a raccontare tutto ai propri amici per farsi grande con loro e magari anche ai propri genitori, magari a tuo padre Damon!>
<Ma… ma…tu come fai a sapere come mi chiamo e… e come fai a sapere come si chiama mio padre e come fai…>
<Io sono l’anima della Mandria, io so tutto di tutti> lo interruppe <io seguo tutto vedo tutto e conosco la vita pubblica e segreta di ogni abitante della pianura, conosco i nomi di tutti e i loro guai. Allora prometti!>
<Si lo prometto, su Uin e… e sul Monte Sacro, prometto che non rivelerò a nessuno di te e del nostro incontro> continuò quasi lusingato il povero Aiko, ignaro del guaio in cui si stava cacciando <prometto che non rivelerò il tuo nome e prometto… a proposito, qual’è il tuo nome, ancora non me lo hai detto>
<Io sono Galan, Galan della Vetta> e galoppò via.
Galan non si fece più vedere da Aiko per un intero ciclo di stagioni ma era sicuro di aver inciso in lui un profondo solco di curiosità, Aiko non parlò mai a nessuno di quell’incontro, né ai genitori né agli altri puledri, conservava geloso il suo segreto, convinto che quello strano e disastrato stallone sarebbe tornato per terminare quello che aveva cominciato, anche se il cavallino non aveva la più pallida idea di cosa fosse ciò a cui Galan aveva dato inizio. Da allora ascoltava con passione e con interesse tutte le leggende che riguardavano il suo misterioso amico, Galan aveva fatto questo, Galan aveva fatto quello, chi l’aveva veduto compiere salti inimmaginabili, chi lo aveva sentito nitrire con voci inudibili ma nessuno mai parlava di ciò che realmente era accaduto, nessuno osava ricordare cosa veramente Galan aveva fatto, quale ignobile e dissacrabile atto avesse mai compiuto, così Aiko trascorse le stagioni aspettando, crescendo e attendendo il ritorno di Galan.
 
 
E Galan tornò. Il fiorile successivo Galan posò di nuovo i suoi zoccoli sulla morbida terra della Grande Pianura, era venuto per completare ciò che aveva cominciato. Aiko vide la sua ombra lontano sull’orizzonte, poteva essere quella di qualunque altro cavallo ma lui lo riconobbe immediatamente, lo riconobbero la sua passione e la sua curiosità, adesso sapeva che avrebbe saputo, presto i segreti della leggenda di Galan e del Monte Sacro gli sarebbero stati svelati. Sentiva nel profondo del suo cuore che qualcosa non andava, che il suo silenzio non avrebbe dovuto essere tale; le stagioni erano passate e lui aveva costantemente sentito una flebile vocina, proveniente dal cuore, che gli diceva di parlarne, almeno con suo padre Nadir, parlarne. Ma la sua curiosità e la sua bizzarria di puledrino gli avevano fatto ogni volta dimenticare quel consiglio che gli giungeva da dentro, adesso era più che mai curioso e più che mai impaurito da quello che sarebbe potuto accadere e ciò lo frenava e lo spronava allo stesso tempo.
 
 
Galan sparì ed il giorno successivo mostrò di nuovo la sua ombra, stagliata contro il sole sorgente, lontano oltre i margini della pianura, oltre la Valle dei Fiori, oltre la Vallata. Scomparve di nuovo e di nuovo riapparve il mattino dopo e così fece per i giorni successivi, certo che quel suo mostrarsi e nascondersi avrebbe, ancor di più e definitivamente, attratto Aiko nella trappola che gli stava tendendo. Poi un mattino, mentre stava trotterellando lungo il confine della Vallata, Aiko se lo ritrovò davanti, silenzioso come un fantasma, gli si era avvicinato come un serpente che, invece che camminare sugli zoccoli, striscia sul proprio ventre e questo lo fece attraversare da un brivido di terrore.
<Salve a te Aiko>
<Sa…sa…salve, Galan… Galan della Vetta> lo salutò il puledro.
<Sento con piacere che ti ricordi il mio nome> prese a dire subdolo il vecchio stallone. <Non tutti si ricorderebbero il nome di un cavallo conosciuto chissà quante stagioni prima, è denso di onore questo tuo saluto>
<Sai, ho pensato molto a te in tutto questo tempo e…>
<Anch’io ho pensato a te, ti ho pensato moltissimo> lo interruppe Galan <Ho pensato e alla fine ho deciso che era giusto che tu sapessi tutto di me, della mia leggenda e della mia storia ed io tutto ti racconterò, tutto il male che mi è stato fatto, tutto ciò che mi è stato tolto, tutto ciò che tuo padre mi ha portato via. Vieni piccolo Aiko, vieni con me, saliamo in cima al Sacro Monte del dio Uin, saliamo insieme sulla vetta di questa montagna così piena di misteri e di segreti da svelare e mentre percorreremo il Sacro Sentiero ti racconterò come sono andate veramente le cose>
Galan ed Aiko, si incamminarono non visti verso l’inizio del sentiero che li avrebbe portati sulla cima, qualcuno da lontano forse notò l’incontro ma nessuno avrebbe potuto capire cosa stava accadendo e nessuno poteva immaginarsi chi e cosa stavano facendo così vicini all’imbocco del Sentiero Sacro. I due cavalli si addentrarono per lo stretto passaggio e presero a salire verso la vetta della montagna e Galan cominciò a raccontare la sua storia, mentiva ed inventava spudoratamente, mantenendo quel suo non rispetto verso la Mandria e verso la grande Pianura. Riuscì a ricostruire tutta la storia invertendo le parti, come se fosse stato Damon ad uccidere il padre Nadir. Aiko ascoltava incredulo ed il suo senso giovanile di ribellione verso i genitori ed il padre in particolare, si cibava delle menzogne che Galan gli porgeva come del cibo prelibato, ad ogni falsa cattiveria raccontata, l’orgoglio di Aiko si gonfiava e lo faceva ripensare ad ogni volta che suo padre gli aveva proibito qualcosa, al fatto che vista la sua importante carica all’interno del branco, anche lui come figlio doveva comportarsi in un modo opportuno, non andare di là, vieni qua, non fare questo, fai quello, facile comandare un puledrino ignaro quando si sono compiute cose orribili come quelle che Galan gli stava raccontando.
<È tutto vero, di me ti puoi fidare piccolo Aiko> concluse Galan <Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo ma visto che tuo padre non ti raccontava niente, ho creduto meglio per te che qualcuno ti facesse sapere come erano andate veramente le cose, adesso continua pure da solo per il sentiero, trotta fino alla fine e attendimi sullo spiazzo che troverai sulla cima, io adesso torno indietro, ti preparerò una sorpresa, una gradita sorpresa, tu aspettami sulla vetta ed io ti mostrerò le prove di tutto ciò che ti ho raccontato>
<Devo proseguire da solo?> chiese intimorito Aiko.
<Certo, non avrai mica paura, un bel puledrino forte e grande come te non avrà mica paura delle leggende, non hai niente da temere da questo sentiero, vedrai cose orribili ma non ti potranno fare alcun male, continua pure coraggioso Aiko, continua> lo esortò ironico Galan <Va attendimi sulla vetta ed io ti porterò colui che sa la verità quanto me> e galoppò via.
 
 
Aiko riprese la salita verso la vetta del Monte Sacro e quello che potè vedere era veramente orribile, come aveva fatto suo padre prima di lui stava percorrendo quella strada in un età troppo acerba per capire e per comprendere con esattezza ciò che vedeva, i corpi dei poveri cavalli che stremati nelle forze si erano abbandonati ai lati del sentiero lo atterrivano e mescolandosi con le fandonie che Galan gli aveva raccontato provocavano in lui incubi ad occhi aperti, vedeva suo padre scalpitare, scalciare, mordere ed uccidere tutti quei poveri cavalli innocenti, uno ad uno li aveva trascinati lì con l’inganno e li aveva uccisi per ottenere onori, gloria e potere che altrimenti non avrebbe mai avuto. Trotterellava tutt’altro che sereno e preso dai sui sconvolgenti pensieri arrivò al largo da cui si dominava la Vallata, l’altro misterioso arcano del popolo della Grande Pianura, da lassù si vedevano ancora meglio i luccichii delle anime dei cavalli, anche se si capiva ancor meno cosa fossero. Il terreno era molto pericoloso, lo slargo era colmo di corpi di cavalli e di ossa ancora salde fra di loro o sparpagliate informi e sbriciolate. Lo spiazzo era leggermente degradante verso lo strapiombo e tutto ciò che veniva colpito dai suoi zoccoli rotolava via oltre il precipizio. Aiko pensava e pensava e lentamente si stava ripulendo di tutte le oscenità che Galan gli aveva propinato, perché mai suo padre avrebbe dovuto fare ciò che quell’orripilante cavallo gli aveva raccontato, suo padre non era cosi , suo padre era buono e solo cose buone aveva insegnato a lui e più volte si era reso conto da solo che ciò che suo padre gli proibiva o gli ordinava, era perché lui crescesse sano e coscienzioso, non per cattiveria o per malvagità. Poi aveva sentito dire più di una volta che Damon accompagnava i vecchi cavalli per il sentiero e che lo faceva per aiutarli, per aiutare il loro spirito ad arrivare fino lassù per poi poter morire in tranquillità e spiccare quel salto che li avrebbe portati nel regno di Uin. Certo le ossa che vedeva erano quelle degli anziani cavalli che venivano sulla vetta a morire e poi, si certo poi i poveri resti scivolavano lentamente e poi, si poi cadevano di sotto, si certo spiccavano il grande salto e poi, si poi le ossa cadevano giù nella vallata e si accatastavano le une sulle altre, montagne intere di ossa che si rompevano, che si sbriciolavano e che luccicavano poi sotto il sole come se fossero le anime degli stalloni morti. Quella era la verità, quella verità che suo padre conosceva, che ogni Capobranco conosceva, che ogni Ministro conosceva che la Mandria ignorava, perché la verità vera era che se anche le cose stavano come lui aveva capito, la verità vera era che il grande salto si compiva davvero e che nel regno di Uin tutti avrebbero galoppato felici e le loro anime sarebbero discese nella vallata a scaldarsi al dolce calore di solare e nelle tiepide mattine di nevaio. Quello che lui poteva vedere era vero ma era solo la rappresentazione materiale della vera verità. Ormai non aveva più bisogno di discorsi di prove o di racconti di vecchi cavalli frastornati e folli, voleva solo tornare indietro e raccontare tutto a suo padre Damon e a sua madre Savannah. Cominciò così a ridiscendere il sentiero ma si perse tra le gole della montagna proprio mentre suo padre passava galoppando a più non posso e nitrendo il suo nome. Aiko lo udì e ne seguì il suono e in quel momento capì cosa era veramente accaduto.
 
