ARDEA

ARDEA

Ardea
Ardea si era persa, non riusciva a ricordare come e quando ma si era persa.

La testa le faceva tanto male mentre strani e confusi pensieri le roteavano nella mente. Cercava di orientarsi e di capire cosa le stesse succedendo; come si era ritrovata seduta per terra tra fiori e piante, con le mani in grembo, le gambe divaricate e due piccole scarpette bianche di vernice che spuntavano fuori da sotto un buffo vestito di bambola? Si era come risvegliata improvvisamente in uno stranissimo posto, a metà tra il meraviglioso e lo spaventoso e non ricordava assolutamente come avesse fatto ad arrivarvi. A dire il vero non ricordava un bel niente di niente, era sicuramente da qualche parte a fare qualche cosa e poi, improvvisamente, si era ritrovata…, si era ritrovata…, ecco bella domanda; dove si era ritrovata? Adesso però era lì, anche se non aveva la benché minima idea di dove fosse questo lì, però esisteva e lei ci si trovava proprio nel mezzo. Si toccava, si sentiva e quindi c’era, non era un sogno e le sembrava talmente normale esserci quanto le sembrava assurdo l’esserci arrivata e le appariva altrettanto normale non sapere dove fosse ma sapere che era lì con uno scopo, doveva partire e lo doveva fare subito, incamminarsi da questo lì di chissà dove per trovare la strada, sì la strada per un altro chissà dove lei poteva avere una casa, una famiglia, qualcuno che si stava preoccupando per lei, qualcuno che in quel preciso momento la stava cercando, la stava aspettando.

Era stanca ed affamata.

Le sembrava di aver camminato per giorni interi, senza mai fermarsi ma non ricordava davvero come e ancor più non ricordava dove, poi si era come risvegliata, d’improvviso e si era trovata in quel singolare ed a suo modo affascinante luogo. Ardea non si sentiva minacciata, l’ambiente era strano, nuovo, sconosciuto ma accogliente, percepiva addirittura il benvenuto da ognuna delle cose che la circondavano, anche se provava un vago senso di paura, indipendente da ciò che le stava intorno, qualcosa dentro di se. Una piccola flebile voce le diceva che, almeno per il momento, era meglio aver paura e di certo non specificava la durata di questo cosiddetto momento.

La vocina interna le impartiva ordini precisi:
<Senza tremare, andare avanti, con attenzione e con molta calma.>
Nella sua mente si formava, come dissolvendosi dalle nebbie, la fonte di questi tutt’altro che imperiosi ordini, una nuova ma antica figura, qualcuno che le sembrava di ricordare, un immagine che le donava sensazioni di pace, di calma ma anche di correttezza, di morale e di sentirsi svaniti, una sorta di nonno, che senza fare da saggio ma con la rassegnazione dell’umiltà e senza l’arroganza dell’ambizione le diceva:
<Meglio aver paura che buscarne.>
<Beh, nonno> pensò <Andiamo avanti con calma e vediamo cosa avrà in serbo per noi il futuro.>

Ma lei era stanca ed affamata e li intorno di tutto c’era tranne qualcosa che le potesse sembrare, non dico saporito ma quantomeno commestibile.

In lei albergava il dubbio della sua provenienza, smarrita e smemorata senza sapere dove si trovava, come ci era arrivata e cosa ci era venuta a fare. Ma aveva la sua voce interna da seguire, aveva i suoi ordini a cui obbedire, sentiva chiaramente e serenamente che poteva fidarsi di se stessa e della voce che sentiva e allora, come un eroina, brandire il vessillo e cominciare la marcia. Così finalmente decisa alzò gli occhi e cominciò a scrutare il nuovo mondo, verde e lussureggiante, che si stendeva sotto i suoi piedi. L’immensa pianura, che partiva dal punto dove si trovava ed arrivava fino ad un lontanissimo quanto altissimo monte dinanzi a lei, le ricordava i film di Tarzan o i cartoni animati di Mowgli, verde, verde, verde all’infinito in mille sgargianti tonalità, erba alta, piante dalle forme più strane, contorte ma aggraziate ed intorno un frastuono indescrivibile di cinguettii di chissà quante varietà di uccelli dai piumaggi vellutati e luminosi, strani e sconosciuti squittii di piccoli animaletti, versi di tutte le tonalità, dalle più gravi alle più acute, che appartenevano ad animali di chissà quali forme e grandezze. Africa, l’Africa lussureggiante dei tropici, o l’India con la sua jungla intricata o forse ancora l’Amazzonia. Immensa distesa di piante a perdita d’occhio e bestie feroci; ecco cosa le dava quella vaga sensazione di panico che la faceva tremare dal ginocchio in giù ed anche dal ginocchio in su, un luogo meraviglioso come quello in cui era capitata, abitato da così tanti tipi di piccoli animali, poteva non serbare brutte sorprese? Poteva, dietro un albero, sotto il fogliame, nascosto nella melma in riva al fiume, poteva non esserci qualche strana, orrenda, feroce bestiaccia? Leoni, tigri, coccodrilli, qualcosa ci doveva pur essere, esisteva forse un posto così bello e altrettanto sicuro?

Infine, stanca e affamata ma decisa, mosse i primi passi nella sua nuova vita e cominciò serena il suo lungo cammino. In fondo, cosa poteva capitarle di peggio che essere precipitata in questo incubo così reale, beh poteva essere costretta a rimanervi ma al momento era meglio non pensarci.

