VEDA
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VEDA

… – 600 A.C.

Il terreno in cui ci stiamo accingendo ad avventurare è tutt’altro che stabile, luminoso e rettilineo. La religione originaria, che dagli altopiani dell’asia centrale si diffonde in ogni dove, si appresta, addentrandosi nella penisola indiana a subire un brusco trauma che la renderà protagonista di una svolta radicale, pur pressoché conservando gli apparati e le divinità degli inizi. Merito ne hanno le popolazioni indigene, il clima, l’establishment politico o chissà cos’altro, fatto sta che la fede che si sviluppa dall’India in tutto l’oriente prende le distanze da tutte quelle confessioni che direttamente o indirettamente derivano proprio dalla religione e dalle genti Indoeuropee. Virtù fondamentale della metamorfosi è la capacità di sviluppare l’idea originaria e lasciare che tale maturazione trovi mai una fine né una fine ben precisa.

I Veda, come ogni religione, hanno i propri miti, i propri déi, i propri libri, i Veda appunto, ma la loro peculiarità è quella di non castrarsi all’interno di un’idea originaria attenendosi passivamente a regole immutabili bensì di affrontare i miti, confrontarsi con essi e su di essi, tralasciarli, modificarli, confonderli. Gli déi sono puntigliosamente descritti in dettagliatissime elencazioni senza mai arrivare però a completarne la forma, evocarli nella loro interezza significa crearli e nessun inno, prudentemente, arriva fino a tal punto, il dio esiste nella misura in cui lo si invoca, sembra quasi che ci sia nel veggente redattore dei Veda il timore di trovarsi realmente faccia a faccia con il dio o altresì realizzare che non esista. Per questo non si perfeziona mai l’evocazione del dio, lasciandola fumosa e improvvisamente carente, miscelando poteri e indirizzi quasi come se tutti fossero capaci di tutto ma nessuno lo sia poi davvero unicamente e interamente. Nei Veda non esiste l’idea del Dogma, ogni affermazione può essere affinata, contrastata, variata, evoluta creando nuovi filoni di fede che il più delle volte non sostituiscono, ma si affiancano a quelli esistenti, a volte li surclassano, altre vivono momenti di gloria per poi cadere nel dimenticatoio, altre danno vita a nuove grandi ideologie capaci di espandersi in autonomia sia geograficamente sia spiritualmente. Dai Veda allo Shintoismo il passo e lungo ma è compiuto con pazienza, con interiorità, senza pretese e senza scadenze. Guerre e disastri hanno accompagnato questa evoluzione pur non impedendone sviluppo e espansione, contribuendo invece, insieme a tutti gli altri fattori storici e umani, a donargli incredibile forza ed energia.

In questa trasformazione rimangono punti fermi gli antichi Veda, i loro déi e i loro miti, congiungendosi, confondendosi, alternandosi. La stessa classificazione cronologica degli déi e dei loro attributi è particolarmente ardua se non addirittura inutile. Mi sono così ritrovato ad effettuare una catalogazione in base al grado di importanza manifesta, per ordinarli prima nei Veda e successivamente nell’Induismo, senza con questo voler significare che tali déi appartengano specificamente all’una o all’altra fase spirituale. Mi cimenterò nell’analizzare ciascuna di esse come indipendenti e statiche e allo stesso tempo nell’approfondire l’ereditarietà di queste e di tutte quelle che ne seguono.