 
Quando Damon se lo ritrovò davanti credette più di vedere un fantasma che un cavallo vero e proprio. In fondo la sua esistenza era stata segnata dalla presenza di Galan e Galan, ogni tanto, era già venuto a trovarlo nei suoi sogni più agitati, nei suoi incubi; lo rincorreva lungo il sentiero del monte sacro, lo raggiungeva sulla cima per lottare ed ogni volta Damon precipitava sul fondo della Vallata nitrendo e scalciando e scalciando si risvegliava con il corpo coperto di sudore e la schiuma alla bocca. Quella volta però era vero e quando Damon se ne rese conto ebbe un brivido di paura.
<Bentornato, beh dico almeno bentornato lo si può dire ad un vecchio amico> cominciò sarcastico Galan <Cosa c’è ti sei morso la lingua, oppure non hai più parole buone per il tuo caro vecchio amico Galan, quello con cui galoppavi da puledrino, ricordi Damon ricordi il passato?>
Damon era combattuto tra la rabbia e il timore, non capiva cosa volesse Galan e aveva paura di saperlo.
<Perché sei tornato…> chiese.
<No no no, non perché sei tornato ma… perché sei tornato Galan, è forse questa la domanda che volevi porgermi? E’ così?>
<Cosa vuoi da me… Galan, cosa vuoi dalla Mandria, quello che ti era stato dato tu lo hai rifiutato. Saresti stato un buon Capobranco, avresti avuto il posto che adesso è mio ma a te non bastava non volevi amministrare, tu… tu volevi comandare, volevi dominare, volevi dettare legge, volevi farla tu la legge a tuo uso e consumo; quello che la Mandria poteva offrirti non lo hai gradito, adesso… adesso cosa vuoi, perché sei tornato, perché sei tornato Galan?>
<Tuo figlio….>
Al solo sentire quelle parole Damon non ebbe bisogno che fosse aggiunto altro, le intenzioni di Galan gli apparvero chiare come se lo avesse sempre saputo e se lo fosse tenuto nascosto e segreto in un angolo della mente, in un angolo del cuore. Galan era tornato a concludere ciò che aveva cominciato, quando uccise suo padre Nadir avrebbe dovuto uccidere anche lui e adesso era tornato per farlo e probabilmente si sarebbe servito di Aiko per questo o peggio ancora avrebbe ucciso anche il giovane puledro. Ma lui era li per impedirglielo ed in quel momento prego il dio Uin che Aiko fosse ancora vivo.
<Dov’è Aiko? Cosa hai fatto a mio figlio, dov’è Aiko, dov’è?> chiese Damon fra l’imbizzarrito e l’angosciato per la sorte del suo puledrino.
<Calma, calma vecchio mio> cercò di acquietarlo Galan <Tuo figlio è sano e salvo, illuminato dalla mia verità, sano, salvo e trotterellante sulla cima del Monte Sacro>
<Prega il dio Uin che mio figlio stia bene davvero, altrimenti te ne avrai a pentire Galan. Così Aiko sarebbe sulla cima della montagna, che insulso e diabolico scherzo vuoi giocarmi questa volta Galan, quanto ancora vuoi continuare a mentire, quanto ancora a fare del male a me, alla mia famiglia, alla Mandria> continuava disperato Damon <Dov’è mio figlio Aiko, dov’è Galan rispondimi e fallo con la verità>
Galan non rispose, lanciò un diabolico nitrito e si mise a galoppare veloce verso il Monte Sacro e di lì prese a salire per il sentiero e Damon lo seguì disperato, angosciato ma pronto a tutto e soprattutto attento, aveva da tempo imparato a non fidarsi di Galan ma adesso doveva seguirlo doveva vedere con i propri occhi, ne andava della vita del suo cavallino, così prese a galoppare dietro Galan più veloce che poteva e nitrendo a più non posso il nome di suo figlio Aiko.
 
 
Damon arrivò per primo sulla cima della montagna schiumando di sudore e di rabbia, nitriva disperato il nome di suo figlio e giunto sullo slargo che si apriva sulla vetta, si rese conto che Aiko non era sulla montagna, nel suo cuore sperò che fosse tutta una messa in scena, che Galan e Aiko non si fossero mai incontrati e che il suo puledrino non fosse mai salito sul Monte Sacro, mentre una vocina disperata gli diceva che Aiko era precipitato sul fondo della Vallata e giaceva senza vita fra le ossa degli antichi abitanti della Pianura. Non ebbe modo però di piangere o disperarsi, perché l’arrivo precipitoso di Galan lo riportò ad affrontare l’immediatezza della situazione, doveva tirarsi fuori da quel guaio e farlo velocemente per dedicarsi quanto prima alla ricerca di Aiko. Galan era sorpreso almeno quanto Damon di non trovare il puledro ad attenderli, aveva veramente creduto di essere stato convincente con lui, di averlo raggirato bene bene e di averlo portato dalla sua parte, sarebbe stato meraviglioso uccidere Damon mentre suo figlio gli dava del bugiardo ma a quel punto si sarebbe accontentato di ucciderlo e basta, poi avrebbe pensato al maledetto figlio di Damon e avrebbe sistemato per sempre anche lui, nessuno sarebbe scampato alla sua vendetta.
 
 
<Cerca, cerca pure. Tuo figlio non è qui adesso ma c’è stato e sicuramente è nei dintorni, a questo puoi credere davvero e…>
<Credere a te Galan è difficile veramente, anche se c’è stato un tempo in cui io ti credevo, ti credevo amico, ti credevo parte della Mandria e amico mio e degli altri puledrini che, come noi, avevano voglia di crescere e diventare neri e forti stalloni ma a te non è bastato …>
Galan si avvicinava minaccioso a Damon ed entrambi erano molto, troppo prossimi al precipizio.
<Finiscila Damon sei patetico, i puledrini, gli stalloni, il dio Uin, bla, bla, bla, tuo padre era un ostacolo per me ed ha fatto la fine che doveva fare, tu sei un ostacolo adesso, un ostacolo al mio orgoglio ferito e farai la fine che avresti dovuto fare allora!>
Detto questo Galan si gettò addosso a Damon e i due cominciarono furiosamente a lottare. Calci, morsi e spinte non si risparmiavano, Damon cercava di difendersi dai colpi e allo stesso tempo di mettere Galan a distanza per cercare una diversa via d’uscita a quell’immenso guaio in cui erano precipitati. L’avversario invece si era gettato a corpo morto nella lotta, non risparmiava niente di se, utilizzava tutte e quattro le zampe per colpire il suo avversario, utilizzava il suo morso per indebolirlo e la sua forte mole per avvicinarlo sempre di più al burrone che li attendeva silenzioso a pochi zoccoli da loro.
Damon era ormai sull’orlo del precipizio e Galan si era drizzato sulle zampe posteriori cercando di sferrargli un ultimo e decisivo colpo. Fu in quel momento decisivo che Aiko, presente allo svolgimento di tutta la scena si gettò al gran galoppo verso di loro, nitrendo il nome di Galan. Il perfido cavallo si voltò sorpreso verso quel nitrito e fece appena in tempo a vedere Aiko galoppargli contro, poi dritto in tutta la sua opprimente mole, in precario equilibrio sulle zampe ormai stanche, fece quel passo che non avrebbe mai dovuto compiere ed il suo zoccolo mancò, quanto fu sufficiente, il bordo di roccia che lo separava dal burrone.
 
Un nitrito folle accompagnò la caduta di Galan e un tonfo sordo ne confermò l’arrivo sul fondo della Vallata. Padre e figlio si ritrovarono l’uno accanto all’altro, sconvolti ma finalmente uniti, per sempre.
<Padre, io… io avrei… avrei qualcosa…qualcosa da dire…>
<No Aiko, io, io avrei avuto qualcosa da dirti di cui tu ormai sei già al corrente, vieni, avremo molto tempo per parlarne ancora, adesso andiamo, tua madre ci starà sicuramente cercando e noi, noi abbiamo qualcosa da raccontargli, a lei e a tutta la mandria; dobbiamo dire loro come va a finire la leggenda, la leggenda del cattivo Galan, quella che si è conclusa grazie al tuo cuore ed alla tua prontezza>
L’incubo era finito, la Grande Pianura era finalmente libera dal tormento del malvagio cavallo. Il puledrino, ancora colmo di rabbia, si affacciò allo strapiombo a cercare più in basso la macchia scura del corpo ormai senza vita di Galan e contro di lui, nitrì con tutto il fiato che aveva in gola:
<Io sono Aiko, Aiko della Pianura!>

 

FINE


22 MAGGIO 2000


LA COLLANA DI PERLE
 

              Le parole da sole

              non hanno valore

              ma possono divenire

              realtà.



 

              Scivola fra le mie braccia

              sì che io possa amarti

              per l’eternità.
              Stupido tempo

              che non si ferma

              a guardare l’alba

              negli occhi dell’amore.



 

              Come angeli testardi

              continueremo ad amare

              e per sempre.



 

              A volte

              due cuori lontani

              si fanno c

28 MAGGIO 2000

X CONCORSO NAZIONALE DI POESIA "DANIELA PAGANI - MANUELA MASI" - C.A.L.C.I.T. CHIANTI FIORENTINO - BAGNO A RIPOLI (FI)
ATTESTATO DI PARTECIPAZIONE CON LE POESIE "LAVORI IN CORSO", "LEGGIMI" E "SOLO" TRATTE DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"

GIUGNO 2000

LONDRA E LA CORNOVAGLIA
Che Fisico!

The Tube, Mind the gap!

28 LUGLIO 2000

1° EDIZIONE CONCORSO ARTISTICO LETTERARIO NAZIONALE "CITTA' DI CASTELLANA GROTTE - VITO DE BELLIS" - CASTELLANA GROTTE (BA)
ATTESTATO DI PARTECIPAZIONE SEMIFINALISTA PER IL RACCONTO "SCHICCOLINA"
AGOSTO 2000

PRAGA E I CASTELLI DELLA BOEMIA

28 AGOSTO 2000

XLI EDIZIONE PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA "S.DOMENICHINO" - CITTA' DI MASSA MARINA DI MASSA (MS)
PUBBLICATO IN ANTOLOGIA CON LA POESIA "ANGIOLIN BELLIN BELLINO" TRATTA DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"

11 SETTEMBRE 2000

Della vita

 e altre storie



E’ già stato detto tutto
ma qualcuno
non ha ancora capito.

La vita
è un gomitolo di lana
che si dipana
tra le grinfie di un gatto dispettoso.

Anche chi insegna
ha sempre qualcosa da imparare.

Stanco tornai
della stanchezza d’esser ritornato.

Non sono sensi di colpa
davvero siamo in debito con il mondo.

C’ero
perché ho vissuto
od ho vissuto perché c’ero.

Anche il grano migliore
viene mietuto.

Non c’è piacere
per chi non vuol godere.

La vita
è una maschera crudele
con un naso molto lungo.

Disegni la tua mappa
per un auto
che non sarai tu a guidare.

Chi disprezza la gioventù
vorrebbe riaverla.

La vita
è un campo arato
in cui seminare il tuo futuro.

Quello che hai dentro
non devi per forza
averlo imparato.

La donna
è un opera d’arte
da ammirare in silenzio.

La vita
è così immeritoria
che vale la pena di viverla.

Non guastò il male
quanto ne sanò il bene.

Il piacere
finisce prima di venire a noia.

Il mondo
è una cartolina
da guardare dall’alto
e da vivere dentro.

Cosa effimera è la gioia
in confronto alla pace del nirvana.

La vita
è un cocomero insipido
e pieno di semi.

È nel momento di maggior quiete
che nascono le idee più vulcaniche.

Si può camminare
anche sui vetri rotti
l’importante e non mettersi a correre.

La pace
si misura con i pensieri
la rabbia con le parole.

Difficile è per l’uomo
restare al passo con il progresso.

Approfitta del mondo
altrimenti il mondo approfitta di te.

La mente
va più veloce
di quanto la mano
possa mai scrivere.

Felicità
è il volto ridente di un vecchio
in mezzo a tanta gente.