La natura intorno a lei viveva tranquillamente ignorandola, sì decisamente si trovava in un luogo tropicale, in qualunque parte del mondo fosse situato era comunque un posto caldo e umido, pieno di fiori, piante e animaletti che le scorrazzavano tra i piedi e sopra i capelli come se lei non esistesse, come se non la temessero. Così poteva pur essere perché quelle dolci bestiole niente dovevano temere, la sua intenzione era tutt’altro che bellicosa, era piuttosto lei che titubante avanzava nella jungla temendo quasi di calpestarne qualcuna che le si fosse malauguratamente trovata vicina. Dalle piante più basse penzolavano strani frutti verdi e lunghi e delle piccole scimmiette dal pelo fulvo se ne stavano cibando allegramente gettando tutto intorno i poveri resti di quello che sembrava un incrocio fra un baccello ed una banana. Ardea si avvicinò alla pianta ed allungò la mano per cogliere uno di quegli strani frutti ma quando fu a portata di mano la più dispettosa tra le scimmie penzolanti si volse verso di lei con uno scatto repentino e le urlò contro, mostrandole una più che rispettabile dentatura, gialla ma ben fornita di acuminatissimi incisivi ed inondandola con il disgustoso odore che ne veniva impunemente emanato, visto che quella mattina non era certamente stata omaggiata da una neanche minima strigliata di dentifricio, cosa di cui avrebbe avuto sicuramente bisogno; dopodichè le sferzò un colpo sulla mano prima che con essa riuscisse a stringere il baccello. Con la mano dolorante ed arrossata per la vergogna di essere stata colta con le mani nel vasetto della marmellata, Ardea si ritrovò con il sedere per terra e con la scimmia che le gironzolava intorno incuriosita ed imbronciata. Aveva sbagliato, aveva mosso i suoi primi passi in qual mondo, con le sue regole ed i suoi confini invisibili ed aveva immediatamente sbagliato. Gli animali intorno a lei non la temevano ma ciò non voleva certo dire che la avrebbero invitata a condividere le bontà locali e le specialità della casa in un banchetto comune scimmie e…, e… , scimmie e cosa, lei cos’era una bambina, mmmhhh no… no… troppo cresciuta ma non ancora da considerarsi una donna, mmmhhh… una ragazza, una… una…,
<Mimmmina, ecco chi sei. Anche se sei grande e puoi davvero chiamarti donna, io così ti avrei chiamata e così ti chiamerò, mimma, la mia mimmina>
<Grazie nonno> rispose Ardea alla voce che sentì arrivare da chissà dove <è molto dolce e tu puoi chiamarmi pure come più ti piace, io, se non ti disturba, almeno davanti a questo coso peloso e indispettito che mi balzella intorno ai piedi, preferisco sentirmi donna, almeno per affrontare la situazione.>
A proposito, c’era da affrontare la situazione che, mentre lei si perdeva in chiacchere, era ulteriormente evoluta. La piccola scimmia, chiamata in causa dal maldestro avvicinamento di Ardea a quello strano albero da frutta, si era a questo punto arrogata il diritto di domandarle chi fosse, non a parole certo ma annusandola, toccandola e assaggiandola con la lingua, proprio come fanno gli animali e anche i bambini piccoli! Fra l’incuriosito e il divertito e con un pizzico di paura, Ardea lasciava che l’animaletto verificasse le sue buone intenzioni, decisa a chiedere, chissà come, scusa ed a fare o quantomeno provare a fare amicizia con qualcuno, con… qualcosa, con… con quel batuffolo di pelo rossiccio, anche solo per ritrovare un po’ di sicurezza e di fiducia, per lo meno per quei primi momenti dopo il suo rocambolesco arrivo in quel mondo di fiabe o addirittura per trovare un compagno per il suo lungo cammino.
<Scusa> le disse mentre la scimmietta continuava ad annusare quello che per lei era un nuovo e strano essere da cui emanavano odori tra l’impaurito, lo stanco e l’imbarazzato <Scusami, io sono arrivata in questo posto…, anzi per meglio dire mi ci sono ritrovata, perché sai non so esattamente come ci sono capitata qui, tu mi potresti rispondere?>
Ma la scimmia non poteva certamente comprenderla, oltre al fatto che era tutta presa a passarle le narici sulla pelle morbida e profumata, così Ardea continuò.
<Certo che no. Mica puoi parlare tu. E io invece che sto qui come un stupida sciocca a fare due chiacchere con un animale. Ma tu sei l’unica con cui io posso comunicare adesso> concluse sconsolata per poi riprendere ancora.
<Io non so come riuscire a farmi capire da te, io sono stanca e soprattutto affamata, scusami se ho toccato il tuo albero non lo farò più, almeno che tu me lo permetta, io… io… troverò un albero da cui poter cogliere dei frutti e mangiarli ma tu… tu… li vorresti mangiare insieme a me?>
Fu in quel momento che, con uno scatto fulmineo, quello strano cespuglio di pelo fulvo sparì davanti agli occhi di Ardea che lo vide poi riapparire dopo un tempo così breve da sembrare che non se ne fosse mai andato, solo che aveva in mano una banana, cioè un baccello, o comunque quella cosa fra la banana ed il baccello.
<Baaa!> Le disse la scimmietta.
<Perlomeno sulle iniziali ci troviamo d’accordo, che sia banana o baccello sempre baaa si può chiamare.> confermò Ardea, avvicinandosi delicatamente al frutto stretto tra le mani dell’animale, lo prese tra le dita e tirò lentamente finché si convinse che la scimmia glie lo stava porgendo, lo sbucciò, lo morse e finalmente poté cominciare a placare la sua fame.
<Io mi chiamo Ardea. Ardea, A A Ardea.>
<Aaa> Esclamò la scimmietta.
<E tu, tu come ti chiami, io Aaa e tu?> domandò Ardea cercando a gesti di mimare l’io e il tu.
<Maa!> precisò e scappò via.
Ardea la chiamò, corse verso dove le sembrava che fosse fuggita ma non vide più niente, così di nuovo sola e sconsolata se ne ritornò all’albero, anzi al Baano, come decise di chiamarlo. Si perché non sembrava un banano, più che altro era un rovo, un cespuglio anzi, perché non aveva spine, mentre le sembrava di ricordare che i banani avessero il fusto lungo e fossero altissimi tipo le palme e poi i frutti assomigliavano proprio alle banane sia per la forma che per il sapore, solo che dentro alla buccia c’erano proprio delle specie di fagioli, come in un baccello, dei fagioli dolci dal sapore di banana. Fu così che fra pensieri di frutta e di scimmiette, circondata dalle bucce di baaa, Ardea si addormentò stanca, soddisfatta del suo primo incontro e satolla.

Il mattino dopo al risveglio nuove sorprese attendevano Ardea, celate da foglie o nascoste dietro gli alberi, oltre ad una meravigliosa giornata di sole e ad una scimmietta dispettosa. Chissà quali scoperte avrebbe potuto fare nel lussureggiante verde di quella pianura infinita. Maa le stava saltellando tutto intorno roteando le braccia pelose con grandi volute, lanciando urli e stridendo in quel suo vocabolario mozzato, sembrava quasi la stesse chiamando e allo stesso tempo che la volesse svegliare solo perché indispettita dal suo continuare a bearsi nel mondo dei sogni. Era giorno ormai, la foresta aveva tutta se stessa da offrire, animaletti da inseguire spaventandoli, frutti da mangiare, alberi da cui lanciarsi e con capriole, atterrare su morbidi tappeti di erba, foglie, fiori, insomma per Maa quella era sicuramente l’ora migliore per svegliarsi e voleva convincere di questo anche Ardea. Assonnata e stordita, quasi spaventata dalle urla insistenti di Maa spalancò gli occhi con un mezzo grido soffocato che le chiuse per un attimo la gola, come se si fosse risvegliata da un incubo, solo che l’incubo era li davanti a lei, un incubo peloso e saltellante. La scimmietta insisteva, visto che era riuscita a svegliarla adesso doveva convincerla a seguirla, così anche per Ardea quel tremendo risveglio si sarebbe potuto trasformare in una meravigliosa giornata.
<Aaa, Aaa!> strillava e poi indicando se stessa le diceva <Maa, Maa!> quasi come a consigliarle di seguirla. Ardea si alzò a fatica, in quello che più che un risveglio le pareva un incubo e si mise a seguire Maa, tenendola per una delle sue piccole e morbide manine e lasciandosi trasportare con ancora gli occhi socchiusi ed il passo barcollante. Maa si faceva strada fra le fronde delle piante ed i rami degli alberi, mentre Ardea, ancora nuova a tali passeggiate, si lasciava schiaffeggiare dalle foglie e evitava a malapena i rami. Dietro ad una delle foglie più grosse che si era ritrovata appiccicata al viso, le si aprì uno spettacolo meraviglioso, racchiuso in una cintura fittissima di alberi e arbusti, celato alla vista di chi non lo conosceva e ignaro fosse passato ad un solo palmo da quel luogo incantato, si nascondeva un minuscolo laghetto. Come un diamante incastonato su di un anello finissimo, una pietra preziosa e luminescente, abbagliante, tanto da rendere invisibile ciò che le stava intorno, se ne stava placido e protetto dal verde che lo circondava, i riflessi della luce si divertivano a saltar fuori da ogni piccola increspatura della superficie e regalare intorno visioni sfuggevoli di arcobaleni che si disegnavano sulle foglie, sui tronchi scuri e sul bel vestitino bianco di Ardea. Ecco sì, il suo vestitino, il suo bel vestito, adesso che era sulla riva del lago poteva vedersi per intero, riflessa in quello specchio naturale e limpido si guardava, si ammirava e le sembrava tutto così naturale quanto curioso. La cosa che al momento le appariva più strana era che, nonostante l’aspetto del luogo dove era stata catapultata, nonostante si fosse persa da chissà quanto tempo e conservasse in se la sensazione di aver camminato per giorni e giorni, nonostante la notte passata a dormire stesa ai piedi di quello strano banano, nonostante tutto, si ritrovava a questo punto con il suo vestito ancora di un color bianco candido, quasi trasparente, sembrava una nuvola a passeggio nei prati, così inadatto all’ambiente che la circondava, pieno di pizzi, trine, volant e ricami pronti a rimanere impigliati in ogni ramo, in ogni foglia, pronti a strapparsi e macchiarsi, a rovinarsi ad ogni passo. Invece rimaneva candido, integro, luminoso e immacolato da sembrare l’unico abito che avrebbe mai potuto indossare in quel paese di chissà dove. Era tra il perlato ed il traslucido, solo a guardarlo, anche nell’immobilità dell’osservazione si sentiva il rumore del tessuto contro tessuto, come uno strofinio leggero, una nenia frusciante che accompagna i sogni di un bambino, la risacca del mare nel buio della notte, nel silenzio colmo di attesa sotto ad una pallida luna, bianco, una veste estiva con spalline appena accennate dalle quali prendevano l’avvio freschissime braccia, anch’esse bianche, fasciate da soffici volute di pizzo che le ricadeva fino ai sottili polsi e liberava le lunghe ed affusolate mani di Ardea. Uno scollo, nello stile imperiale dell’ottocento, celava le sue forme di donna acerba e uno stretto corpetto le delineava il girovita da cui la sua figura ne sgorgava fuori come in un esplosione che culminava nella serenità del suo volto limpido e innocente, incorniciato in lunghi capelli corvini raccolti in un turbante naturale da cui alcuni lampi di crine fuoriuscivano come grida verso la luce. Le larghe spalle di Ardea, candide e vellutate respiravano della luminescenza donata loro dalla generosità che il vestito offriva visto da dietro, fino alla chiusura, stretta, che teneva poi tesi i davanzali, sorretti e avvolti da elaborate coppe ricamate in girigogoli di trine e merletti. Lento, da sotto i seni leggermente pronunciati, scendeva in rigagnoli goffrati di seta, formando disegni, righe ed incroci di luce bianca, illusioni dell’occhio inesperto che lo andava osservando, come un lampo improvviso che non vedi ma la mente tua raccoglie, quasi dietro di te e ti costringe a voltarti ad osservare la fonte di cotanto baluginare ed i tuoi occhi, ormai riempiti di luce riflessa, ne rimangono abbagliati. Lento, come un sonnacchioso fiume di pianura, lento fino a lasciarsi cadere a terra dove sembrava continuare a spargere i brillanti rintocchi delle sue trame, dove il bianco e lo splendente si insinuavano fra le felci e le erbe che attorniavano Ardea, avvolgendola in un morbido bozzolo di seta vegetale.