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Intorno al 1500 a.c. le continue e cicliche migrazioni dei popoli dell’Asia centrale portano una consistente comunità di discendenza Aria a stabilirsi nella valle dell’Indo. Con sé portano usanze, miti, cultura e culto delle loro origini preservandoli pressoché integralmente per un lungo tempo nonostante l’incontro con le popolazioni indigene. Il rapporto con queste è molto distaccato, gli Arii sono una popolazione prettamente bucolica e si stabilisce nelle fertili campagne lungo il fiume, distante dai villaggi e dalle piccole città già esistenti, viste come luoghi colmi di sozzure e di promiscuità, lontane dell’ordine universale alla base del loro culto. Il disprezzo per una condotta così contraria al –rta è talmente smisurato da adattare immediatamente uno dei miti primordiali allo status quo creatosi, apportando chiaramente la variabile più opportuna che giustifichi l’esistenza di una tale feccia e al tempo stesso ne misuri l’enorme distanza dalla purezza Ariana. Purusha, il primo uomo, il gigante cosmico protagonista del sacrificio primordiale agli déi, abbandona l’originaria tripartizione Indoiranica/Indoeuropea per dar luogo a una quarta parte, ovviamente priva di qualsiasi riconoscimento anzi addirittura talmente indegna da divenire intoccabile. Lo smembramento cui viene sottoposto è l’origine delle quattro principali classi, le caste, che influiranno in maniera assolutamente indelebile sulla cultura indiana in divenire, tanto da resistere e sussistere ancora oggi. La bocca per la classe sacerdotale, le braccia quella militare, le cosce la classe economica e poi la casta degli intoccabili i Śǔdra, rappresentata dai piedi, a questa appartengono appunto le genti di pelle scura che già avevano civilizzato la valle dell’Indo. Le maggiori città, Harappa e Mohenjo-daro, stavano già là da almeno millecinquecento anni, così testimoniano le ricerche archeologiche, ma nulla hanno potuto contro la cultura, la potenza e il potere degli invasori. I nuovi arrivati s’impossessano delle leve del comando e travasano tutta la loro essenza nei nuovi territori. I fiumi sono il luogo prediletto per stabilirsi, l’abbondanza d’acqua dei corsi che scendono dal Pamir garantisce l’irrigazione per le culture e diviene essenziale per le abluzioni necessarie ai riti religiosi. Gli indigeni accettano passivamente l’ingerenza Aria ma come sempre accade, la lenta e lieve ma progressiva e inesorabile alterazione degli usi e del culto originari ha certamente come componente anche l’adattarsi naturale di quello che si insinua con ciò che lo include, paventando un’immutabilità che alla resa dei conti non si dimostra tale.

L’atavica religione, primeva generatrice universale, avvia il suo lento fluire nel mondo; Mazdeismo e Veda si apprestano a divulgare il proprio archetipo e ognuna delle due a suo modo influenzerà un emisfero miscelandosi con culti minori, con riti locali, con usanze che a loro volta altro non sono che la stessa visione derivata, modificata in altro modo, per dar luogo a un ulteriore concetto che continuerà a trasformarsi all’infinito.

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Alla base del culto dei Veda c’è una serie di raccolte, le samhitā, nelle quali è enunciato tutto il sapere religioso, la conoscenza cosmogonica, la teogonia, l’esoterismo e i misteri. Qui vengono elencate accuratamente le procedure di espletamento delle cerimonie, stabilendo le gerarchie sacerdotali, le mansioni e addirittura le modalità di vocalizzazioni dei canti e delle lamentazioni. Tutto è scrupolosamente dettagliato fin nei minimi particolari tranne la puntuale e precisa descrizione degli déi, dei loro ambiti d’influenza e dei loro peculiari poteri. Ogni presentazione lascia sempre e comunque un alone d’incertezza, conducendo infine a un resoconto incapace di individuare esattamente dove la figura di un dio termini e cominci quella di un altro. Ogni dio finisce per apparire come una diversa manifestazione di un altro, una sua emanazione, una complementarietà, un completamento, fino quasi a potersi immaginare un unico dio che si esterna di volta in volta con aspetti diversi a seconda delle necessità del fedele che gli si rivolge; Varuņa e Mitra si confondono in un unico dio che si manifesta in maniera diversa a seconda delle ore del giorno o delle fasi lunari, si prega l’uno o l’altro in base al momento cronologico in cui ci si rivolge a uno di loro. I poteri di ognuno degli déi, gli attributi, le genealogie si ripetono in ordine sparso, si moltiplicano le mogli e i mariti, i figli e gli avi, come se si mostrasse complicato effettuare una nitida identificazione degli déi rendendoli spesso soggetti ad essere assimilati gli uni agli altri o comunque favorendo tale opportunità. Questa particolarità che può apparire inizialmente come un difetto ne risulta invece essere il maggior pregio, anzi la causa primaria grazie alla quale siffatta religione ha potuto espandersi talmente fino a diventare una non religione. Dagli stessi Veda si evince che la fumosità descrittiva sia in realtà voluta, in quanto nominare una divinità identificandone con precisione caratteristiche e sfera di influenza equivale a dargli vita e potere. Si arriverà molto più tardi addirittura ad affermare che gli déi esistono soltanto perché nominati nelle preghiere come destinatari delle offerte. Il verbo che si fa carne.