Non sei tu l’autista
ma puoi scegliere
il percorso e le fermate.

Benedetti voi che soffrite
domani avrete in dono
tutta la gioia della terra.

La pace infine
non darà mai
ciò che dette l’entusiasmo.

La realtà
è figlia di chi ha paura
la fantasia
di chi osa troppo.

Non è il bisogno
che fa trottar l’amore
è il piacere.

L’immortalità
è un dono della prossima vita.

Il pane rubato
è amaro
e non toglie la fame.

La realtà
è un arma impropria
di coloro che si credono normali.

Il piacere di oggi
è la noia di domani.

Il dolore
è la cava delle gioie.

Non è facile dire tutto
e il contrario di tutto.

Il tuo profumo
è la passione prima
e la pace poi.

Mai non fece il male
quanto potè il bene.

La realtà
è ciò che fai
non ciò che credi di fare.

La vita
è un campo arido
da innaffiare con le lacrime.

Immortale sono
se quel che mi resta di me
è un buon ricordo.

L’interesse
è l’elettricità della vita
il desiderio la sua dinamo.

In un mondo
che non avrà più bisogno degli uomini
chi darà loro da mangiare.

Più guardo i figli degli altri
più picchierei i genitori.

Volevamo girare il mondo
e il computer ce lo ha portato in casa.

Vita ingorda
che mangiasti gli anni
e lasciasti solo gli ultimi pochi secondi.

Meglio cento giorni di pace
che uno di arroganza.

Nutro il mio corpo con la bocca
e la mia anima con occhi ed orecchie.

Non è sufficiente essere vivi
bisogna anche vivere.

Che amor non sia il tuo nome
ma il nome tuo sia amor.

Nutro il corpo
con la mia bocca
l’anima con la tua.

Piangiamo i morti
finché non c’è da ridere dei vivi.

Possiamo denigrare un uomo
senza odiarlo
ed ammirare una donna
senza amarla.

La realtà è razionale
la verità onesta.

La musa
è quell’essere azzurro
che ti permette di parlare d’altro
e non di lei.

Manderei tutti al rogo
ma non avrei il coraggio
di accendere il fuoco.

Difficile
che l’amore ci dia la forza
d’esser con gli altri
migliori
di quello che crediamo gli altri
siano stai con noi.

Non so più degli altri
ho solo il coraggio di dirlo.

Su di un isola deserta
il più brutto degli uomini
amerebbe riamato
la più brutta delle donne.

Sono gli eventi
a portarci a delle scelte
e le scelte
produrranno nuovi eventi.

Ti ispiri in un tramonto
per la donna che ami
poi la donna che ami
ti ispira un bel tramonto.

La razionalità
è nemica dell’arte
come i sogni della realtà.

La vita
è una bagnarola rugginosa
carica di clandestini.

Che me ne importa di morire
se ho vissuto.

Il colpevole
si può pentire
ma l’innocente
non potrà mai capire.

La poesia
è un mistero
chiuso dentro le parole.

Io sarò narciso
ma gli altri
non sono tutti belli.

Chi finisce la carta
è bene che cambi il rotolo.

Strano il mondo
si accanisce contro Dio
e ringrazia la fortuna.

Un atto d’amore
è un sacrificio immenso
inutile e incomprensibile per gli altri.

Prima si mette in ordine
poi si lavora.

Non è gioire della pace
ma non adirarsi dell’infelicità.

Meglio rubare
un attimo di piacere
che avere in regalo
una vita di noia.

Non fu mai tardi
finché fu fatto in tempo.

C’è qualcuno
che sa tutto ciò che facciamo
e noi crediamo che veda
solo quello che mostriamo.

Chi è più infelice
il cane bastonato
il bastone
o il padrone che picchia?

La vita è una guerra
non ci rimane che combatterla.

Chi puntò l’indice
se lo ritrovò nell’occhio.

In amore
non si ruba
si conquista.

Non c’è errore peggiore
di quello che crediamo
di non aver commesso.

Per parlare di
cosa
devo essere
cosa
e amare
cosa.

I pensieri
sono come parole
tracciate sulla sabbia
resistono fino alla prossima onda.

Quando compiamo un’azione
non sappiamo
a quanti danni e a quante grazie
può dar vita.

Non puoi aver amici
se tu non sei amico
ma gli amici tuoi
non sempre hanno per amico te.

Si può esser disonesti negli affari
ma non lo si può esser negli affetti.

Felicità
è una goccia d’amore
in un mare di lacrime.

Tanta stoltezza
nell’urlare
quanta saggezza
nel sussurrare.

Non puoi parlar d’amore
se l’amore non ha parlato con te.

Più grande sarà il mio peccato
più immenso sarà il tuo perdono.

Si prega
più per paura dell’inferno
che per la grazia del paradiso.

La vita comincia
dopo le parole
e vissero felici e contenti.

Che Dio ti perdoni Caino
perché io non ce la faccio.

Non per il vostro bene
ma perché conosciate il mio.

La rabbia per gli uomini
la sfoghi su Dio
la rabbia per Dio
la sfoghi sugli uomini.

Ci si può gettare di slancio
o avanzare lentamente
quello che conta
è aver chiara la nostra meta.

Si vive
fino a che non si è in grado
di perdonarsi.

La meta
è un miraggio
che diventa chiaro
solo dopo che le siamo passati oltre.

Domani
farò quello che sono.

Il male che fai
è il dolore che senti.

Ci sono mille modi
per dire la stessa cosa
ed ognuno
è la bella copia dell’altro.

Sono più le cose che dimentichi
di quelle che vorresti ricordare.

Avrei forse agito diversamente
ma non per questo
avrei agito giustamente.

Metto quel più
che ho dalla vita
lasciando che gli altri
lo tolgano pure.

È la sua imperfezione
che rende il mondo
così meravigliosamente perfetto.


24 SETTEMBRE 2000

7° PREMIO INTERNAZIONALE DI LETTERATURA "ARTEPOESIA A MONTEPULCIANO" - MONTEPULCIANO (AR)
PUBBLICATO IN ANTOLOGIA CON LA POESIA "PREZIOSO" TRATTA DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"

28 OTTOBRE 2000

PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE "SCRITTORI PER IL TERZO MILLENNIO" - ORGANIZZAZIONE CENTRO EUROPEO DI CULTURA - ROMA
DIPLOMA D'ONORE - 2° PREMIO NELLA SEZIONE NARRATIVA PER IL RACCONTO "AIKO DELLA PIANURA"

29 XI 2000

Lentamente
mi sono legato a te
mentre i giorni
passavano
dentro
alla profondità dei tuoi occhi
mentre lasciavo
che il mio corpo
si sciogliesse
nell’essenza della vita
spremuto in un vortice
di piacere e di pace
sciolto
in un liquido denso
che ti ho fatto bere
scura pozione
capace di legarti a me
per l’eternità.


17 DICEMBRE 2000

PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE "PIRANDELLO 2000" - ORGANIZZAZIONE AVVENIRE D'ABRUZZO - ROMA
DIPLOMA D'ONORE - MENZIONE D'ONORE NELLA SEZIONE NARRATIVA PER IL RACCONTO "SCHICCOLINA"

28 DICEMBRE 2000

Quello che provo è odio, odio e rabbia, delusione, disillusione. Mi sento tradito, insultato, defraudato, impoverito di tutto ciò che avevo, tutto ciò che avevo costruito, dato, fatto, mi hanno rubato me stesso. Avevo creduto, credevo in me stesso ed in ciò che stavo facendo. Certo si ho fatto i miei errori, come tutti d'altronde ma da questi imparavo e ricominciavo. Forse questa volta ne ho fatto uno troppo grosso, la mia presunzione ha superato tutti i limiti ed ho sottovalutato tutto ciò che stava accadendo intorno a me. Mi sono perso nella beatitudine del mio essere insieme a te e non mi sono accorto di niente. E’ cominciato tutto così all’improvviso e non ha più smesso di accadere è stato come un turbine di avvenimenti che ci hanno coinvolto, che ci hanno trascinato a cui abbiamo partecipato in prima persona, abbiamo goduto per ciò che avevamo pagato e adesso abbiamo ricominciato a pagare, poi ne godremo.
 

***

 
Gli ultimi due anni che sono trascorsi sono stati i migliori della mia vita, per la prima volta dopo trent’anni ho lottato, ho lottato per me, per costruire qualcosa solo per me e per la mia famiglia, la mia nuova famiglia. Finora ero riuscito soltanto a dare, dare, dare e dare. Ho dato hai miei genitori, ho dato alle mie sorelle, ho dato hai miei amici, ho dato alla scuola, al lavoro, agli altri; ero riuscito soltanto a dare e non mi era mai riuscito di prendere. Avevo dato senza sentire il grazie che mi veniva risposto e avevo preso senza riuscire a sentire di prendere, anzi con l’arroganza di chi pretende, di chi si sente in credito e con il lamento di chi crede di non aver preso. Adesso, finalmente, ho assaggiato il frutto proibito, ho sentito il sapore del prendere ed è dolcissimo, come te, come quello del dare, dare a te, a te e al mondo.
 

***

 
Patrizia, sei arrivata d’inverno con il vento e mi hai travolto a primavera con il sole.
 
Ho lottato sapendolo e non sapendolo, ho combattuto fiero e disperato ed alla fine ho scosso dalle mie spalle l’animale ed ho cominciato a vivere.
 
Con te è stato tutto così strano, perché era tutto così vero; non c’è stata finzione, non c’è stato raggiro non c’è stato imbroglio. Forse lo abbiamo fatto nei nostri confronti, abbiamo agito senza accorgerci che quello che stavamo facendo, diventava ogni giorno più grande di noi e ci prendevamo in giro dicendoci che tanto noi, così grandi, così imperturbabili, così cinici, eravamo in grado di gestirlo, di comandarlo e invece ci ha travolto, finalmente, ci ha sbattuto come panni tesi al sole e ci siamo trovati attorcigliati l’uno all’altra e ci è piaciuto.
 
Nei nostri primi incontri ci siamo visti come clandestini, come amanti e come tali ci siamo comportati lasciandoci travolgere e travolgendo vivendo intensamente ogni attimo da allora fino ad oggi, poi domani. Ci sono stati regali, ognuno di noi ha offerto a l’altro dei piccoli doni, come segnale di resa, come presenti sacrificali offerti al grande capo della tribù, come sintomo di affetto, di legame. Portavamo doni perché non eravamo in grado di porgere all’altro, materialmente, il nostro cuore su di un vassoio d’argento, perché è questo che desideravamo fare ed è questo che abbiamo sentito. Per me è stato come sentir entrare dolcemente le tue dita dentro al mio corpo, attraverso il mio costato, senza dolore, solo una piccola sensazione di apertura e poi ho sentito caldo al cuore, ho sentito le tue piccole dita avvolgerlo e tenerlo come si fa con un cucciolo. Ed ancora oggi lo portano in giro per il mondo lo strizzano di passione, lo coccolano di amore, lo cullano di affetto, lo consolano dalle paure. Ed ho sentito aprirsi il tuo petto, ho affondato la mia mano delicatamente come se avessi penetrato il tuo corpo per un atto d’amore, per un coito cerebrale, l’ho carezzato con paura, temendo di poterti fare male, con dolcezza, come un cristallo prezioso, una gemma. Ho sentito irradiare calore, forza, vigore, ho sentito l’amore, finalmente e mi sono lasciato andare, senza paura, completamente, mettendo in gioco tutta la mia vita per te, investendo con te ed in te tutte le mie forze, le mie possibilità, la mia anima, tutto me stesso perché ho sentito vita, la mia, vera, la tua, concreta, la nostra infine.
 