Dopo essersi rinfrescata e rifocillata e dopo aver giocherellato con Maa al gioco del rincorrersi e del ridere, sfinita dai salti e dalle arrampicate fatte con la sua nuova amica, Ardea seduta ai piedi di un enorme albero dalle lunghe fronde, piene di rosse bacche dall’aspetto invitante, beata in quel paradiso terrestre fu prima scossa dal fragore di un fortissimo tuono e poi assalita dalle urla, animalesche era proprio il caso di dire, di Maa. Un enorme boato ed una scossa al terreno l’avevano rapita dall’eden in cui si era rinchiusa e riportata con i piedi per terra. Il rumore, quasi lo sbuffo di un gigante che aveva digerito ed il tremore che ne era seguito, provenivano dalla montagna alle cui pendici si trovava il laghetto di diamante, sulle cui rive Ardea e Maa stavano giocherellando. La montagna in realtà altro non era che un vulcano borbottante, un Vecchio Brontolone, come venne spontaneo ad Ardea di chiamarlo, ma la scossa di poco prima ed il frastuono che l’aveva accompagnata, erano stati come un avvertimento, proprio come se qualcuno l’avesse voluta scuotere dai giochi e riportarla alla realtà dell’impresa camminatoria che dal profondo di se stessa aveva sentito di dover compiere.
<Buongiorno Ardea, mi duole quasi dirtelo ma sembra che da queste parti sia in voga il detto “Il bel gioco dura poco” e aggiungerei in questa occasione “Prima il dovere e poi il piacere”. Credo comunque che avrai modo, nei giorni a venire, di trovare diletto nel paesaggio intorno a te anche se e bene che tu tenga presente quello che senti dentro, non sai quale ma tu hai un compito. Sono comunque sicuro che in questa meraviglia di posto troverai certamente il modo di divertirti e perdonami se ogni tanto verrò a guastarti le feste con le mie frasi fatte e la mia noiosa retorica.>
<Buongiorno a te nonno, non preoccuparti tu puoi dirmi tutto ciò che vuoi e ricordati che mi fa star bene il solo sapere che tu ci sei. Certo che però non te ne scappa una, non ci si può distrarre attimo con te, cos’è fai pure i botti?>
<No no no, io con i botti non c’entro, non sono io a comandare quello che ti sta intorno. Io sono solo la tua coscienza noiosa, quell’antico sapere che ti rimette in riga, o che beh…almeno ci prova.>
<Ma se le cose stanno così allora tu sei me, la mia memoria perduta, il mio passato, ciò che io non ricordo ma che è dentro di me, ciò che io so su tutto questo ma non mi posso dire. Tu cioè io so dove sono e cosa sto facendo ma lo tengo chiuso in me, nascosto, nascosto dentro di te, è qualcosa del genere?>
<Uhhmmm…, sei troppo complicata Ardea, beh… credo che sia qualcosa di simile, la tua guida inconscia e a volte forse incosciente, per il viaggio che stai compiendo. Perdonami Ardea ma io sono qui per ricordarti che non sei libera.>
<Nonno, cioè… io… si no… tu… cioè… oh insomma a me va bene nonno, sì nonno ma tu non sei qui per tenermi prigioniera, tu non sei cattivo, tu mi guidi e mi ricordi soltanto di stare attenta, tu vedi i pericoli che io non voglio guardare, nonno… nonno… nonno? Nonno ci sei? Nonno?>
Maa le saltò in braccio, fra lo spaventato e l’affettuoso, distogliendola dai complicati pensieri che le stavano attraversando la mente in quel momento. Avrebbe avuto modo di parlare ancora con la sua memoria, con quel “nonno”, a suo modo affettuoso e premuroso, che la controllava e la guidava allo stesso tempo. Strinse forte a se Maa e si mise in viaggio anche per quel secondo giorno, anzi perché no, perché non tenere conto dei giorni che sarebbero trascorsi e chissà quanti ne sarebbero trascorsi prima di cominciare a capire qualcosa o prima che cominciasse a non avere più importanza l’aver capito o meno. Trovò, seminascosto dall’erba alta che la circondava, un lungo bastone, diritto e nodoso che l’avrebbe anche potuta aiutare nel suo cammino e decise che vi avrebbe inciso un segno per ogni giorno e non sapendo in che mese fosse li avrebbe fatti tutti di ventotto giorni, seguendo il ciclo lunare, così il ventottesimo giorno avrebbe fatto un segno diverso per ricominciare con un nuovo ciclo. Cercò una pietra sulla riva del Lago di Diamante e con essa tracciò due piccoli solchi sul bastone, per indicare il secondo giorno, e poi di nuovo in cammino, il Vecchio Brontolone alle spalle e davanti a lei, per ora, solo domande, poi si vedrà.
<Andiamo nonno, rimettiamoci in cammino e cerchiamo di scoprire le bellezze del posto, sperando che ci siano solo quelle e che non ci sia qualche brutta sorpresa in giro.>
Uscì dalla fitta boscaglia che circondava il Laghetto di Diamante accompagnata da Maa che, fatti pochi passi, le saltò delicatamente in braccio cingendola al collo con uno dei suoi arti pelosi, avvicinò il musetto al viso di Ardea, quasi come se le stesse rivelando un segreto e con l’altro braccio sembrò indicare qualcosa. Là, dritta davanti a loro e contorniata da rosee nuvole si ergeva una immensa e meravigliosa montagna, ripida, maestosa e dolce allo stesso tempo, con la vetta appuntita che si incuneava nel cielo. Irradiava un sensazione appagante di respiro, come un sollievo, come dire finalmente, la sua meta, ora lo sapeva, non sapeva perché e non sapeva quanto tempo le sarebbe occorso ma sapeva che doveva raggiungere quella vetta, con la fatica che le ci sarebbe voluta e la paura che l’avrebbe accompagnata ma là, su quella cima le sarebbe stato risposto e Ardea chiedeva una risposta. Serena, finalmente sicura, almeno della sua destinazione, si mise nuovamente in viaggio, sotto i caldi raggi del sole e con il vento tiepido che le carezzava il volto e le scompigliava teneramente i capelli, come avrebbe fatto la mano di una madre.