Le samhitā hanno origini molto antiche e derivano da una tradizione orale, la quale contempla anche le stesse tecniche di memorizzazione. Successivamente le circostanze, le necessità e le opportunità rendono possibile la loro trascrizione, senza però, pur nero su bianco, mai ottenere la definitività che spetterebbe ad ogni norma. Il fascino di questo culto deriva proprio dalla completa assenza di un vero e proprio Dogma come lo si intende nelle culture occidentali. Ci sono regole e norme ben precise, come lo sono quelle emanate da Varuņa per il mantenimento dell’ordine universale, ma mai si lascia intendere che queste possano o debbano rimanere immutate e su questa variabilità si costruisce l’intera cultura e l’intero culto in divenire. Questa mancanza di limiti permette ai teologi Vedici di analizzare accuratamente le samhitā dando a esse stesse e al culto la possibilità di un’evoluzione esponenziale; prima i Brāhmaņa, trasposizioni in prosa delle antiche rime dei Veda, poi le Upanişad speculazioni, analisi e approfondimenti sui temi più intimi allargano a dismisura la visuale divina del culto modificandone i caposaldi fino a trascendere Dio e l’uomo stessi.

Il culto Veda ancora prescinde dalla collocazione geografica e dalla struttura etnologica dei fedeli, come invece diventerà essenziale ed esclusivo per l’Induismo che ne deriverà, si fonda invece nell’attenersi scrupolosamente a quanto proclamato e manifestato nei Sacri Libri, le samhitā, le cui parti più antiche manifestano la loro origine non indiana nei contenuti complementari che fanno riferimento a componenti orografici o faunistici non tipici della penisola indiana e confermandone la provenienza transindiana. Le fonti delle samhitā sono attribuite ai veggenti Rishis, cantori ispirati che per primi divulgano il sapere che diverrà il Veda, i loro attributi sono un libro a indicare la sapienza e un vaso colmo d’acqua a significare la fertilità, in questo caso quella della mente dovuta alla conoscenza. Di tuti i cantori, i Saptaŗşi sono i sette veggenti dell’antichità di origine sovrumana rammentati nei libri e divinizzati per aver tramandato la conoscenza ai posteri. Le raccolte sono chiaramente di molto posteriori alla nascita del culto, gli Inni contenuti in esse, tramandati oralmente per secoli, solo successivamente vengono posti per iscritto, per lo più in forma poetica, seguendo i criteri della tradizione orale e accuratamente ordinati e catalogati secondo parametri ben precisi; per primi gli inni dedicati a Agni, ordini crescenti o decrescenti in base alla quantità di strofe, libri numerati in base a quante strofe di una determinata lunghezza vi sono all’interno, una precisione a dir poco esasperante, una precisione però tradita meravigliosamente dall’apertura evocata nella mente umana. Rimarrà la precisione e la fedeltà ma a culti che diverranno.

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I Veda rispecchiano inizialmente la tripartizione che Dumezil ha ben interpretato nelle religioni Indoiraniche e Indoeuropee. All’apice della prima funzione, il Sacro, si pongono Varuņa e Mitra con le loro caratteristiche complementari che ho già sviscerato in precedenza. Varuņa è il dio della notte, della potenza divina e della Māyā, la magia. A lui ci si rivolge per essere alleggeriti dalle pene terrene, per sollecitare castighi per i nemici e per ottenere le grazie più disparate. Dio inquietante e spietato, ampliveggente, si serve di appositi sorveglianti, gli spáś, disseminati per ogni dove per controllare la condotta umana; dove due sono egli è il terzo invisibile tra loro controllore implacabile. Leggo qui un’antitesi puramente Cristiana “dove due o tre sono riuniti nel mio nome Io sono lì” (Mt 18,20), Spirito Santo a confortare e evocare Amore, l’ubiquità di Varuņa connessa con la fraternità di Mitra, una commistione che dagli accenni dei Veda si amplia in altre direzioni, geografiche e teologiche. Difficile da placare punisce severamente con pene corporali quali la lebbra, la tisi e la paralisi coloro che mancano nei confronti dello –ŗta, la legge cosmica, l’ordine universale che lui ha provveduto a separare dall’Anŗta, il caos, la menzogna, che l’atto sia stato compiuto oppure ancora da compiere. È il re degli déi, colui che ha stabilito le leggi ferme e risolute che governano l’universo, grazie a queste norme divine le stelle brillano nel cielo e scompaiono di giorno, i fiumi si riversano nei mari senza mai colmarli, è grazie alla Maya che gli uccelli volano e cielo e terra rimangono saldi nelle loro posizioni. Assieme a Mitra, la personificazione del contratto, è depositario dei giuramenti di fedeltà degli altri déi, a garanzia della indissolubile sottomissione questi lasciano in pegno presso la sua dimora il loro corpo prediletto, la più esclusiva delle proprie diverse manifestazioni.