Abbiamo cominciato subito a fare pazzie, dalla prima volta. Ti ho chiesto per scherzo vediamoci e tu, si domani ed io, alle sette e tu, si. Non ho dormito, non ho capito, non capivo più niente; alle cinque e mezzo ero sveglio alle sei e mezzo ero già da te poi la colazione poi l’amore poi le confessioni e poi l’amore poi le frustrazioni e poi l’amore poi le castrazioni e poi l’amore poi le riflessioni e poi l’amore poi la pace e l’amore. E poi siamo andati a Donoratico, quattro indimenticabili giorni di tenerezze, sesso e amore, la pace di stare insieme all’aria aperta e non nascosti, rinchiusi ancora ma con il sole in faccia, godersi la tua visione da lontano, vederti camminare sul bordo della piscina come una signora, come una donna spavalda, fiera, sicura, lieta di poter finalmente lasciar vedere chi eri non solo nel chiarore soffuso di una stanza ma anche nella piena luce del mondo. Io nel mondo ci vivo e non ho paura di affrontare quello che il mondo ha in serbo per me ed io lì come un bischero, beato nel leggere questo nei tuoi movimenti, nella tua camminata da passerella. Poi siamo usciti allo scoperto il due di agosto e tutti hanno commentato, hanno giudicato, hanno invidiato, hanno odiato il nostro amore, vero e sincero e noi abbiamo sguainato la spada e abbiamo cominciato a difenderlo contro le lingue troppo lunghe, contro chi ci ostacolava contro chi ci voleva male, abbiamo cominciato allora e non abbiamo più potuto smettere. Fa paura il nostro amore, fa paura agli altri che non possono comprendere e allora ci si scagliano contro per cercare di abbruttirlo ai loro occhi, perché non riescono a sopportare la luce che la nostra unione emana ed il suo calore. E in fondo eravamo due cuccioli, due cuccioli nella tana del lupo, ci guardavamo intorno spauriti come due bambini rivestiti a festa tu con il fiocchino in testa ed io al collo, ci sentivamo gli occhi addosso, quelli malvagi ma anche quelli curiosi, quelli invidiosi e quelli lieti; la nostra entrata in società, ci siamo presentati mano nella mano porgendo saluti e baci, questa è lei, questo è lui. Come cenerentole siamo rimasti abbagliati da quello che ci circondava perché per la prima volta eravamo in mezzo alla gente, a quella gente, quella che ci stava aspettando al varco e ci siamo offerti ai loro commenti per liberarci, per poter cominciare a volare, finalmente, nel vento. Forse egocentrici, forse narcisi, forse non quanto abbiamo sentito noi ma il turbine intorno girava, eccome se girava e comunque siamo riusciti a rimanere mano nella mano e ripartire oltre l’ennesimo ostacolo abbattuto.
 
Poi siamo andati in luna di miele ed è stato tutto. Parigi, il sole la gente intorno a noi, muoversi liberi senza paure, senza essere additati, senza nascondere la nostra unione abbiamo camminato sotto il sole d’agosto, ci siamo inteneriti guardando la luna riflessa nella Senna, abbiamo mangiato, abbiamo dormito abbiamo vissuto come il nostro amore pretendeva in quel momento, al massimo, come due vecchi signori snob abbiamo preteso il meglio di tutto e ce lo siamo accordati con la semplicità del nostro amore e con quanto di più prelibato ci poteva essere offerto. Siamo stati sul tetto del mondo, partiti come un razzo e poi siamo ridiscesi lentamente fluttuando come piume al vento, posandoci un po’ qua un po’ la senza curarci di quanto ci scorreva intorno, lo abbiamo fatto e ce lo siamo gustati e non abbiamo dovuto pentircene e tutto questo è meraviglioso. Abbiamo avviato con titubanza questo nostro primo girare tra la gente, volti sconosciuti e rincuoranti si muovevano veloci intorno a noi lasciando le nostre menti capaci di preoccuparsi di accontentare l’altro, visto che non dovevamo preoccuparci di cosa poteva pensare, dire e fare chi ci stava intorno. La mia paura per te era la noia, la tua per me era il ricordo e poi ci siamo lasciati conquistare entrambi dalla nostra Parigi unica, irripetibile ineguagliabile e dopo i primi timori poterla vagare senza mete precise senza imposizioni da turisti ma solo e soltanto con il cuore: la Tour Eiffel, il Sacre Coeur, Notre Dame, il Louvre, gli Champs Elisee, Place du Tertre, Versailles; luna di miele, si non viaggio turistico, non gita, non viaggio di nozze, non tour ma luna di miele, con la dolcezza nel cuore, nelle mani, nei gesti, negli occhi, nel guardarsi e nel farsi guardare. E poi le cose buffe: le mani sui fianchi, le ragazze mi guardano e te le vuoi picchiare, le cozze con le patatine fritte, te mi devi aiutà, le merendine le vincevi solo te, l’acqua che rinfresca, il Papa dovunque, io che perdevo tutto, Disneyland con le montagne russe, i giochi, le montagne russe, le camminate, le montagne russe, le mani nelle mani ancora e ancora insieme, le montagne russe, te che dici sulle montagne russe non ci monto più, gli occhi persi di bambini innamorati, io da solo sulle montagne russe, te che il giorno dopo ad Avignone non riuscivi più a camminare per le troppe montagne russe. Diverso da tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, no finzione, no illusione, no fantasia, vero, vissuto finalmente, sentito, riuscivo finalmente a sentire che lo stavo facendo e posso ancora sentire che l’ho fatto è dentro di noi ed è vero e reale. Reale come me e te, me e te insieme.
 

***

 
Ti ho conosciuto il 29 novembre 1996, ti ho guardato ed ho pensato: e questa chi è? Cosa vuole? Ti ho trovato la mattina in fabbrica e sei stata un affronto per me; come, è stato assunto qualcuno senza averne prima parlato con me! Perché non mi hanno chiesto se io avevo qualcuno da far assumere? Povero brodo (di adolescente memoria) ma chi ti credi di essere e ringrazia invece Dio di questo immenso regalo. Ci siamo guardati torvi per un mese, diffidenti, repulsivi, poi sempre più interessati, poi non riuscivo più a staccarti gli occhi di dosso, gli occhi della Tigre, quella tigre che mi ha graffiato il cuore. Vivevo per te, partire presto la mattina per poter arrivare al lavoro prima possibile e vedere te, poterti chiedere: Vuoi un caffè? O sentirmi fare la stessa proposta da te, parlare un po’, stupidamente del più e del meno e respirare quei momenti vicino a te, aprire la mente a nuovi orizzonti stupirsi, sentirsi come si può sentire il credente di fronte alla verità, avere un'unica sola parola da poter ingenuamente ed innocentemente esclamare: Oh!
 
Ogni giorno tessevamo la nostra tela, insieme senza accorgercene ed ogni notte la celavamo agli sguardi indiscreti dei nostri rispettivi partner. Nei sogni invece lasciavamo libera la fantasia di portarci dove il desiderio indicava, come un condottiero sguaina la spada e porta i suoi uomini a combattere per un ideale di libertà, alla carica!
 
Ma che buon profumo che hai? Per ammaliarti meglio bambino mio. Vuoi sentire bene che buon profumo ho bambino mio? Si fammi odorare il tuo alito, il tuo profumo, la tua essenza. Fammi inebriare di te, conquistami, strapazzami, tuffami nel frullatore delle tue magie e fammi diventare parte della tua pozione d’amore. Mi aiuti a scendere, ma tu soffri, telefonami se hai bisogno.
 

***

 
Trent’anni. Tanto tempo, poco tempo, in fondo tutto è relativo. Sono sembrati tanti, durante, mentre lentamente passavano, giorno dopo giorno, minuto per minuto, ogni secondo vissuto con ansia con paura con terrore, guardarsi intorno e cercare di approfittare di tutto e di tutti. Vedere cose e rendersi conto che poi in realtà non erano vere, erano film e non realtà, erano romanzi, fotoromanzi fumetti erano storie di altri ragazzi che facevano i “grandi”, i “gradassi”; l’amore non esiste, l’amore non c’è. Non c’è l’amore di Madre Teresa, non c’è l’amore di Padre Pio, non c’è l’amore di San Francesco, non c’è l’amore dei libri Harmony, delle Telenovelas, non c’è l’amore di fratellanza, dell’uguaglianza, non c’è l’amore di una madre, del proprio uomo, di un figlio, non c’è. Non c’è l’amore di Dio. Non è vero, non esiste. Trent’anni di buio. Trent’anni rinchiuso in una cripta gotica, fredda, umida e buia, in un profondo abisso lontano dalla realtà e poi tanto Rococò, a profusione, a riccioli, oro, oro, oro e poi smalto e volute, gemme, fiori, colori e luce, luce, luce. Sono passati veloci, come una saetta adesso che li ho già vissuti, adesso che sono trascorsi beffardi senza farsene accorgere, adesso che non posso più tornare indietro a riprenderli a riviverli con la luce nuova. Trent’anni e poi esclamare: Ma allora è vero! Stupido, piccolo stupido amorevole Stefano, si è vero, è vero davvero, l’amore è, l’amore esiste, si può amare ed essere amati. Si può amare ed essere amati, che parole, nuove, strane, vere.
 

***

 
Brutta gatta, ti sei divertita con il topolino, l’hai sbatacchiato bene bene di qua e di la e adesso? Adesso hai provato anche tu le stesse cose. E siamo caduti insieme nello stesso vortice, abbiamo buttato all’aria una vita già vissuta, parenti, conoscenti, mal di denti e ci siamo tuffati insieme in questo vortice di vita, di amore, di verità; miele, miele, miele a vagoni a transatlantici, miele come piovere, fiumi, laghi, mari di miele. Lo so, lo so, sembra troppo, sembra finto, ma il miele esiste ed è dolce davvero.
 
Mi hai baciato e la mia ultima paura mi ha costretto a porgerti solo la guancia, ti ho pensato tutto il giorno lontano da te immerso in un lavoro che non sentivo, non vedevo, sognavo e poi ho vinto, ho vinto anche l’ultima paura e al mio ritorno sono io che ho baciato te, finalmente. Il mattino dopo le mie gambe tremavano, ho sognato, era vero, lei è per me, e poi ancora baci, baci, baci e la passione che sale, sale, sale, sale, sale. Chiamami, mi hai detto ed a quel punto io mi sono chiesto “E come faccio?, quando posso trovare il momento per telefonarti, dove, come”. Tu lo porti al pollice ed io lo porto al collo ma entrambi abbiamo un anello che ci lega illegalmente ad un’altra persona, aspettami ti ho detto, abbi pazienza, abbi fiducia non so come, non so quando ma ci sarò. Poi un gruppo di terapia, quando si dice il caso e il giorno dopo ho strappato la catena che mi teneva succube e carcerato ed il lunedì mattina ti ho mostrato il mio collo ferito ma libero e tu hai esclamato dentro di te: Oh oh e adesso, cosa ho combinato.
 