Passavano i giorni, Maa spariva e riappariva, Ardea camminava, si riposava, si rifocillava, giocava con Maa e poi riprendeva il suo cammino ed alla sera cercava un rifugio, sotto qualche albero, tra le rocce o tra le foglie gentili e accoglienti delle piante più basse e si addormentava, stretta tra le braccia di Maa che, durante la giornata sembrava divertirsi a scomparire improvvisamente e altrettanto pareva nel riapparire ma la notte le due singolari amiche non si separavano mai. L’una a cercare le braccia dell’altra, i respiri uniti in un ritmo costante e sincronizzato con gli sbuffi lievi che il Vecchio Brontolone aveva preso a emettere, le gambe rannicchiate, le ginocchia quasi a toccare il mento e i piedi che scambiavano lievi tocchi con le punte delle dita, le loro fronti in continuo contatto quasi a significare che nel sonno riuscissero a comunicare meglio che con i ridicoli gesti dell’una e gli acuti schiamazzi dell’altra, una posa che, a poterla guardare dall’alto, avrebbe avuto le sembianze di un cuore. Erano ormai ventotto i segni sul bastone di Ardea, si era compiuto un primo ciclo di quella luna che ogni sera si affacciava sul cielo blu delle caldi notte della vallata, illuminando d’argento i fiumi e gli specchi d’acqua, facendo compagnia a quegli animali che proprio di notte cominciavano a vagare per la foresta in cerca di prede, di cibo o di nuovi compagni. Quella notte i sogni la cullarono e la strapazzarono. Era riuscita ad assopirsi molto presto, nonostante che il Vecchio Brontolone quella sera volesse dire la sua più del solito, sembrava proprio offeso e indispettito e non riusciva a smettere di rumoreggiare, la nottata non prometteva certo bene, gli sbuffi densi e insistenti avevano un vago sapore di peperoncino, il Vecchio Brontolone non aveva digerito la cena, chissà poi cosa mangiavano per cena i vulcani borbottoni. Forse proprio cullandosi sulle liane di questi pensieri assurdi e divagatori Ardea aveva preso sonno ed i sogni avevano preso lei.
Si rivedeva piccolissima, appena nata, scendere un lungo sentiero, stretto e tortuoso che partiva da una specie di labirinto di spirali sempre più strette, sempre più attorcigliate su loro stesse e negli angusti vicoli di questo ritorto, bolle di sapone galleggiavano nell’aria, più come chiocce che come gabbiani, spandendo intorno a loro una tenue sensazione di calore. Dal dipanarsi di questo intreccio di vicoli e vicoletti, di stradelle invase dal ballonzolare ritmico di queste uova chiocce, la piccola Ardea se ne veniva tranquilla, serena e spensierata quasi saltellando, come fanno appunto le bambine, che mentre passeggiano ignare per il mondo, lasciano libero il pensiero e questo fa loro prigioniere e le porta a spasso nella fantasia di cavalline indomite e le piccine si ritrovano poi senza volerlo a procedere a saltelli, magari canticchiando, che a guardarle te le immagini con i calzoni corti, la maglia a righe rosse marinare ed un cappello di paglia da collegiale con un esagerato fiocco rosso che lascia agitare le sue punte nel vento fresco del nord i mattini d’autunno. E proprio questa era l’immagine che si mise a galoppare nella sua mente, una bambina piccola e spensierata che scendeva lungo un sentiero e si sentiva anche lei un po’ bolla di sapone, anzi nuvola, batuffolo, mentre più che scendere il sentiero si ritrovava a rotolarlo lentamente e saltellava e si adagiava al terreno in cerca di un posto per il ristoro e saltellava accalorandosi e posava mollemente la sua mole pacifica in cerca di ombra, finché saltellando giunse alla fonte e potè finalmente bere e terminando la sua lemme corsa sentirsi pervasa di calore, come penetrata dalla pace e bere a più non posso e sentire la freschezza dell’acqua che ti scende nella gola ed il calore della pace e la freschezza dell’acqua, la pace, l’acqua, pace, acqua, calore, freschezza, il calore, la freschezza… . Un grosso boato, uno sbuffo di fumo più denso del solito che sparse intorno anche del cattivo odore e la cenere che volteggiava annoiata soffiata dal vento ed infilata in ogni pertugio, sotto ogni cosa, sì che al mattino dopo Ardea si sarebbe trovata dormiente stesa sopra una coltre di cenere nonostante non si fosse mossa, il Vecchio Brontolone era capace di far arrivare i suoi soffi fino a chissà dove e chissà come. Il sogno era ormai interrotto, inconsciamente Ardea stava tentando di ricucire lo strappo causato dallo scossone ma ad ogni punto il sogno serbato ingrigiva e quello svolazzante svaniva, il mattino successivo avrebbe però ricordato tutto nitidamente, come se prima lo avesse vissuto e poi sognato e chiaramente non ci avrebbe capito un accidente ma quella sarebbe stata l’ultima delle sue preoccupazioni.

Si svegliò coperta di cenere e dopo un battito di ciglia, il sogno le sembrò infatti l’ultima cosa di cui occuparsi e preoccuparsi. Come sempre, chissà perché, non c’era mai il tempo per riflettere sulle cose, sembrava che tutto camminasse in una sorta di lotta contro il tempo, arrivare da qualche parte ma soprattutto arrivarci in tempo. Allora non riflettere, non pensare ma agire mentre poi, durante le camminate, a tutto riusciva a pensare tranne che a trovare risposte alle domande che si era posta i giorni addietro, come se non se ne dovesse curare, vagava meravigliata delle scoperte e delle visuali che ogni giorno le si paravano dinanzi nuove e attraenti. Ogni questione irrisolta rimaneva in attesa di una risposta, anzi della risposta e Ardea era convinta che alle sue domande ci sarebbe stata un'unica risposta che le avrebbe soddisfatte tutte assieme. O forse questa sua, chiamiamola distrazione, era appunto tale solo perché ogni volta c’era sempre una novità buona o cattiva da affrontare, un tramonto da ammirare o un precipizio da saltare e… e purtroppo c’era anche questa volta e questa novità era cattiva. Il sole era completamente oscurato da una enorme nuvola grigia e tetra, il rumore degli strilli e dei lamenti degli animali era quasi assordante, versi impauriti, spaventati a morte da qualcosa, la stessa cosa che aveva provocato il fumo e la cenere. Maa accanto a lei strideva e si sbracciava nel tentativo di farle capire qualcosa. Ma c’era poco da capire in quel momento, l’unica cosa da fare era fuggire, fuggire dalla foresta in fiamme come stavano facendo tutti gli animali. Dalla cima del Vecchio Brontolone uscivano ancora lenti gli ultimi rigurgiti di lava, mentre tutto attorno all’alto cono del vulcano, in quella porzione di foresta che era stato il mondo nuovo di Ardea, quei luoghi dove era precipitata da chissà dove, i luoghi che l’avevano accolta, curata, nutrita, dove aveva cominciato a ritrovarsi a capirsi a sentirsi, dove aveva sperato e sognato dove aveva cercato una risposta, tutto era bruciato, devastato, arso e fumante. Ardea fuggiva con Maa stretta tra le sua braccia, le lacrime agli occhi portate dal fumo ma anche dalla paura e dalla tristezza e il suo vestito, quel suo maledetto vestito bianco, immacolato anche in quella circostanza. Nemmeno in mezzo a tutta quella polvere, alla fuliggine a quello scalpitare e correre, nemmeno allora si era macchiato. Anzi no a vederlo bene l’orlo era tutto nero, anzi no anche più su e più su ancora e ancora più in alto e cresceva e si muoveva verso di lei. A quel punto Ardea lanciò un grido altissimo, la paura, la sorpresa, il fiato corto per la corsa e adesso anche tutto quel brulicare sul vestito, perché non era sporco, no, Ardea si era resa conto che ciò che le stava salendo lungo la veste bianca altro non era che una colonia intera di formiche che fuggivano dalla foresta e non avevano trovato di meglio che farsi dare un passaggio da lei. Le trasportò con se al riparo e per la piccola gioia di salvarle e perché perdere tempo a liberarsi di loro sarebbe stato certamente più pericoloso di quanto fosse fastidiosa l’indescrivibile sensazione che un milione di formiche le stavano oramai dando su tutto il corpo. Giunta infine dove l’erba era di nuovo verde e dove l’aria era respirabile, Ardea si gettò a terra stanca, sfinita e stremata. Ne aveva avuti di risvegli burrascosi, con Maa che strillava o che saltava, con animaletti che le si erano addormentati tra le pieghe del vestito o tra i capelli ma un risveglio come quello non le era mai capitato e sperava davvero che ne glie ne capitassero più, né come quello né di peggiori.
<Non ne sarei tanto sicuro, anzi ho proprio paura mimmina mia che di questi bruschi risvegli ne avrai a vedere altri, mi sa che quel fumicone del Vecchio Brontolone non abbia esaurito qui la sua carica.>
<No, no, no, non ne voglio più di risvegli così, né di addormentarmi così e tantomeno di stare sveglia con quel coso pronto a sbuffare e lanciare fuoco da tutte le parti, non lo voglio, non voglio più stare qui, me ne voglio andare, voglio andare, via, via via lontano lontanissimo>
<Mimma, certo che te ne devi andare lontano, beh… mah… hmm… mi… mi sembrava di averne già parlato di questo, non avevamo già detto che tu dovevi andare, beh… si certo non avevamo capito dove e certo nemmeno perché, però ero sicuro che avevamo già parlato del fatto che dovevi andare.>
<Ma io ho paura nonno, non voglio stare in questa foresta, con il rischio che da un momento all’altro quel coso si svegli e bruci tutto quanto, me compresa e anche Maa, io ho paura, paura paura.>
E scoppiò a piangere, mentre Maa le teneva la testa e le carezzava i capelli, il corpo disteso su verdi foglie, l’aria finalmente pulita, la luce stava tornando e anche la calma stava riprendendo il suo posto nell’animo di Ardea mentre Maa la accudiva e la confortava, carezzandola e cantandole una specie di nenia, con quegli strani ed insensati suoni che sembravano a volte delle parole.
<Ia-aaa, Ia-aaa, Ia-aaa, Ia-ooo.> mentre carezzava, cantava e carezzava, cantava e carezzava, e Ardea ritrovava la sua forza il suo coraggio e la voglia di arrivare fino a dove doveva arrivare.