La seconda funzione, il militare, è egregiamente ricoperta da Indra, dio nerboruto, forte e vigoroso, impersona la potenza della classe dirigente Ariana, gli Kşatríya. Questo termine si ritroverà anche più a occidente e arriva addirittura nelle gerarchie di Alessandro Magno che divide il suo impero in province denominate Satrapie dal termine identificativo dei loro reggitori, i Satrapi, gli Kşatríya appunto. La mitologia ci fa conoscere l’immane potenza di Indra, forse talmente tanta e troppo violenta che proprio per questo Zarathushtra ne fa invece il dio degli inferi. Sconfigge tutti i suoi antagonisti a cominciare da Vŗtra, il trattenitore delle acque o il trattenitore delle vacche, ma comunque l’incarnazione di ciò che ostacola la fertilità. Durante la più cruenta delle sue battaglie Indra lo distrugge scagliandogli contro il suo fulmine e allo stesso modo annienta tutti i suoi alter ego, addirittura novantanove, tra cui Ahi il serpente, Vala la cavità che imprigiona, Namuci il non liberatore. Oltre a uscire, naturalmente vittorioso, da altri numerosi scontri e massacri. Ma Indra non è soltanto un colosso invincibile per la sua prestanza, al pari di Varuņa è capace di utilizzare la Māyā nel più sottile dei modi per ottenere i suoi successi. Attraverso lo Indrajāla, il miraggio, l’illusione, durante un combattimento contro un nemico che non poteva essere abbattuto da niente di asciutto o di bagnato, Indra lo sconfigge con la schiuma del mare che non può essere definita appunto né secca né bagnata. Nell’uso del suo fulmine, nella manifestazione sciamanica di pietra od ossa, anziché la tipica mazza ferrea, esterna la sua facoltà magica necessaria per la preparazione e per l’utilizzo dello stesso. Indra quindi è potenza fisica, virtù intellettuale e padronanza della magia. Un dio completo che si completa con le sue innumerevoli attitudini terrene, si trasforma in ogni animale e umano per raggiungere i propri scopi, sempre a spese degli altri; infine non poteva certo mancare una virilità senza confini, dotato di mille testicoli, ingravida tutte le femmine, animali e umane.

Indra accresce la potenza grazie alle sue attitudini terrene molto vicine alle vicende e ai bisogni umani, tali da renderlo più accessibile e allo stesso tempo disponibile, Gli Ariani lo sentono al proprio fianco in ogni impresa di conquista, il dio parteggia spudoratamente per i suoi fedeli e diviene semplice rivolgersi a lui per ottenere potere e sostanza. Grazie al suo intervento la conquista della valle dell’Indo è resa agevole, strappa dalle mani degli indigeni terreni e armenti, soprattutto le vacche, che non sono destinate ai sacrifici, ma che proprio per la loro importanza e per quell’influenza subdola e impercettibile degli usi locali torneranno a non esserlo fino a divenire sacre. È l’artefice della conquista del ricchissimo territorio in cui si sono spinti, è a lui che viene dedicato un quarto degli inni Vedici per ringraziarlo di tanto giovamento. Si arriva addirittura ad assimilarne il rapporto con gli umani pari a quello di Yhwh con il popolo Ebreo, anch’esso provvido di preghiere e ringraziamenti di ordine bellico. Ritroviamo anche una caratteristica Islamica relativa al premio spettante ai guerrieri, la morte in battaglia è quasi auspicata perché evita il Pitryāna, la via che porta ai padri predisponendo ad una nuova rinascita, indirizzandoli invece al Devayāna, la via che porta agli déi in un paradiso definitivo nel quale sono portati e accolti dalle Apsaras, figure mitologiche corrispondenti alle Valchirie Germaniche, di cui diverranno infine amanti; il sistema migliore per assicurarsi guerrieri impavidi e risoluti.