***

 
Siamo tornati da Parigi, siamo tornati al lavoro e ci vedevamo ogni giorno e spesso anche la sera venivi da me, ti venivo a prendere, facevamo di tutto pur di stare insieme. A volte cenavamo, a volte no a volte ci amavamo a volte no, vivevamo ogni momento intensamente, come non ci era mai accaduto, e sono volati giorni, settimane mesi di idillio mesi di incontri, di sonno perduto, di racconti. La nostra vita a puntate, l’abbiamo rivissuta raccontandocela sotto una nuova luce, siamo riusciti a vedere la sottile trama che univa tutti i fatti, i misfatti, le rovine e le conquiste di un’esistenza e mille e mille volte abbiamo ringraziato Dio di averci fatto vivere quella vita, grama e misera ma proprio quella vita che ci aveva portato fino li, che ci aveva fatto unire. Mille babbi, mille mamme, mille sorelle, di più mille nonne dirò ancora di più, mille brunelle rivivrei con la rabbia ed il tormento con cui le ho vissute, per poi poter arrivare fino a te, fino a Patrizia, fino a Tricha. Rendersi conto di aver odiato tutto quello che era stato mentre invece proprio quello che era stato ci ha dato quello che adesso è e grazie a questo cominciare finalmente ad amarlo, ad amare il mio, il nostro passato. Se avessi, malauguratamente, cambiato, per sbaglio, una virgola, unica e sola, inavvedutamente, Dio mio chissà dove sarei ora e con chi.
 

***

 
Natale è stato riscoprire la famiglia, l’unione con la mia e con la tua, numerosa, che mi hai fatto conoscere tutta insieme durante un pranzo di Natale, ubriaco di sguardi, di commenti e di attenzioni da tutti e per tutti, di occhiate, di esami, dove, bene o male mi chiedevo, giusto o sbagliato era normale che mi interrogassi, innocentemente mi domandavo: Mi accetteranno? Era meglio quello prima? Penseranno e adesso questo viene a guastarci il nome della famiglia? Poi chi ci ha voluto bene ci ha voluto bene ed il resto peggio per loro, se non conoscono amore. C’è chi ci ha accettato subito, chi ci ha pensato un po’ e comunque per l’abito che porta ha fatto anche troppo, perché in fondo ci ha benedetto, ha benedetto, frequentandoci, la nostra unione non rivendicabile davanti a Dio secondo le leggi dell’uomo; poi secondo me c’è ancora qualcuno che ci guarda dall’alto, in fondo siamo una coppia di serie B, una coppia di riserve che merita una vita di riserva, già non era tua questa vita adesso vuoi anche cose, riesci addirittura a pronunciare la parola voglio, prendi quello che ti viene gettato dal tavolo delle coppie vere e vai in cuccina tua a rosicchiartelo. No grazie noi mangiamo amore, quello vero, quello che si può spalmare sul pane, davvero.
 
Ti ho chiesto se volevi venire e vivere da me, con me, condividere onori si ma anche gli oneri di una vita di coppia, di persone che si amano, rotolarsi su di un letto, passeggiare per i viali di Parigi, si ma anche lavare i piatti e rammendare calzini, io per te, tu per me, noi insieme. Hai tergiversato, ha nicchiato hai fatto cadere il discorso ed io per mesi mi sono torturato nel pensiero di non riuscire a stimolare la tua fiducia a farti sentire amata e rispettata, perché non mi vuole, sta con me ma in fondo aspetta ancora, deve decidere, ma cosa deciderà. Era tutto finto naturalmente, bello scherzo, ho tenuto il fegato nel frullatore per due mesi e tu poi mi hai detto: “Questo è il mio regalo di Natale, le nostre fedi, la mia risposta è sì”; ricordi a quale domanda brutto gnocco, deficiente che non sei altro, tu li a rimuginare giorno e notte come un cammello che mangia e rimangia il proprio pasto e lei se la rideva d’amore conoscendo già la risposta, la risposta è si, vengo a vivere qui da te, con te, noi insieme. E li applausi a scroscio, battimani, gente che si strappava i capelli, fuochi d’artificio; l’amore, l’amore per davvero. Il Natale, la famiglia, si la famiglia ma la nostra famiglia, la nostra nuova famiglia. Natale è stato riscoprire la famiglia, la tua, la mia e anche la nostra.
 

***

 
La prima volta che siamo usciti insieme per te è stato di contrabbando, ci siamo dati appuntamento per la strada, ci siamo incontrati pieni di emozione. Eravamo insieme, da soli, ci eravamo baciati, ci eravamo abbracciati, ma questa era una situazione completamente nuova, uscivamo insieme. Certo avevamo una scusa buona, la cena con le tue amiche e loro c’erano davvero, siamo davvero usciti con loro, ma per noi era diverso, noi eravamo insieme. Per me che ho da sempre vissuto in mezzo alle donne, le amiche delle mie sorelle, le donne al lavoro con la mia mamma, mia nonna che non voleva che stessi con gli altri bambini è stata un’esperienza completamente nuova, forse perché le vedevo con occhi nuovi ma erano donne diverse, inaspettatamente, finalmente queste donne si sono mostrate ed hanno parlato di se ed hanno parlato un linguaggio chiaro, senza nascondersi oppure finalmente sono riuscito a vedere ed ascoltare queste donne, come non avevo mai voluto o potuto fare. E poi ci siamo divertiti, semplicemente divertiti con il cuore aperto e la gioia nell’anima: ristorante cinese, sakè, poi al Cigno Bianco in mezzo alla musica ed all’alcool, io che già ero brillo dello stare con te. Te cosa prendi? Non lo so qualcosa di dolce? E pensavo a te, a quanto tu dovevi essere dolce sulla pelle, dolce tra le labbra, dolce dentro, pensavo al primo bacio che ti avevo dato e che aveva scatenato in me il desiderio di sapere, ma profumi così dappertutto? Qualcosa di dolce chiedevo ma volevo te! Poi finalmente soli ci siamo dati il permesso di lasciarsi andare, abbracciarsi, baciarsi, toccarsi e solo i tuoi timori, più che giustificati direi, ci hanno fermato. Forse è stato quella sera che ho imparato cosa vuole dire desiderare: volere a tal punto una cosa che siamo già felici solo di volerla, che anche se non riusciamo ad averla, la gioia di cui ci nutriamo è proprio quella di desiderarla, la vogliamo così tanto con tutto noi stessi che possiamo aspettare, che aspettare non è gravoso, non ci sentiamo frustrati, non ci sentiamo falliti, perché desiderarla significa poterla avere, poter fare, potere, essere in grado di farlo. Ti desideravo come non avevo mai desiderato niente in tutta la mia vita, eri tra le mie braccia, potevo sentire il calore del tuo respiro e ti desideravo, te ed il tuo corpo, probabilmente in quel momento l’unica cosa reale e tangibile era il mio desiderio di fare l’amore con te e non l’abbiamo fatto ed è stato meraviglioso, è stato come averlo fatto. Per la prima volta nella mia vita rinunciavo a qualcosa che volevo a tutti i costi e stavo bene, non ero un fallito, non provavo frustrazione non ero il peggiore, l’ultimo. E grazie a te incominciavo ad aprire il mio cuore ma anche la mia mente all’amore, al concetto dell’amore e dell’amare e all’amore vero, cominciavo ad amare me stesso amando te cominciavo ad amare te amando me stesso con i miei limiti. Ci siamo lasciati con il cuore pieno di emozioni, con la mente già colma di ricordi con la consapevolezza che avevamo una nuova cosa in comune, un comune ricordo una comune esperienza, la prima, la prima di una stralunga serie. Non so come ho potuto ritrovare la strada di casa quella sera, non so come, camminando su di una nuvola blu, sia riuscito a raggiungere il mio letto. Allucinato e con gli occhi sbarrati rivolti al soffitto, mi sono lasciato vincere dal sonno e dalla stanchezza e infine mi sono addormentato con te nel cuore, con te nella mente, con la tua presenza già saldamente accanto a me.
 

***

 
Dopo quel Natale è cominciata questa nuova strana esperienza di vita insieme, alzarsi al mattino insieme, fare colazione insieme, andare al lavoro insieme, ed insieme lavorare, tornare a casa insieme, cenare insieme ed insieme amare, amarsi. Tutto diverso tutto completamente diverso dalle nostre vite precedenti, fare cose inimmaginabili, fare con la naturalezza più spontanea, senza fatica, senza dubbi, tutte quelle cose che fino al giorno prima odiavamo e ci rifiutavamo soltanto di pensare, arare senza sentire il peso del giogo, arare senza bisogno che il giogo ci sia, arare per amore, arare con amore e con gioia e portare sulle spalle le responsabilità dello stare insieme con fierezza, con forza con gioia, con amore. È stato come riscoprire la vita, non c’è in quel periodo un giorno più particolare degli altri, perché tutti erano particolari erano tutti, uno dietro all’altro, un susseguirsi di scoperte, dentro di me e dentro di te, un continuo esclamare, meravigliarsi; ogni giorno era un giorno nuovo e non si sentiva assolutamente il bisogno di qualcosa di diverso come del resto è ancora. Si certo ci sono i desideri e c’erano anche allora: una casa, un figlio e forse in quei momenti anche il desiderio che l’unione che stavamo vivendo si consolidasse, si cemantasse, si rafforzasse sempre di più e così ogni nuovo giorno era un giorno nuovo e ci dava fiducia in quello che facevamo e crescevamo insieme al nostro amore, accanto ai nostri desideri. Proprio questo rendeva quei giorni unici, perché è stato come se fosse un unico lunghissimo giorno siamo cresciuti, siamo maturati, abbiamo maturato la nostra nuova identità comune, stavamo creando la nostra famiglia. Ho conosciuto i tuoi vizi e tu i miei, le tue manie e tu le mie, come si cucina, come si stira, come si vive una casa, il bagno, il letto. Ci siamo resi conto che nessuno dei due voleva che l’altro cambiasse, il tuo modo di essere è quello che mi ha fatto innamorare di te, come ti muovi, come cammini, parli, mangi, fai e disfai, come sei, con il tuo temperamento forte e dolce. Abbiamo incominciato a dirci di non cambiare mai e di non lasciarci mai, perché ci volevamo ed era così che ci volevamo, proprio come eravamo. E poi abbiamo cominciato a cambiare senza accorgerci di niente, non eravamo più due identità distinte, ognuna con le proprie peculiarità ma giorno dopo giorno stavamo creando una nuova identità comune, conoscendo e sentendo l’altro senza doverci pensare, senza riflettere, inconsciamente stavamo diventando l’embrione della nostra unione. Sono stati giorni fondamentali per noi, quelli più densi di maggior lavoro, abbiamo fatto tutto senza saperlo, senza volerlo, a testa alta e con il sole sulla fronte abbiamo costruito l’intrico di mura che formano oggi la base della nostra unicità, abbiamo scolpito con gioia e con fermezza la parola NOI sulla pietra della vita.
 
E poi ci siamo divertiti, abbiamo aperto le finestre delle nostre armature ed abbiamo fatto uscire tutto e di tutto, abbiamo sfogato i nostri istinti, quelli animaleschi, quelli materni, paterni, fraterni; regali, pensieri e rotolarsi sul letto per ore, per giorni sfogare gli istinti e fugare le paure. Per me è stata la scuola dell’amore, desiderarti, volerti e affrontare le mie ansie che mi impedivano di amarti con il corpo quanto ti amavo con il cuore e lasciare che tu mi guarissi, giorno dopo giorno con le tue amorevoli e attente cure saggia e spensierata nel darmi fiducia per riuscire a farmi credere in me stesso.
 