Altri giorni erano trascorsi, altri sorgere di sole, altre notti stellate accompagnate dal chiarore della luna. Ardea camminava non più serena, non più tranquilla. Adesso fuggiva, la confusione si estendeva dentro la sua testa, non solo chi, dove, come perché, mille erano le domande che le si ripresentavano a turno nel silenzio della sua solitudine nel mezzo della foresta, interrotto soltanto dalle grida e dagli sberci della piccola Maa che tentava, invano a dire il vero, di risollevare l’umore di Ardea. Non solo era stata gettata nel lì di chissà dove, da qualcuno di chissà chi, non solo ubbidiva a quel trasporto, che comunque al momento le aveva salvato la vita, che l’aveva costretta a intraprendere quella lunga passeggiata senza meta, non solo combattere con le sue paure immateriali e con il timore di ritrovarsi davanti a qualche vorace felino o a qualche strano mostro ma sentir nascere dentro di sé il timore di essere minacciata anche dalla natura, sepolta da una catastrofica eruzione, soffocata dal fumo o arsa dalle fiamme della foresta ardente. Fu a quel punto che, come al solito i suoi mille pensieri furono interrotti dalla suadente e pacificante voce celata dentro la sua testa.
<Ma tu sei Ardea> precisò < Sei tu che bruci tutto ciò che abbandoni, sei tu che lasci la tua miccia dietro di te, dopo Ardea, la foresta arde, brucia di te e tu temi te stessa.>
<Ma io non voglio che tutto venga distrutto, io non voglio che nessuno abbia a soffrire per colpa mia, non voglio ardere un bel niente. Non ho arso e non arderò proprio niente né col fuoco né con il mio nome, che… che … che non so nemmeno chi me l’ha dato, non so nemmeno se è veramente il mio nome, non so un bel niente ecco cos’è, altro che ardere, che misteri del mio nome e… e… . Qui navighiamo nei misteri nonno e tutte le volte che ti faccio le domande tu scappi, dici che sei me … o… o che sei in me e o che… oh… uffa… ecco.>
<Mimmina, mimmina mia, mimma, mimma, ma che cos’è la vita se non una lunga passeggiata senza meta e senza ritorno, chi mai potrà portarti via la tua foresta, chi ti ruberà i ricordi di ciò che hai passato la dentro chi ti sottrarrà le gioie e le paure che hai provato>
<Nonno stavolta sei proprio… proprio… oh, uffa, no, io non voglio che la foresta sia distrutta, io non voglio essere la causa della distruzione della foresta, non io. Non voglio, ecco… oh!>
<Ciò che tu lasci alle tue spalle non potrai riviverlo, la foresta che attraversi è il tuo presente e diventa il tuo passato non appena sollevi il piede per compiere un nuovo passo. Quello che è bruciato è il tuo passato, potrai ricordarlo, potrai riderlo o piangerlo, ma non potrai mai riviverlo, non potrai mai tornare indietro, ogni volta che poggi il piede abbandoni dietro di te il tuo passato e un po’ di foresta. E la foresta bruciando ti ricorda che non potrai tornare indietro>
<Ma io non voglio tornare indietro, ho la mia meta davanti a me, già sono scampata a chissà quale belva si sarebbe potuta mai celare la dentro e adesso è tutto bruciato e io non voglio, non voglio tornare indietro e … nonno? Nonno, nonno ci sei? Ecco, lo sapevo. Arriva spiega e poi va via, non mi lascia mai il tempo di replicare. E poi spiega, cosa spiega dice dice e non dice proprio un bel niente. E adesso con chi mi posso arrabbiare, con chi posso sfogarmi> prese a dire mentre intanto colpiva la povera Maa con lievi buffetti in tutto il corpo.<Chi dovrà sottostare alle mie ire? Uhh uuuhhh! Scappa piccola scimmietta perché sei tu il mio prossimo bersaglio.> e la vita finalmente riprese.
Maa si mise a correre e a saltellare, si aggrappava ad un ramo poi correva qualche metro con quella sua buffa andatura a quattro mani, poi di nuovo fra i rami, gridando, come sua consuetudine, di quegli urli sguaiati che solo delle antipaticissime scimmiette possono fare.
<È inutile che scappi tanto ti prendo, brutto e pestifero ammasso di peli, tanto ti prendo ti prendo e ti torturo di solletico, prima prendo delle foglie e me le infilo nelle orecchie, uff, uff, aspettami, poi ti tengo ferma con una mano, hei ma dove vai vieni qua, che ti devo torturare e non ce la faccio più a correrti dietro.>
E Maa pazza, più pazza della povera Ardea saltellava a destra e a manca sbeffeggiando la sua inseguitrice e vincendola sia nella corsa che nell’agilità che nel fiato. Spariva e riappariva, spariva e riappariva ed alla fine, mentre Ardea ormai sfinita crollava a terra fra sguaiate risate e vani tentativi di arrotolare delle foglie per infilarsele nelle orecchie, riapparve la dolce Maa con due banane, pardon con due Baae, una per sé e l’altra per la spensierata Ardea, che nell’affanno più completo, con il respiro mozzato dalla corsa e dalle risa, ancora continuava a mimare le torture che avrebbe inflitto alla scimmia se l’avesse presa e poi, poi si ritrovarono affettuosamente abbracciate, come due sorelle a gustarsi quello spuntino, a dire il vero più che meritato, dopo la fatica dei giochi e la ritrovata serenità. La lunga camminata ancora le attendeva e le forze disperse andavano recuperate in fretta, buon appetito.