Indra manifesta, inoltre, al pari di Varuņa e Mitra una componente cosmica, separa il cielo dalla terra e traccia fra loro il percorso del sole ma soprattutto con il suo fulmine lacera le nubi provocando la fertile pioggia che ingravida la terra, vacca divina di cui egli ne è il toro, potenziando la vita animale e vegetale.

Infine, la terza funzione, l’Economico, è presieduta dagli Ashvins, coppia di déi gemelli, i cocchieri dell’aurora. Sono medici divini che curano ogni tipo di malattia, ringiovaniscono i vecchi, donano le possibilità di godersi la vita con abbondanza di messi, di figli e di bestiame.

Ma la scrittura dei Veda copre un periodo di centinaia di anni e nella loro elaborazione e rielaborazione si perdono le tracce originarie del tripartitismo. Gli déi cominciano rapidamente a cedere l’unicità degli attributi e a mescolare gli ambiti di pertinenza. Fra questi uno su tutti ascende rapidamente al favore degli Ariani, Agni, il fuoco sacrificale, ipostasi del sole. Dio del fuoco, la sua azione funge da intermediario fra gli uomini e gli déi, è lui, infatti, che porta agli déi le offerte dell’olocausto, rosso e avvolto dalle fiamme. La mitologia lo vede nascere dal sole, dal cielo, dal fulmine, dalla terra ma anche dall’acqua, dove si ritiene che riposi il fuoco spento ma anche atto sessuale in cui il fuoco simbolo maschile si spenge nel simbolo femminile dell’acqua. Il suo vāhana, ovvero la cavalcatura sulla quale viene raffigurato, è un ariete o un caprone. Come ogni dio Vedico è ambivalente, racchiude cioè in sé una variante terribile e una buona. La prima lo vede gemello di Indra, a condividere con lui i fasti e le imprese della seconda funzione, il Militare. Vengono evocati assieme prima di ogni battaglia affinché leghino e brucino i nemici, per questo vanno a loro le offerte e i sacrifici propiziatori. Nella battaglia contro Vŗta Agni arde per Indra le novantanove cittadelle a difesa del potente re Śambara. Maggiore diviene però la sua onnipresenza nella variante buona, retaggio di una superiore importanza del fuoco proveniente dalla fede originaria, la quale nella sua forma occidentale trasforma il fuoco, come rappresentazione del sole, nel dio unico Ahura Mazda. Allo stesso modo Agni entra in ogni casa e assurge a prioritario destinatario degli Inni del Ŗgveda. Come intercessore presso gli dèi è lui che reca i quotidiani sacrifici operati in famiglia. Ogni abitazione ha collocati al proprio interno tre distinti focolari residenza di Agni, ciascuno ha una forma e una destinazione specifica da utilizzare in determinati momenti della giornata. Il principale di questi è il Gārhapatya donato al capofamiglia dal padre al momento della fondazione della nuova casa, solo con il matrimonio l’uomo si completa e ne merita l’onore della gestione. Il fuoco rimane costantemente acceso ed a questo si attinge per accendere gli altri due. Al mattino vi viene celebrato l’Agnihotra, l’offerta del latte appena munto e successivamente porzioni dei pasti consumati, seguendo le rigide norme indicate negli appositi Inni del Ŗgveda.