E alla fine il nostro amore ha dato fastidio, tutto quello che avevamo temuto si stava realizzando, davvero c’era qualcuno che non sopportava il nostro amore e che non solo ci odiava ma ci voleva anche fare del male. Ed hanno provato a corrodere il nostro rapporto, a spezzarlo ma non ci sono riusciti. Hanno provato a farci scegliere e noi abbiamo superato. Per questo lavoro uno dei due era di troppo e doveva andarsene, da solo e con la coda tra le gambe e magari anche dicendo grazie, grazie di averci gettato gli ossi sotto il tavolo. Siamo rimasti, mano nella mano siamo rimasti a combattere l’affronto, sapevamo che sarebbe stata ancora più dura e che le nostre possibilità erano minime, sapevamo che prima o poi avremmo perso ma che lo avremmo fatto con dignità, insieme, contro l’invidia e l’odio di chi non poteva avere ciò che noi avevamo ma siamo rimasti. La strega ha cercato di umiliarti in tutti i modi, hai sofferto ed io con te, hai lottato con la ragione e la logica dalla tua parte ma non bastava; abbiamo dato noi stessi per il lavoro, con una siringa perennemente nelle nostre vene donavamo sangue e sudore ma non bastava, lo facevamo con gioia ed umiltà ma non bastava, uno dei due doveva andarsene per togliere davanti ai loro occhi questo oggetto misterioso, questa strana coppia di persone che si amavano, che si rispettavano ed aiutavano, era troppo da vedere, da sopportare ogni giorno, che forse qualcuno si sentisse umiliato da ciò, che forse qualcuno leggesse in questo la miseria della propria vita e che per non doversi più vedere abbia deciso di uccidere lo specchio che lo rifletteva. Povera misera gente e miseri noi ogni volta che vi abbiamo combattuto con le vostre stesse armi, si il male che ci avete fatto non è stato cercare di dividerci ma farvi vincere con le vostre stesse armi, costringerci ad abbassarci fino a voi, finiti voi noi ritorniamo alla luce, le tenebre saranno per voi che le volete. Breve sia la vostra parte, voi che ci avete insegnato che ci possiamo amare, ma con il coltello in mano, pronti a difenderci dall’invidia dei miseri.
 
E noi testardi ancora avanti per la nostra strada, sempre insieme ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette. Incuranti del fango che ci veniva scagliato addosso abbiamo continuato ad amarci e a farlo vedere, abbiamo ridato sereni e felici il nostro amore. Certo anche noi abbiamo avuto i nostri dubbi, anche noi abbiamo cercato delle risposte ai nostri timori anche noi abbiamo cercato qualcosa di più grande che ci potesse accogliere e benedire. Siamo arrivati a Loreto per Pasqua, con le nostre paure e le nostre speranze con il bagaglio di un anno di amore e la speranza di una vita comune. Abbiamo pregato, ognuno per proprio conto e tutti e due insieme, abbiamo vissuto quei giorni, casti di amore platonico, in una nuvola di timore reverenziale verso questa entità in cui cercavamo una risposta, possibilmente affermativa, alla nostra domanda di vita insieme. Abbiamo aperto i cuori e abbiamo lasciato che vi fosse letto dentro e quello che più mi ha impressionato è stato che, anche in quel luogo di amore, abbiamo fatto paura; eravamo fuori dai canoni era troppo tardi, già delle promesse erano state fatte davanti a Dio, non si poteva tornare indietro dovevamo solo sopportare, lasciare, dimenticare, solo perché non può essere accettato l’errore. Dio perdona, Dio è buono, Dio è amore Dio è grande e la nostra grandezza davanti a dio la possiamo soltanto dimostrare chiedendo perdono e ammettendo che abbiamo sbagliato, noi possiamo credere chissà cosa ma sarà solo quando saremo dinanzi a Dio che conosceremo la verità quello che oggi crediamo giusto sarà forse sbagliato e quello che adesso ci sembra sbagliato si rivelerà fede in Dio. Amo Patrizia e me ne prendo la responsabilità, come lei ha fatto per me, la responsabilità di conoscere davanti a Dio dov’è il giusto e dov’è lo sbagliato. Lì saremo puniti o glorificati, soltanto in quel momento e non dall’uomo o dalle leggi dell’uomo, ma dall’amore di Dio. Amo Patrizia e vivo in lei e lei mi ama e vive in me e per me questo supera e rende talmente microscopico qualunque rito umano, qualunque promessa fatta, perché solo il cuore può promettere e il cuore promette solo amore. Siamo stati bastonati e puniti per il nostro affronto e ci è stato detto che vivremo nell’errore, ridicola fede dell’uomo che poi alla fine, dopo anatemi, punizioni, sconsacramenti e altro ci benedice, benedice la nostra un unione di semplici persone che si amano, che sono riuscite a correggere la propria vita, che hanno sbagliato e hanno il coraggio di ammetterlo che comunque rispettano le leggi dell’uomo perché vivono nell’amore di Dio. Grazie Padre Corrado, grazie di averci detto che sbagliavamo, che andavamo contro il volere di Dio e poi averci salutato, semplicemente, come un coppia di persone che si amano. E questo basta a Dio, Dio ci ha donato questa nuova possibilità e noi siamo riusciti a coglierla senza timore, con fede e con amore e la portiamo avanti confidando in noi, nella unione che siamo ed in Cristo.
 

***

 
Ho perduto mio padre, babbo, dopo sei mesi di amore, amore solido, dopo aver sperato, dopo essermi illuso, dopo aver pregato ogni sera ed aver pianto ogni giorno e adesso vorrei spaccare il mondo, certo non servirebbe a niente ma è ciò che si prova in momenti come questi, ci si chiede perché, si insulta, si inveisce ci si guarda intorno e si pensa, perché non è successo a qualcun altro? Perché questo morso è stato dato proprio nella mia carne, cosa ho fatto io per meritare questo dolore, questo strazio, questa disperazione! Eppure è così, ci sono milioni di persone neonati, bambini, adulti che muoiono ogni giorno di fame o di bombe ma noi riusciamo a sentire soltanto il nostro dolore, ed è normale, è umano e non è peccato, perché solo Dio riesce a sentire il dolore degli altri. Possiamo disperarci e piangere per chiunque ma quello che sentiamo è solo il nostro dolore. Ti amo babbo e non sei più qui con me ed è questo il dolore che sento, non il tuo non tutto ciò che hai provato, quello che hai sentito, come ti sei visto e come hai visto il mondo intorno a te ma soltanto il mio egoistico dolore di figlio che preferisce sapere di avere un padre e non cercarlo piuttosto che pregare sulla tomba di un padre ritrovato. Ed è normale, è umano, è questo ciò che sappiamo fare, è questo che abbiamo imparato dalle generazioni che ci hanno preceduto, milioni di anni di evoluzione e siamo arrivati soltanto a questo, soltanto a questo e non ci rendiamo conto di quanto è ed è tantissimo, è una cosa enorme, è la sublimazione dell’essere, è vivere e noi adesso siamo in grado di farlo, abbiamo questa possibilità da sfruttare, viviamo, sentiamo cogliamo questo attimo divino, perché il futuro è della materia e non dei sentimenti.
 
Forse hanno pensato lo stesso i nostri babbi, nonni e bisnonni guardando il futuro e vedendolo grigio; ci sono stati ideali di libertà, di ribellione, di conquista; ci sono stai i jeans, la musica ribelle, i motorini e i libri proibiti a deludere i nostri avi e gli hanno tolto le speranze per un futuro migliore ma loro non hanno mai avuto a che fare con la “playstation” e con “internet” e non sanno a che pericolo sono scampati, il cancro cerebrale e la tomba dei sentimenti. Allora godiamoci questo nostro dolore finché ci sarà ancora possibile provarlo e stiamo attenti alle novelle sirene di questa odissea di vita, temiamole e rispettiamole, usiamole e non abusiamone. Ho paura, ho paura di questi due mostri perché prendono, avvinghiano, ammaliano e non ti lasciano più andare e allora bevo il mio dolore, bevo il mio amore ma anche il mio dolore perché sono veri e reali, non virtuali.
 
E te non ci sei più babbo!
 
Ti ho ritrovato una sera d’inverno passeggiando accanto a te mentre andavamo a vedere la partita, stavamo andando a Torino, come dicevi te, oggi vado a Milano, oggi a Roma e te ne andavi passo passo al circolo a vedere le partite della tua Juve; a un certo punto ti ho detto “Avrei voglia di abbracciarti” e te come se per trant’anni non avessimo fatto altro mi hai risposto “Allora abbracciami”. Dopo una vita senza carezze, senza attenzioni, senza affetto o senza averli visti e sentiti mi hai riversato addosso un mare di amore, così d’improvviso tutto in una volta senza avvisarmi, senza prepararmi ed io ci sono annegato dentro con tutta la mia gioia e la mia felicità.
E abbiamo incominciato a vivere.
Abbiamo cominciato a vivere la nostra vita di padre e figlio parlandoci, amandoci standoci vicini, in disparte come solo a noi Cuccuini riesce, in disparte ma in primo piano.
 
Ti ho parlato di Tricha, di quello che sentivo e di quello che provavo e te mi hai parlato del tuo amore per la mamma, di quello che voleva dire per te, dell’importanza della donna che hai accanto, di una vita insieme, delle dure prove e delle gioie, ci saremo detti mille parole in due anni, solo mille parole ma sono bastate, a me e a te per consolidare la nostra unione, sapevamo di cosa stavamo parlando, avremmo potuto benissimo tacere perché oramai ci eravamo trovati e niente ci avrebbe potuto dividere.
 

***

 
Mi hai incantato per ore narrandomi dei posti tuoi, dei colori, dei sapori, degli odori e finalmente me li hai fatti conoscere.
 

Mediterraneo
salato
bianco di case
verde dagli olivi.
Salento
spalmato sul mare
piana pennellata
su di una tela azzurra
riccia di onde
e unta di sudore.

 
Siamo partiti tra palpiti e dispiaceri, tra speranze e dolori, lasciando mio padre a casa da solo, in compagnia del nostro amore e del nostro sentirlo e pensarlo e non avremmo potuto fare diversamente, perché lui non avrebbe voluto.
 
Abbiamo visto il sole, me lo hai fatto toccare da vicino, nelle case, nelle piante, nelle distese brulle e negli scogli a picco sul mare. Ci siamo bagnati nelle acque più limpide che io abbia mai visto, con la sabbia chiara, con la sabbia nera, con gli scogli e con i pesci che nuotano quasi a riva. I Caraibi, le isole tropicali, Maldive, Seychelles, Mauritius, la puglia, il Salento, Otranto, Castro, Le Pescoluse, questo hanno toccato le mie mani, qui si sono immersi i miei piedi, ecco cosa hanno visto i miei occhi, sentito le mie orecchie e odorato il mio naso.
 
Un altopiano piatto, leggermente degradante verso il mare, fitto di olivi e di strade che si incrociano e si rincrociano, piante di tabacco ad ogni angolo, il tuo passato, la tua origine, la fonte del tuo sangue ma anche i tuoi ricordi di bambina: le scalettine, con il nonno in motorino, a mangiare i fichi, il tabacco, i fuochi d’artificio le sere d’estate, sul mare o in paese, le feste, le feste con le enormi luminare, i canti e i balli, lo stare insieme con la tua famiglia uniti in un abbraccio di calore e di amore.
 