Dopo albe e tramonti, dopo foreste e radure, dopo banane, bacche e altri frutti strani, dopo i giorni del cammino, quella sera segnò di nuovo il suo bastone per la ventottesima volta, con un segno più alto a definire la fine di quel secondo ciclo. Le scendeva una lacrima lungo la guancia ed il riflesso brillante della luna faceva sembrare argenteo quel rivolo di timore che le stava attraversando il volto. Adesso aveva paura ma era andata avanti. Aveva vinto, aveva deciso di proseguire nonostante i pericoli che la potevano attendere, nonostante la stanchezza e le avversità che la attendevano dopo ogni passo, dietro ogni albero, ogni roccia, ogni collina, aveva deciso di ascoltare la sua voce interna, il suo istinto ed il terrore di Maa ed aveva deciso di continuare il suo cammino ma non l’aveva fatto per la paura, per il timore di soccombere sotto cumuli di cenere o di venire bruciata lei stessa insieme alle sue domande ed a quell’ammasso di pelo che ormai non si separava più da lei o era lei a non volersi separare dalla dispettosa ma premurosa Maa. L’aveva fatto e lo stava facendo per la vita, la sua vita. Più volte si era fermata a rileggere la sua nuova storia, più volte mentre la luna cresceva, aveva guardato il suo futuro, l’aveva cercato o per lo meno aveva cercato di scorgerne una traccia, un piccolo appiglio ma sicuro, che le desse la forza per andare avanti. Procedeva di giorno e temeva ogni sera, poi si era convinta, non causa di disastri ma vittima degli stessi terremoti che scuotevano l’intera vallata. Proseguire, sì per fuggire ma proseguire per giungere al compimento del suo destino, seguire il fiume che la trasportava, quello ideale del suo destino, un fiume che si apriva continuamente in nuovi bracci a volte più larghi a volte più stretti ma che lasciva a lei la facoltà di decidere, di scegliere da quale parte voleva che il suo destino la portasse. Proseguire per sapere, per conoscere, per crescere, non per paura di uno sbuffo più violento che il Vecchio Brontolone avrebbe potuto gettarle addosso. Tutto questo l’aveva spronata e l’aveva accompagnata nella sua avanzata durante i giorni appena trascorsi, fiera aveva mosso un passo dopo l’altro, aveva vinto, aveva sconfitto le sue paure e procedeva alla ricerca di se stessa, avendo ormai da tempo rinunciato a cercare qualsiasi altra forma di vita umana in quel deserto di verde e di animali. Adesso però era lì, era arrivata di nuovo a quel confine invisibile fra un ciclo della sua luna ed uno nuovo, aveva tracciato il segno sul suo bastone come ogni sera prima di addormentarsi, solo un po’ più lungo e quella sera certo non sarebbe riuscita ad addormentarsi. Il ricordo di quello che era successo il mattino dell’eruzione non l’avrebbe potuta mai abbandonare, era lì, presente nella sua mente e vivo come appena accaduto, il suo spavento, le urla di Maa che tentava di svegliarla e di portarla via da quel materasso di cenere che le si era creato sotto al proprio corpo, poi il crepitare della foresta in fiamme e la visione di quella che a lei era sembrata un immensa distesa di niente, solo cenere in terra e fumo in aria e quello strano odore di peperoncino, quel sapore piccante sulle labbra. Forse fu proprio la paura, forse la tensione, l’attesa, la speranza di un inutile attesa, vedere arrivare il nuovo giorno per essere sicura che non succedesse niente, forse tutto questo o forse solo la stanchezza, solo il normale cambiare dalla luce del giorno al crepuscolo e poi il tramonto, fatto è che pur non volendo Ardea si addormentò.

Il mattino successivo ci fu una nuova eruzione. Ardea non si ritrovò sepolta sotto coltri di cenere, non fu risvegliata dalle grida impaurite di Maa, non fu scossa dai tremiti della terra, fu proprio risucchiata d’improvviso da un profondo sonno mentre si vedeva raggiante passeggiare tra fiori colorati e profumati e ne mangiava, coglieva i più grossi e li portava alla bocca come fossero succulenti dolcezze. Certo che in quella foresta le dolcezze le erano proprio mancate, budini, tortine, panna, crema e cioccolato, hmhmmhh il cioccolato e allora che fare, meglio godersele, almeno in sogno. Coglieva e mordeva, coglieva e mordeva, coglieva e mordeva ma mano a mano che ne assaggiava il sapore cambiava, si inacidiva sempre più fino a divenire piccante come se succhiasse del ferro, fu un attimo realizzare il sapore del sogno e sentirlo reale nella bocca, d’improvviso le attraversarono la mente immagini di distruzione, di fuoco, di disperazione e terrore. Tutto questo ebbe la durata di una frazione di secondo, si sentì portare via, come se una grande mano l’avesse agguantata nel profondo del sogno e la stesse tirando con forza e vigore, via, via dalla pace, via dal riposo, via dalla quiete e dalla serenità e poi precipitare nella realtà, nella dura e spaventosa realtà. Sentì una voragine sotto di se, come se il suolo d’improvviso si fosse allontanato repentinamente e cominciò a urlare di paura e di sgomento e urlando si risvegliò in una foresta verde, calma e quieta e per un attimo, un piccolissimo attimo, credette che il sogno l’avesse ingannata, che si fosse soltanto burlato di lei, che avesse approfittato della sua fragile anima. Poi il rumore, enorme e terrificante ed il cielo si riempì di colori, di suoni e delle interiora del Vecchio brontolone, lanciate a gran velocità e a grande distanza. Come non aveva voluto credere ma come Ardea temeva, il compito del vulcano era proprio quello di distruggere la strada dietro di lei, anzi la strada che lei avrebbe dovuto percorrere, che lo avesse fatto o meno e questa volta si sarebbe dovuto impegnare più di quella passata per cancellare dalla vista di Ardea tutta la vegetazione ancora intatta tra l’enorme bocca infuocata e la sonnacchiosa fuggitiva della foresta.

Maa sopraggiunse dall’interno della foresta urlando a squarciagola, correva a più non posso verso la radura dove Ardea aveva momentaneamente trovato rifugio, agitava le lunghe braccia sopra la testa nel tentativo, a dire il vero del tutto umano, di attirare l’attenzione verso il pericolo che incombeva e allo stesso tempo sembrava che imprecasse o invocasse qualcuno, su in alto oltre le nuvole, oltre il cielo. La scena era oltremodo comica ma Ardea era ormai sprofondata in una crisi di paura e disperazione dalle quali persino la bizzarra Maa avrebbe avuto difficoltà tirarla fuori, nemmeno se ci si fosse messa con ruspa e paranco, sì che l’allegra scimmietta non aveva certo bisogno di impegnarsi per strappare ad Ardea qualche simpatico sorriso se non una risata piena, di quelle da tenersi la pancia ma stavolta ogni tentativo dello scalmanato batuffolo di pelo risultò inutile e la tristezza rimase sul volto e nei pensieri di Ardea, persi tra domande e preoccupazioni, tra paure e illusioni. Piangeva di lacrime calde che le grondavano direttamente sulle scarpette, ancora bianche e immacolate come il suo vestito, di nuovo scampato indenne a bruciature, cenere e fumo. Del resto la sua tenuta, tutt’altro che da battaglia, era invece risultata da sempre refrattaria alle macchie di qualsiasi tipo, frutta, erba e terra nulla potevano contro il candore abbagliante della sua luminosa uniforme, tantomeno aveva riscosso successo in questo campo Maa, la regina delle impiastricciature e degli inzaccheramenti. Spesso e volentieri si lasciava infatti trasportare a spalla o addirittura in braccio come un bebè e di sicuro non era una rappresentante del partito dei candidi, tantomeno l’avrebbero scritturata per le dimostrazioni della fiera del bianco, forse con un detersivo avrebbe avuto più possibilità, sì un detersivo capace di cancellare le impronte delle sudice zampacce di Maa avrebbe avuto sicuramente un successo interplanetario. Ardea però aveva paura e la sua veste contribuiva ad alimentare il terrore, sì certo sentiva di essere al sicuro dall’eruzione che pur sembrando impossibile non voleva colpire lei ma soltanto impedirle di ritornare sui suoi passi, ma il rumore, il calore e la distruzione che portava, lasciava nel suo cuore e nella sua delicata mente uno sgomento profondo. Si alzò in piedi, mentre le lacrime calde continuavano a sgorgarle copiose e a rotolarsi sulla pelle liscia del suo volto prima di perdersi nelle trine del vestito o cadere ad innaffiare l’erba, quell’erba che domani sarebbe bruciata.