Indra si accompagna anche con il Soma la pianta divina da lui scoperta e di cui evoca i mirabili effetti. Bevanda allucinogena, probabilmente distillata da un fungo, perde però nel tempo la sua importanza fino a venire definitivamente dimenticata con la calata degli Ariani nella piana del Gange, dove tale vegetale non cresce. Nel Ŗgveda viene accuratamente indicato ogni passaggio, dalla raccolta alle dodici spremiture, diverse e cerimonializzate che ne portano alla perfetta chiarificazione, all’offerta e al consumo. La mescita della bevanda sacra è riservata ad appropriati riti di offerte agli dèi, attraverso le quali questi ottengono l’immortalità, il potere, il comando. È l’uomo, dunque, che per irrefrenabile riconoscenza dovuta alla soddisfazione dei propri bisogni e desideri da parte degli déi, concede la vita eterna alle divinità. La proprietà inebriante oltre alla sua azione simile ad un qualsiasi stupefacente, facilita la connessione sciamanica con gli déi illudendo o confermando al sacrificante la connessione diretta con il dio evocato. L’esperienza vissuta porta a credere, ma molto più verosimilmente a far credere, che questa sia realmente avvenuta, donando al Brāhmano il potere richiesto nella misura in cui questi riesce a trasmettere la concretezza dell’evento vissuto ai cooperanti e agli accoliti. Lo stato di allucinazione in cui il sacrificante versa al momento dell’assunzione del Soma riesce però, in base alle intenzioni e al grado di concreta dedizione alla fede, a maturare nelle menti dei Brāhmani delle reali sinapsi con l’assoluto verificato in queste contingenze, cresce pertanto la consapevolezza di poter riuscire ad entrare in contatto con l’Ātman universale in sé per arrivare a trovare il sé assoluto nell’Ātman. Quest’esperienza allucinante, favorita dall’ingestione del Soma, si trasforma, con l’abbandono di tale pratica, in quella parallela ottenuta attraverso l’ascetismo, la concentrazione, il completo affidamento al Ka che caratterizza l’incipiente Hinduismo che è solo fede e dedizione, le uniche vie per ottenere in vita e conquistare la non vita.

Il Soma è alla base delle principali cerimonie sacrificali le quali non prevedono in ogni caso spargimento di sangue, l’olocausto offerto viene ucciso per strangolamento o per affogamento, nell’ordine le offerte più gradite agli déi sono l’uomo, molto raramente, il cavallo, nel rito dell’Aśmavedha riservato al re, la vacca e la capra, quest’ultima è la preferita nei riti del Soma in quanto cibandosi della pianta da cui viene estratto è ritenuto il sacrificio più adatto al dio che ne rappresenta l’essenza.
AGNI

I Veda, il sapere, la conoscenza, sono redatti fra il 1700 a.c. e il 700 a.c., questo naturalmente comporta diverse modalità di stile pur rimanendo invariata la lingua originale, nonostante molti dei termini divengano nel frattempo obsoleti, anzi si coglie l’occasione per redigere un testo apposito da includere nei Veda in cui appunto si elencano, con la solita puntigliosità, tutte quelle parole che dopo mille anni sono ormai diventate incomprensibili.

Il corpo principale arcaico, i Trayī Vidyā ovvero i tre saperi, è composto appunto di tre samhitā volte all’insegnamento di quanto necessario per il compimento del sacrificio, che nell’iniziale culto ha un carattere altamente predominante su quella che potremmo, con molta generosità, definire fede. Il Ŗgveda, in cui sono elencati gli inni rivolti alle divinità; lo Yajurveda, in cui si enunciano le formule da recitare durante il sacrificio e il Sāmaveda, contenente gli inni melodici di competenza dello Udgātar, il sacerdote, da cantilenare con metodo e ritmica particolari. A tal proposito si annettono nuovi libri in cui si specificano esattamente anche le modalità e le note della cantillazione.

Successivamente si aggiungono nuove samhitā che da una parte completano e dall’altra cominciano ad ampliare esponenzialmente la visuale dei Veda. Questi sono i Brāhmaņa, commenti in prosa che riprendono la poetica del Ŗgveda amplificandone l’analisi sulla parola sacra, il Brahman; gli Āranyaka, testi esoterici sul sacrificio, definiti della foresta in quanto da recitare all’aperto lontano da tutto e tutti e in gran segreto; per terminare con le Upanişad, che daranno il colpo di grazia ai Veda e spalancheranno le porte dell’Hinduismo; testi che affrontano la trascendenza del culto allontanandosi dal significato del sacrificio, fino a renderlo non più in uso e accentrandosi invece sull’essenza umana cosmica e sull’esperienza spirituale dell’Ātman- Brahman, l’anima e Dio.