I tuoi ricordi di donna: la melanconia, la noia, la tristezza, le facce strane nelle foto, gli occhi tristi, le guance che sembra che sbuffino il tuo stare sola, in un autonomo abbraccio per proteggerti dal freddo.
 
I tuoi ricordi di domani: Otranto, la spiaggia, le crepes, i giri per le stradine ed il lungomare; la Zinzolusa, la Grotta del Conte, Leuca, Gallipoli, Le Pescoluse, Supersano, Castro, i fuochi d’artificio sul mare, vicina come non eri mai stata, i bagni di sole, i bagni di mare, pedalò e motoscafo, la mia guida in questo nuovo mondo, mano nelle mano, ancora una volta uniti, ancora una volta a testa alta orgogliosi del nostro amore e di portarlo a giro per il mondo. Sei riuscita, giorno dopo giorno, ad imprimere dentro di me la tua Puglia, mi hai fatto sentire le tue emozioni, per ogni cosa che vedevamo o facevamo, tu mi raccontavi qualcosa di tuo, qualcosa di fatto o di visto e cercavi così di farmi conoscere la bambina delle scalettine e quella che sarebbe diventata.
 
Seduti in mezzo al mare, con l’acqua che ci bagna le caviglie e un rivolo che si insinua sulla pancia, immersi nel silenzio di quel momento sentiamo noi, il rumore intorno non riesce a penetrare quella nicchia di benessere che ci circonda, tutto può accadere e nulla può accadere, stiamo creando noi stessi, stiamo continuando a dare vita e forza al futuro che ci viene incontro al domani verso cui scivoliamo dentro la nostra nicchia.
 
Famiglie sul bagnasciuga, bambini che schiamazzano, barche, barchette e motoscafi, bulli, pupe e marinai li ho respirati e tu, con una mano sul mio petto, guidavi il ritmo per far sì che tutto quello che ci circondava riuscisse ad entrare in me, le case in calce di Otranto e Gallipoli e i loro stretti vicoli, le lunghe strade diritte contornate da piantagioni di olivi, le case immense e non finite che improvvisamente si ergono nel mezzo della campagna, gli scogli a picco sul mare, il mare, questa immensa distesa blu che, quasi per miracolo, trasparisce i suoi segreti se la guardi da vicino
 
Abbiamo camminato mano nella mano, sulle spiagge, per le strade strette imbandite di negozi, per le strade affollate delle feste di paese, sugli scogli, guardando lontano l’orizzonte, sognando, sperando, cercando di immaginare cosa ci aspetta oltre il nostro orizzonte e ancora una volta di più abbiamo solidificato la nostra unicità, il nostro essere una sola cosa. Il sole, il mare, la mia donna abbronzatissima e me; un’altra estate piena di vita e di amore.
 

***
 
Poi è arrivato il male, per te babbo.
 
Ha rombato forte e si e fatto vedere.
 
Insulso, viscido, inutile e cattivo.

 
Abbiamo lottato tutti uniti, vicini stretti stretti, abbiamo combattuto contro qualcosa di enormemente più grande di noi, delle nostre possibilità, della nostra comprensione e abbiamo perso e abbiamo vinto. Abbiamo perso te con la tua importanza con la tua presenza con il tuo impegnarsi, abbiamo vinto un ricordo una famiglia, una nuova vita per noi con te accanto. La cosa più difficile per te è sicuramente stata accettare le nostre cure, il nostro amore, le premure che avevamo verso di te le attenzioni; ci scacciavi quando venivamo a trovarti in ospedale o se ti eravamo vicini a casa parlavi d’altro, facevi il bullo con le infermiere e ti lasciavi andare a racconti incredibili sotto l’effetto dei farmaci. Straordinario. Poi la situazione si è aggravata e ti sei perso, assente dai discorsi assente dalle situazioni assente dalla cura; ti eri accorto che stavi morendo, probabilmente avevi paura, capivi che non c’era più alcuna speranza e ci hai chiuso fuori. Ti sei chiuso dentro, al tuo mutismo al tuo degenerare; chissà cosa vedevi di te, cosa pensavi cosa sentivi, speravi ed alla fine ce l’hai fatta a chiudere la partita ed hai smesso improvvisamente di respirare, semplicemente così, niente di sensazionale, alla nostra maniera, semplice come te.
 

***

 
Anche questo non era mai successo, e con te invece è stato, Natale a casa nostra, noi abbiamo ospitato la mia famiglia a casa nostra per il Natale, non ci avrei mai creduto e così invece è stato. E per la prima volta è stato Natale, mi sono sentito bambino e genitore, ospite e ospitante ed ho visto nei tuoi occhi le mie stesse sensazioni, le emozioni della felicità, della gioia, un anno fa cominciavamo a costruire la nostra famiglia con la nostra unione ed il consolidamento del nostro rapporto, oggi godiamo dei frutti di quello che in questo tempo siamo riusciti a mettere insieme e quello che possiamo vedere ci dona speranza e fede nel futuro. Lo possiamo fare, lo abbiamo provato con le nostre mani e sulla nostra pelle, lo possiamo fare, non siamo solo in grado di stare insieme e godere l’uno dell’altra e dipendere da questo e da quello e succhiare il nettare asciutto delle vecchie famiglie, possiamo e lo abbiamo fatto dare veramente vita alla nostra famiglia, certo ci sarà ancora da fare, da costruire, da penare, da scegliere, da sottostare a compromessi, da piegarsi e da drizzarsi ma lo possiamo fare, perché io e te siamo una famiglia.
 
Abbiamo addobbato la casa come il nostro spirito, la nostra essenza aleggiava ovunque e l’atmosfera era di immensa gioia, nel dolore della sofferenza di babbo, ma nella gioia anche in quello, nel poter regalare questo Natale anche a lui. Candele e lustri, tutta la tavola in tinta, i segnaposto per regalo, le chiacchere, i bambini, l’unione e la complicità dell’essere tutti insieme, un giorno intero, dalla sera prima ad apparecchiare, poi la mattina a preparare il pranzo e tutti insieme godere del Natale poi risistemare e preparare ancora per la cena, ancora insieme ancora a lume di candela, fino a tardi, parole, tivù, commenti, regali a giro per casa, regali per amore. Abbiamo e ci siamo concessi, regalati, donati, permessi, accordati, offerti, questo grande, grande NATALE.
 
Poi siamo volati sui monti a concludere quest’anno meraviglioso, di gioie e di dolori, di pene e di affetti e con i tuoi e con gli amici ci siamo augurati ancora ed ancora tempi come questi, con il bello e con il brutto ma vissuti in amore, con amore e per amore. Passeggiando alti, nel freddo, con lo sguardo che arriva lontano abbiamo visto ancora noi, noi due uniti nel futuro.
 

***

 
Sei stato accompagnato un ultima volta in ospedale per dei controlli, non reagivi più, non parlavi non rispondevi agli stimoli, continuavi soltanto a spargere la tua pipì in giro per la casa e noi dietro a rincorrerti, babbo. Quando siamo arrivati, io e Tricha, ti abbiamo trovato ansimante, rosso in volto, impaurito, oh babbo davvero pensavi che volessimo abbandonarti lì, davvero per un secondo hai creduto questo? Cosa hai provato allora quando Tricha ti ha detto “facciamo questi esami e poi domani, via a casa!”, cavolo babbo eri riuscito a far innamorare anche lei e tutto grazie al tuo amore nascosto. Siamo rimasti soli per trascorrere la nottata insieme, abbiamo litigato, a modo nostro, ti trattavo un po’ come un bambino dispettoso e impertinente, un po’ come un grande uomo, il grande uomo che mi ha dato la vita; ti ho raccontato del nostro amore per te, rassicurandoti che nessuno ce l’aveva con te, comunità, terapie e vita in comune alla fine sono riusciti a fare di noi una vera famiglia, beh per lo meno il massimo che si poteva riuscire a fare con tipi come noi, tipi come te. Ti ho accudito come un neonato, pannolini, cambio del letto, era strano stare li io a fare questo a te eppure è successo, eppure era vero e davvero poi infine, inaspettatamente ma a modo tuo te ne sei andato, ci hai pensato un po’ e poi quando hai deciso hai chiuso, semplicemente hai detto basta, era il 16 gennaio 1999.
 

***

 
La vita continua, il tempo scorre e a fatica ed uniti abbiamo ripreso a camminare il nostro sentiero di vita, affranti, turbati, sconvolti, soli e uniti, a volte sentire la mancanza a volte sentire la presenza, mano nella mano siamo andati a trovare mio padre, a vedere la croce che si incunea nella terra che lo accoglie e tu sei me ed io sono te, e sento il mio dolore confondersi con il tuo e sento il tuo dolore carezzare e consolare dolcemente il mio.
 
 No, non c’è stato il tempo di accorgersene, non c’è stato il modo, non c’era la presenza di nessuno di noi due per rendersi conto di quello che stavano tramando alle nostre spalle e ci hanno divisi. Uniti siamo e uniti rimarremo ma d’ora in poi ci potremo cercare da lontano perché l’invidia, l’odio e la stupidità ci hanno impedito di poter continuare a lavorare insieme. Costretto ad essere il portatore di questa notizia, con il pianto nel cuore, affranto, a pezzi, distrutto ho condiviso con te la tristezza e non ancora risaliti sulla collina della vita, siamo ripiombati insieme nella valle della disperazione. Mi manchi e mi mancherai per sempre, mi mancherà lo starti vicino, il vederti per caso, il sapere che eri di la, che non ci vedevamo, che non ci cercavamo, ma che eravamo vicini, che potevamo quando volevamo.
 
Cercare la vendetta, parlare con te, parlarne e poi da solo scaricare sulle parole la mia frustrazione e allora scrivere: quello che provo è odio, odio e rabbia, delusione, disillusione. Mi sento tradito, insultato, defraudato, impoverito di tutto ciò che avevo, tutto ciò che avevo costruito, dato, fatto, mi hanno rubato me stesso. Avevo creduto, credevo in me stesso ed in ciò che stavo facendo. Certo si ho fatto i miei errori, come tutti d'altronde ma da questi imparavo e ricominciavo. Forse questa volta ne ho fatto uno troppo grosso, la mia presunzione ha superato tutti i limiti ed ho sottovalutato tutto ciò che stava accadendo intorno a me. Mi sono perso nella beatitudine del mio essere insieme a te e non mi sono accorto di niente. E’ cominciato tutto così all’improvviso e non ha più smesso di accadere è stato come un turbine di avvenimenti che ci hanno coinvolto, che ci hanno trascinato a cui abbiamo partecipato in prima persona, abbiamo goduto per ciò che avevamo pagato e adesso abbiamo ricominciato a pagare, poi ne godremo.
 

***

 
Il tempo passa e come sempre medica le ferite e apre nuove prospettive; decade l’odio, decade la frustrazione, il rammarico e la vendetta; ci ricordiamo quei momenti di alcuni mesi fa e ci rendiamo conto che tutto il male del mondo non può far altro che unirci ancora di più ed uniti combattiamo tutto il male del mondo, per noi e per il nostro mondo, con amore.
 