Passarono alcuni giorni prima che Ardea trovasse la forza di alzare la testa ma mai dimenticò di camminare, non abbandonò la sua lenta corsa verso quel traguardo di cui non conosceva… non conosceva… beh di quel traguardo non conosceva un bel niente e…
<Là, oltre il traguardo, come lo chiami tu c’è il mondo, il mondo che hai lasciato e che ti appresti a ritrovare, c’è la tua nuova vita, ci sono i tuoi amici, i tuoi parenti, la scuola il lavoro, la tua intera nuova vita e…>
<Si nonno, ci credo, ma… come mai nessuno è venuto a cercarmi fin’ora? Perché nessuno verrà a cercarmi domani? Perché nessuno verrà a cercarmi, vero nonno? Nessuno mi ha data per dispersa, nessuno si è infilato le mani nei capelli, colto dalla disperazione pensando a me e a dove potrei mai essere. Dove sono i miei genitori, cosa ho fatto di male per meritarmi il loro oblio, perché non…>
<Benedetta figliola come posso spiegarti cose che non so, che non sai. Loro sono tutti là, genitori, parenti, amici e anche nemici e ti stanno aspettando. Mettila come vuoi ma questa è come dire… hmm quasi come … come… quasi come una prova sì ecco, una prova da superare, se riesci ad arrivare fino alla Montagna Rosa, quella là dritta ed enorme davanti a te, ecco che … op la … la prova e superata. Ma loro ti ameranno, che tu ce la faccia o no, non è un impegno non è un obbligo, loro sono lassù e sperano che tu desideri raggiungerli, lo sperano davvero con tutto il cuore e anche se non te ne accorgi loro ti controllano in ogni momento, per ogni tuo movimento.>
<Nonno, prima che tu sparisca come sempre, ti volevo ancora una volta dire grazie per le tue parole, tu riesci sempre a calmarmi anche se non sempre riesci a rassicurarmi. Spero comunque di trovare in ciò che hai detto la forza e la pace interiore per continuare testarda la mia salita verso quelle meravigliose ed invitanti nuvole rosa e là spero di trovare anche te nonno… nonno?… Nonno?… Nonno! Sei peggio di quella bertuccia di Maa, appare dice la sua e poi puff, come se niente fosse, senza avvertire svanisce come è apparsa, maleducato tu come lei, sì maleducato> sentenzio ironica Ardea <maleducato tu e questa palla di pelo.>
<Maa?> le chiese la scimmietta.
<Si Maa è maleducata e impertinente per giunta, sì,sì,sì.> e incominciò a canzonarla e a punzecchiarla con buffetti divertiti e a loro volta impertinenti.
Cominciarono a rincorrersi tra l’erba e i fiori e finalmente Ardea dimenticò la tristezza portatale da quella seconda eruzione.

Ce ne fu un’altra, la terza, ventotto giorni dopo.

Ardea aveva infine accettato completamente la funzione purificatrice delle eruzioni, si era soffermata sul limitare della foresta bruciata e dopo un approfondito esame si era resa conto che non c’erano animali tra la cenere, nessun essere vivente era rimasto colpito dal cataclisma. Aveva mandato Maa a controllare meglio, anche se non era convinta che la scimmietta avesse ben compreso ciò che lei chiedeva e Maa se ne era tornata tranquilla e a mani vuote. No non c’erano pericoli, anche se il ritrovarsi davanti ad un tale spettacolo, con fiamme che si levavano altissime e rocce infuocate che vengono sparate alte nel cielo, mette addosso una certa paura. Sì paura, quella paura che adesso, misurato il pericolo, poteva paragonare a quella provata da bambina, quando nelle feste di paese nel bel mezzo della serata più importante si sentivano scoppiare nell’aria, colorati e furibondi, i fuochi d’artificio.

Le due allegre compagne continuavano ogni giorno la loro serena camminata, ognuna presa dai propri pensieri e distratta dai propri interessi. Così Ardea vagava tra i meandri reconditi della sua mente e ripensava ai giorni trascorsi, a quanti passi aveva calcato su quella terra accogliente e inospitale allo stesso tempo, tra i mille avvenimenti di quella strana avventura, rifletteva sul fatto che, più passava il tempo, più camminava e meno sentiva la stanchezza, quasi come se il percorso la stesse nutrendo, come se la stesse rafforzando, come se il suo corpo si stesse fortificando di giorno in giorno grazie a chissà quale evento, oltre al fatto che ingurgitava quantità industriali di Baane, Aacci, Mee e altri strani frutti, benchè guardandosi riflessa negli specchi d’acqua dove ogni giorno si abbeverava con la dispettosa compagna, non avesse notato alcuna differenza nelle sue sembianze né chiaramente in quelle del candido vestito che appariva anzi ancor più luminoso ogni giorno, passeggero indenne di infinite peripezie tra acqua, fuoco, piante e frutta.

Bene! Giunti a questo punto i compiti sembravano comunque chiari, primo: camminare, beh non era difficile, la stanchezza non si faceva mai sentire e Maa era una compagna di viaggio di tutto dispetto, mmhhhm… cioè no… ecco sì… di tutto rispetto, sì, così va bene; le giornate passavano tranquille e la noia non aveva mai fatto capolino durante l’interminabile passeggiata nella jungla del mondo sconosciuto. Aveva invece sentito, con gioia visto le prelibatezze del luogo, i morsi della fame e dopo un iniziale preoccupazione, anzi un vero e proprio terrore, mangiare era diventato un divertimento. Il primo giorno si era già vista costretta a cibarsi di formiche, cavallette e bacherozzi vari serviti su piatti di corteccia d’albero. Il che non le avrebbe fatto solo schifo ma addirittura non sarebbe riuscita lei stessa a condannare quelle piccole bestiole a diventare il suo pranzo quotidiano. Già se le immaginava tremanti tra le sue mani e urlanti di terrore, chissà poi come urlano le formiche? Si vedeva mentre portava quella pietanza tutt’altro che succulenta alla bocca, ne sentiva lo scricchiolare della dura corazza, inutile difesa contro i suoi robusti denti, si immaginava di inghiottire il tutto per poi sentirle risalire mentre avrebbero camminato veloci nella sua gola alla ricerca di una via d’uscita, aaaaahhhhhh!!! Poi aveva incontrato Maa e mangiare era diventato uno spasso. La piccola scimmia le aveva insegnato a riconoscere i vari frutti, a scegliere i più saporiti, i più maturi ed i più polposi, a non lasciarsi ingannare dalla forma e dal colore ed a riconoscere quelli più adatti al pranzo e quelli per la cena, che poi di notte non l’avrebbero disturbata con gorgogli rumorosi o strani movimenti interni capaci di svegliarla di soprassalto nel cuore della notte. Le sorprese già abbondavano in questo covo di meraviglie e non c’era bisogno di procurarsene con la golosità. Procedendo nell’elenco si poteva trovare come secondo importantissimo compito quello di sfuggire alle grinfie del vulcano, il Vecchio Brontolone e le sue eruzioni calcolate, precise e ormai prevedibili era un pericolo relativo e poi quella boccaccia focosa non aveva realmente l’intenzione di farle del male, certo intenzione era un parola grossa, sembrava quasi che il vulcano potesse avere una mente, sì e magari un anima. La stava spingendo lontano da sé, lungo un percorso ben definito, la allontanava spaventandola solo per indirizzarla verso la sua meta finale. Ed eccoci qua, terzo raggiungere questa sconosciuta ed incognita meta; cosa c’era laggiù, oltre la montagna, oltre quella vetta acuminata e rosea, al di là di quello che per lei era diventato il proprio mondo, al di là di se stessa e Maa cosa c’era? La vita? Una città? Persone che l’amavano? O c’era forse la fine, la fine di tutto o era l’inizio che l’attendeva oppure… Ardea si fermò, sentì chiaramente dentro di sé che qualcosa non stava andando, la sua ostinata presunzione che quella fosse soltanto una passeggiata e non un viaggio costellato di misteri pronti a svelarsi nella loro delicatezza o nella loro malvagità, la stava forse tradendo, probabilmente primo, secondo e terzo non erano le sole cosa da tenere presenti in quel mondo, l’antica sensazione di paura doveva essere prontamente recuperata e tenuta accanto all’attenzione per poter andare avanti nel cammino. C’era qualcosa, qualcosa stava accadendo in quel preciso momento, era una cosa nuova, mai provata e la stava divorando dentro, poi il dolore si placò, Maa gettò nell’aria uno dei suoi strilli più acuti e corse a rifugiarsi sulla cima della palma più vicina continuando a gridare a più non posso, Ardea alzò gli occhi e finalmente la vide.