La formulazione iniziale dei Veda arcaici avviene sotto forma di Śruti, ascolto, cioè quello che i Rishis hanno udito da Brahmā, la personificazione della parola non ancora diventata un vero e proprio dio, riportata fedelmente per tradizione orale. Successivamente e oserei dire naturalmente, invece si tramuta in Smŗti ovvero la tradizione consegnata alla memoria dai successori dei Rishis. Questa ovvietà diventa invece una linea di divisione nelle successive speculazioni manifestando l’importanza nel conformarsi alle norme, si creano diverse scuole di pensiero che hanno le loro basi sulle diverse manifestazioni della parola, quello che dio ha detto e quello si dice dio abbia detto. Il coraggio di interpretare e cambiare la scrittura che soltanto questo ramo del culto Indoiranico avrà il coraggio di fare senza fossilizzarsi su normative e ritualizzazioni vecchie di millenni. Grazie a questo si passerà dall’adorare Dio compiendo precisi cerimoniali, al dialogare con Lui, entrare e lasciar entrare Dio nell’essenza umana. Quest’ultima parte è infatti definita Vedānta, ovvero la fine dei Veda che si protrae fino nei primi secoli d.c., la definitiva fine dei Veda che già dal 600 a.c. circa con i Brāhmaņa avviano la metamorfosi del culto.

La più importante raccolta è la Ŗgvedasamhitā, il cui sapere relativo alle strofe di lode è destinato alla funzione sacerdotale, lo Hotar che ne fa uso durante le cerimonie, precisando che tale è considerato di volta in volta chiunque officiante proprio per il ruolo che ricopre in quel preciso momento e la funzione che gli viene attribuita per l’operazione che sta compiendo, non per gerarchia, studi o appartenenza ad una determinata casta, sacerdote è quindi considerata qualunque persona che in quel momento procede ad effettuare il sacrificio. Per ogni figura officiante sono indicate esattamente le parti a lui riservate, i comportamenti cui attenersi, gli strumenti da utilizzare, le formule da recitare e ogni altro minuzioso dettaglio necessario per l’esecuzione e la riuscita di ogni singolo rito. Il Ŗgveda, così meglio definito, è suddiviso in dieci parti designate cerchi ovvero Mandala, più volte Mandala e cerchio ritorneranno a indicare i cicli della vita a fondamento dei culti in cui i Veda si tramuteranno. A ogni Mandala è attribuito un appellativo derivante dal titolo di una famiglia che si fregia, con leggendaria ragione o il più delle volte solo per lustro, di discendere direttamente da uno dei Rishis e detenere pertanto il diritto di portarne il nome e il prestigio di avere contribuito alla conservazione e della diffusione degli stessi Inni. Si parla di ventuno diverse edizioni, fra cui la Samhitāpāţha, la versione cantilenante effettivamente utilizzata per le cerimonie, mentre quella giunta fino a noi nella sua stesura definitiva e completa è quella detta degli Śākala, la quale è tecnicamente definita Padapāţha ovvero enunciata per parole senza la ritmica tipica del Ŗgveda, pratica introdotta proprio dalla famiglia Śākala. I Mandala contenuti in essa sono comunque da considerarsi in linea di massima quelli originari di tutte le diverse Samhitā esistite. Il primo libro, che in realtà è una rielaborazione successiva, contiene Inni ascritti a diversi Rishis. Nel secondo si raccolgono gli Inni del Rishis Gŗtsamada il quale introduce il culto di Agni. Il terzo è redatto dal Rishis Visvāmitra Gāthina, uno Kşatriya, guerriero, divenuto Brāhmano. Il quarto contiene gli Inni del Rishis Vāmadeva Gautama, il quale si narra poetase già nell’utero materno. Il quinto è ascritto al Rishis Atri, rinomato per essere sopravvissuto a un Ordalia. Il sesto è in comunione fra i Rishis fratelli Bharadvāja e Samyu. Il settimo è redatto dal Rishis Vasişţha rivale di Visvāmitra. L’ottavo diversamente dagli altri non inizia con Inni dedicati ad Agni ed è ascritto al Rishis Kaņva e ad altri discendenti di Āngiras. Il nono libro è un montaggio di Inni dedicati al Soma del Rishis Āngiras, si rielencano qui tutti i riti specifici dei cerimoniali connessi con i sacrifici al Soma. Il decimo ed ultimo libro raccoglie Inni di vari veggenti non contenuti negli altri libri e Inni di particolare importanza o specifici per determinate cerimonie. Tutti i riti descritti nel Ŗgveda culminano con un’offerta agli déi e la stragrande maggioranza di essi prevede il sacrificio di un essere vivente, solitamente una capra, fra questi ve n’è uno molto particolare il Paśubandhá. Questo rito è composto da numerose fasi preparatorie e altrettante conseguenti all’uccisione della povera bestia. La particolarità di questa cerimonia è di essere tenuta una volta l’anno e la conseguenza della mancata esecuzione del rito è la completa astensione dal consumo di carne per l’anno successivo. La caduta in disuso di questa cerimonia porta, tra le caste più alte ovvero quelle che maggiormente si attengono o sono tenute ad attenersi al Veda, il diffondersi di una dieta vegetariana che sfocia con il tempo nella completa astensione dalle carni che ben si confà con le condizioni e le esigenze dell’Hinduismo, primogenito dei Veda.