Così, perdoniamo il male, i malfattori, le nostre ire e la nostra sete di vendetta, grazie a Dio che ce ne dà la forza. Perdoniamo gli altri, per quello che è stato fatto contro di noi ma anche noi stessi per quello che, anche inconsciamente, anche involontariamente ma umanamente, noi abbiamo fatto agli altri
 
Abbiamo odiato, ci siamo arrabbiati, abbiamo scalciato forte come tori nell’arena, con il fiato che ci esce roboante dalle narici, sollevando nuvole di povere; ci siamo impuntati come muli da soma, carichi delle brutturie del mondo decisi a resistere a non voler cambiare, intestarditi, duri.
 
Umani siamo stati, perché umani siamo ed è proprio dalla nostra umanità che sgorga il nostro amore e così, lentamente, un giorno dopo l’altro, abbiamo assorbito l’affronto, la superbia, l’odio ed il rancore, il dolore no, quello rimarrà ancora per molto, l’inutilità del gesto rende difficile sbiadirne il ricordo, potremo perdonare, con il tempo, con nuovi sogni e nuovi progetti che renderanno il licenziamento così insulso, insipido, irreale, ci sembrerà così lontano, anche se sappiamo che non potremo mai dimenticare.
 
I giorni sono trascorsi, in principio lentamente e con mestizia, poi abbiamo trovato il nostro nuovo modo di comunicare costante, due tre telefonate al giorno, messaggi, lettere, pro memoria, ogni tanto tu venivi a Signa con me, ti lasciavo a casa dai tuoi e ci ritrovavamo all’ora di pranzo e poi la sera di nuovo insieme per il viaggio di ritorno; tu hai ricominciato a lavorare da tuo padre ogni tanto, così i viaggi insieme, nonostante tutte le avversità che ce lo volevano impedire, sono aumentati, fin quasi a ogni giorno. Comunque sempre insieme, anche lontani, anche lontanissimi, anche distanti ma sempre insieme, sempre vicini.
 

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Nonostante tutte le avversità, le difficoltà, i dolori ed i rancori abbiamo creato, giorno dopo giorno, le basi della nostra esistenza e più queste diventavano solide, più i nostri sogni volavano in alto; più queste si irrobustivano, più i sogni diventavano realizzabili, concreti, veri, raggiungibili. Non sogni di ragazzini, non isole caraibiche, non palme e noci di cocco ma sognare di poter davvero avere una vita vera, quella che abbiamo sempre cercato, quella che ci eravamo impediti di realizzare fino ad ora: una famiglia, noi, una casa, la nostra, un futuro, i nostri figli.
 

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In fondo ce lo aspettavamo, sapevamo che, un giorno o l’altro, questa notizia ci sarebbe stata data e quel giorno è arrivato. Sono tornato una sera ed era già da tempo che tu restavi a casa in cassa integrazione, con il pianto nel cuore e la disperazione addosso te l’ho detto, ti hanno licenziata ed hanno mandato me a dirtelo. No, non era la perdita del lavoro, non erano i soldi o l’onore o l’orgoglio; ci siamo resi conto immediatamente che quello che ci avrebbe consumato, era la lontananza, il distacco. Da quel giorno ogni mattina trovavo un tuo biglietto sotto la mia tazza o tra le pagine dei libri che leggevo, mi parlavi del tuo amore e della tua sensazione di solitudine e del tuo amore e di quanto ti mancavo e del tuo amore e di auguri di buone giornate e del tuo amore. Da quel giorno ogni mattina ti lasciavo un mio biglietto sotto la tua tazza o te lo consegnavo, quando facevi il viaggio con me, ti parlavo del mio amore e della mia sensazione di solitudine e del mio amore e di quanto mi mancavi e del mio amore e di auguri di buone giornate e del mio amore.
 
Ti cercavo dentro a questa fabbrica insensibile ed incosciente che non aveva saputo accettare il nostro amore, non lo aveva saputo sfruttare, non era riuscita a beneficiarne perché ne era rimasta enormemente orripilata, ingelosita, invidiosa e come un vampiro dinanzi alla croce ha cercato di celarla, di farla scomparire, non rendendosi conto di essersela infilata dritta nel petto. E il nostro amore ha continuato ad andare avanti, impavido, senza paure, senza timori, con mille paure e con mille timori ma anche nella lontananza, ha trovato altre miniere da sfruttare per crescere sano, robusto, tranquillo. Eravamo felici di poterci vedere ogni minuto, di sapere che eravamo a pochi passi l’uno dall’altra e il toglierci questo è stato come strappare i tubi dell’aria ma l’aria che sospira tra noi è di ben altra consistenza, è di ben altra sostanza e continua a tenerci uniti, a tenere uniti i nostri cuori, le nostre menti e le nostre pance; i nostri sogni, i nostri intenti e la nostra passione.
 

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Non abbiamo mai smesso di pensare alla casa, la tua casa, quella che sarebbe divenuta casa nostra. Per un anno è stata un desiderio sopito, celato, nascosto ma presente ed ogni giorno che passava ci avvicinava sempre di più al realizzare il nostro secondo sogno, dopo la famiglia, noi, la casa, nostra. Quasi come due incoscienti, nell’incertezza che aleggiava intorno a noi, tra i dubbi se poterla davvero vivere o no quella casa ma grazie ai nostri cuori pieni della speranza nella realtà nascosta, ci siamo messi in giro a alla ricerca di camere e cucine, di mobili e di arredi, di tende e tappeti, di idee, di proposte, di noi e della nostra essenza nascosta dentro al legno e, come tutte le cose che abbiamo fatto insieme, non è occorso gran che di tempo e poi voilà eccole, erano la entrambe ad aspettarci e come un unico cuore abbiamo scelto, deciso, costruito; la camera con l’armadio cabina, in cui ci siamo tuffati appena ci è apparsa davanti, la cucina, con gli inserti in giallo e il ripostiglio, a cui siamo rimasti incollati dopo una timida sbirciatina. No, non abbiamo voluto vedere altro, cercare no perché non ce n’era bisogno, noi eravamo la e ci eravamo trovati e sapevamo di essere quelli. Come ogni nostro stare insieme, anche questo ha mostrato il suo stato di straordinarietà, di meraviglia, di come per vivere insieme con gioia, con letizia, con passione, non siano necessarie grandi cose, basta l’amore; partire al mattino e fermarsi a mangiare un panino tra i pini di Pietramarina e poi merende e gelati e la quieta ricerca di mobili, per noi e per la nostra casa, mano nella mano girare fra finti salotti e cucine fittizie, immaginare quel tavolo o quella specchiera dentro alla nostra casa e più si concretizzava il sogno della casa più prendeva forma, dentro di noi e nel concreto, il suo interno di mobili, come lo avevamo trovato, scelto, creato, unico per noi.
 

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Rincorriamo i sogni, li inseguiamo credendoli irraggiungibili, mentre loro sono la, a portata di mano pronti a farsi cogliere da una mano innocente, da un cuore sincero, da un animo in pace. Non c’è bisogno di adirarsi, di correre, di sfiancarsi, perché i sogni si lasceranno raggiungere solo con l’amore, perché solo con amore potremo fare sogni raggiungibili; la Mercedes, la villa, lo yacht e il maggiordomo sono solo sogni di arroganza, di vanità, di superbia, sono i sogni che non potrai mai raggiungere, perché anche quando li avrai in pugno chiederai di più. Allora umanamente sogniamo, sì, lasciamoci andare, anche la villa, la moto, il macchinone, anche il giro del mondo, sogniamoli con la fantasia e con il cuore leggero di chi a ben altri e più importanti desideri da realizzare: vivere ed am

BAD BLUMAU
CARO DIARIO...

1 gennaio – come mille anni prima l’alba del nuovo millennio è foriera di nefasti presagi, il Millennium bug è il nuovo “mille e non due volte mille” il Bug, ossia il baco come quello che si insinua nella mela rendendola immangiabile, sembra si si infilato questa volta nelle spire dei software di tutti i sistemi operativi del mondo; per più di un anno sistemisti e programmatori si sono sfiancati nel tentativo di ovviare ad un potenziale difetto informatico che si sarebbe potuto manifestare al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati dei personal computer ma anche dei grandi elaboratori; i programmi evoluti delle creazioni degli anni ’60 e ’70 non erano stati sufficientemente lungimiranti o forse non avevano creduto in loro stessi per una lunga durata, partendo dall’uso comune del ‘900 di determinare le date in base alle ultime due cifre, tipo la guerra del 15-18 o la rivoluzione giovanile del ’68, incrementavano i loro calendari senza dare alcun valore alle prime due cifre ma alle soglie del 2000 il problema si fece incipiente e tutte le software house dovettero correre ai ripari, con il solito esagerato scalpore dei media, accompagnato da un eclatante allarmismo da parte dell'opinione pubblica, si arrivò persino a temere che col cambio data si perdessero nel nulla i depositi bancari, le negoziazioni della borsa e i risparmi di una vita; il problema poi si rivelò ovviamente di ridotta e circoscritta portata grazie anche alle misure di precauzione adottate in tempo; il rischio più grande fu che i nuovi nati si potessero veder registrati con la data del 1° gennaio 1900. Il solito Bug mediatico sobillatore di profani, incompetenti e ignoranti.
5 maggio – ci lascia Gino Bartali, leggenda e icona dello sport, Ginettaccio, ciclista professionista dal 1934 al 1954, ha vinto per tre volte il Giro d'Italia nel 1936, 1937 e nel 1946 e due volte il Tour de France nel 1938 e nel 1948 e un’infinità di altre corse tra gli anni Trenta e Cinquanta, spesso accompagnato nella fama e nella rivalità da Fausto Coppi, con cui viene immortalato nella famosissima foto dello scambio della borraccia in una foto del Tour de France del 1952, della quale mai si saprà chi dei due stava sportivamente dando aiuto all’altro; in quegli anni il ciclismo catalizza l'attenzione di milioni di italiani, pronti a dividersi fra i due campioni e ad attenderli per ore sugli affollati bordi delle strade; si arriva addirittura a sostenere che la vittoria di Bartali al Tour de France del 1948 abbia contribuito a smorzare le tensioni sorte a seguito dell'attentato a Palmiro Togliatti; ci lascia Ginettaccio, grande campione di ciclismo sì ma grandissimo uomo, schietto e umile, corriere della Resistenza italiana, nel 1943, grazie ai documenti falsi trafugati nel manubrio e nella sella durante le sue pedalate, si salvano dagli orrori nazisti più di ottocento Ebrei e il suo gesto gli vale nel 2013 l’ingresso postumo tra i “Giusti tra le Nazioni” nel Yad Vashem di Gerusalemme. Il trofeo più bello che potesse vincere.
25 luglio – il volo charter AF 4590 Concorde, decollato dall'aeroporto di Parigi "Charles de Gaulle" e diretto a New York, precipita subito dopo il decollo, schiantandosi su un albergo di Gonesse; un detrito provoca lo scoppio di uno pneumatico che a sua volta danneggia i serbatoi provocando uno spaventoso incendio nella coda dell'aereo che precipita causando la morte di centonove persone, fra passeggeri ed equipaggio oltre a quattro ignari ospiti dell'albergo; l‘accaduto mette definitivamente in crisi il già poco amato aereo passeggeri supersonico progettato alla fine degli anni Sessanta da un consorzio anglo-francese e come il predecessore russo Tupolev che finisce i suoi voli nel 1999, anche il Concorde nel 2003 viene definitivamente accantonato per la sua eccessiva rumorosità, pericolosità e perché no, l’ormai esagerato costo di esercizio. Chi va piano va sano e va lontano e a poco prezzo con le ormai sempre più numerose compagnie aeree low cost.