Enorme, maestosa, meravigliosa nella sua imponenza, nonostante la paura che incuteva. Era impossibile non rimanere come ipnotizzati ad ammirarne le forme, la fierezza, i colori. Si trovava a circa cento metri da Ardea, il suo colore era come oro scintillante sotto un cielo che per la prima volta si stava riempiendo di nubi minacciose e cariche di pioggia, cariche di violenza e di tempesta. Le sue striature erano gocce di petrolio che scendevano lente dal possente dorso fino a perdersi nel bianco del ventre, il quale sembrava chiamarla inattesa ospite di una cena di gala. Eccola finalmente, temuta, sognata in incubi di paura e di terrore, indesiderata quanto perennemente presente nei suoi timori era arrivata, quella bestia feroce, la padrona della valle che veniva a riscuotere il suo credito, il mostro che l’aveva tenuta sveglia le prime notti e che l’aveva accompagnata silenzioso in quegli ultimi giorni finalmente era arrivato, infine si era presentato in tutta la sua mirabile inaspettata bellezza ed in tutta la sua enorme potenza distruttiva. Poi la tigre ruggì e l’intera valle si riempì di quel gorgoglio che fece perdere alla scena tutta la sua mirabile poesia e ne rese chiara la violenza, la crudeltà e la malvagità. Ardea conobbe quella paura e quel terrore che infinite volte si era immaginata e vide davanti a se la morte che la stava aspettando, cominciò a piovere, mentre nubi sempre più nere si addensavano nel cielo ed i primi lampi accompagnati dai fedeli tuoni squarciavano il cielo, facendo da eco ai ruggiti sempre più profondi e sempre più vicini.
<Aiuto nonno, che sta succedendo, cosa… cosa devo fare, cosa posso fare… nonno… nonno per favore dimmi che ci sei, nonno!>
<Tieniti forte mimma, tieniti molto forte e credi, tieniti agli appigli che troverai perché sta per arrivare e sarà violenta, credi, credici Ardea, credici fino in fondo.>
<Tieniti forte, si certo dove, come, a cosa e che devo tenere, qui bisognerebbe che sapessi volare e probabilmente se volassi adesso rimarrei folgorata da un fulmine mentre me ne scappo alta nel cielo…aiuto nonno aiutami. Maa, Maa, oh mamma!>
Non era possibile che ciò fosse vero, no, non c’entrava niente, era un colpo di grancassa tra violini stridenti, anzi no, era una batteria intera che rullava nel sottofondo di una serenata alla finestra. No, va bene camminare, va bene scappare o meglio essere indirizzata verso una meta sconosciuta, va bene il Vecchio Brontolone, le eruzioni e gli incendi, va bene che doveva aver paura e lei sciagurata, dopo un inizio nel terrore, si era data alla pazza gioia scorrazzando con Maa per la foresta e facendo da padrona in un mondo non suo. Va bene, va bene ma questo adesso cosa c’entrava? Se tutto questo era un enorme sogno precostituito e lei aveva solo dei compiti da rispettare, quale significato aveva quella malefica meraviglia che le si poneva davanti? Poi un ruggito riempi nuovamente la valle, il cielo rombò e la tigre cominciò ad avanzare lentamente. La risposta alle sue domande apparve a quel punto chiara, no non c’entrava niente ma c’era. Era una macchia di vernice caduta su un dipinto di valore, un’ammaccatura in un vaso d’argento, uno schiaffo sulla faccia di un bambino, qualcosa che non doveva assolutamente esserci però c’era. Il cielo era completamente nero, quasi come fosse notte ma nel cielo non c’era la sua compagna notturna ad illuminarle il cammino, non c’erano le stelle a rallegrarle la vista, a formare figure di volti o di strani animali, c’erano solo lampi di fuoco e rombi di tuono. E la tigre continuava ad avanzare lentamente.

Fu il tempo di un pensiero, un lampo attraversò il buio del cielo e in un lampo la tigre le fu addosso, sbattendola con forza a terra, lasciando che il suo bel vestitino bianco si sporcasse del fango che correva veloce sotto la pioggia battente. Maa urlava con tutto il fiato che c’era nella sua piccola gola, sbracciandosi a più non posso nell’inutile tentativo di spaventare o quanto meno distrarre la tigre. I lunghi artigli dell’animale si infilarono tra le trine e i merletti, lacerando il candore dell’abito e facendo apparire rosse macchie di sangue tra i veli trasparenti ed i soffici tessuti.

Ardea rimase più colpita dal suo corpo e dal proprio vestito che dall’irruenza, dalla potenza e dalla violenza di quell’enorme bestia striata d’oro. Non aveva mai pensato di essere vulnerabile, aveva avuto paura fin dal primo giorno ma la suadente voce che l’aveva accompagnata l’aveva rassicurata inconsciamente e nella sua anima si era accoccolata la sventata certezza che lei stessa e il proprio corpo fossero invulnerabili; non si era mai ferita, non aveva mai provato dolore, si era sentita stanca ma non di fatica, stanca perché sperduta, stanca perché stufa ma mai provata, mai sfinita. Non aveva pensato che qualcosa del genere potesse mai accadere a lei, era l’incantesimo che si spezzava, la magia che incontrava il proprio antidoto era la vita vera dopo giorni e giorni di sogni.

Il cielo appariva ancora più buio del nero più scuro e i lampi si susseguivano infiniti uno dopo l’altro quasi a formare un manto striato di oro e di nero anche sopra la vallata oltre a quello che già la sovrastava ferendola e terrorizzandola. Il ruggito era frastornante sentito da così vicino e il fetore che fuoriusciva dalle fauci della Tigre era quello delle paludi, dove acque contaminate ristagnavano senza vita. La sua pelliccia era invece una sirena infida che cantava e attirava a sé morbida, vellutata, calda ed invitante e mentre Ardea si perdeva nel vortice misto di paura, delirio e gioia incosciente, pronta a cadere definitivamente, a lasciarsi andare, ad abbandonare quella inutile lotta impari, mentre la piccola Maa scesa dalla palma si era avvicinata alle due lottatrici e continuava ad urlare a squarciagola cercando di attirare su di se l’attenzione, quando la tigre si erse in tutta la sua infinita possenza, ferma sulle zampe posteriori con gli artigli al cielo e lanciando un ruggito che per un attimo sovrastò il rumore dei tuoni, in quel momento quando tutto era ormai perduto davanti agli occhi di Ardea si parò uno spettacolo terrificante ma liberatorio. La tigre alta sopra di lei si arrestò, volse il suo sguardo verso Maa fissandola con odio per un attimo di troppo, ingenuamente distratta da quell’insignificante animaletto saltellante che riuscì invece ad ottenere quello per cui stava rabbiosamente lottando. Una delle migliaia di fulmini che saettavano violenti intorno a loro aveva colpito in pieno la temibile mastodontica bestia. Per un attimo il cielo, la terra, l’animale e la luce erano furono un tutt’uno, un'unico cuneo di energia che cercava di spezzare in due quel piccolo fragile mondo. La forza dell’uragano che si era scatenato sembrava in un primo momento essersi alleata alla tigre mentre invece le si era rivoltata contro riducendola in un ammasso di polvere fumante. Dopo un breve e fuggevole attimo in cui era parso che il fulmine si fosse nutrito dell’energia della tigre e questa di quella della saetta, apparsa come sua alleata agli occhi impauriti di Ardea, la natura aveva trovato dentro di se la forza per distruggere il più mortale dei pericoli che in quel momento si stavano abbattendo su Ardea, che avrebbe potuto farcela a salvarsi dalle forze del vento o della pioggia ma non avrebbe avuto alcuna possibilità contro quella sinuosa, ammaliante, feroce e potente bestia, il male sotto una forma mirabile ed il male era stato sconfitto.

Rimase lì, sotto la pioggia battente che piano piano smorzava la sua forza, con il sedere immerso nel fango, i capelli come un putrido turbante intorno alla sua testa, le mani piene del suo sangue, sgorgato da ferite poco profonde ma che erano riuscite a farle comunque sentire la forza del male. Maa le corse incontro senza smettere di lanciare i suoi acuti versi e la circondò con le zampacce pelose formando con l’amica un unico amorfo ammasso di paura e amore sotto le ultime goccioline di pioggia. Ardea piangeva, piangeva della paura e rideva, rideva della vita e di ciò che le era sembra