Nei secoli successivi, con l’espansione del dominio Ariano fino alla pianura del Gange, si amplia e si sviluppa anche la visione cosmica dei Veda favorita dall’incontro di ancora nuove civiltà e caratteristiche orografiche, da un più consolidato assetto geopolitico, da una sempre maggiore identità nazionale. Questo continuo cambiamento favorisce anche la concezione delle opportunità di mutamento all’interno dell’umanità stessa, della sua evoluzione e delle capacità di comprensione o almeno della possibilità di esplorare l’ignoto e questa civiltà in divenire non perde certo l’occasione e l’abitudine di analizzare, approfondire e sviluppare nuovi concetti, astrazioni e deduzioni partendo dalle proprie origini teologiche senza per questo mai tradirle ancorché stravolgendole, permettendosi invece di considerarle integrazioni dell’antico sapere. Si aggiungono così all’originale Veda nuove speculazioni che vanno di volta in volta a trattare specifici argomenti, déi o riti tramandati nella loro rigida mutabilità. Inizialmente queste sono imputabili agli specifici addetti ai lavori e prendono il nome di Brāhmaņa testi esegetici che mirano a una migliore comprensione e interpretazione degli inni, con approfondimenti sull’eziologia dei complicati cerimoniali Vedici. Successivamente si inseriscono dissertazioni esoteriche, misteriche e filosofiche definite Upanişad, letteralmente da apprendere sedendo rispettosamente ai piedi del maestro, da declamare lontano dall’abitato dove nessuno può udire ma anche dove nessuno può disturbare né tantomeno censurare.

Il Ŗgveda si arricchisce in questo modo di due Brāhmaņa, testi complessi frutto di secolari elaborazioni, non certo agevolmente accettati e conformati universalmente ma in ogni caso divenuti di volta in volta nuovo postulato cui attenersi o su cui estendere nuovi orizzonti, lo Aitareyabrāhmaņa composto da quaranta sezioni incentrate in maniera preponderante sull’importantissimo sacrificio del Soma, e il Kauşītakibrāhmaņa composto da trenta sezioni dedicate ad un analisi più ad ampio raggio sull’intero libro. Entrambi terminano con il testo da recitare in luogo selvaggio, l’Āraņyaka, seguiti da una specifica Upanişad. Si assommano a concludere il Ŗgveda altre otto Upanişad; il Ŗgvedaprātiśākhya dedicata alla fonica e alla metrica degli inni; il Ŗgvidhāna elenca gli effetti della recitazione; il Kalpasūtra sulle forme rituali; lo Āśvalāyaņaśrautaśutra dedicato ai grandi sacrifici e lo Āśvalāyaņagŗhyaśutra sui riti domestici; i paritetici ma più recenti Śāńkhāyanaśrautaśutra e Śāńkhāyanagŗhyaśutra; il Nighaņţu un elenco di termini di difficile comprensione o obsoleti; il Bŗhaddevatā l’elenco delle divinità a cui sono indirizzati gli inni. Come si può vedere un enorme e continuo lavoro di analisi sulla propria cultura, di cui dobbiamo dar merito a questa civiltà per il coraggio e la capacità di autocritica e di volontà di evoluzione.

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Il secondo grande Veda è la raccolta dello Yajurveda, volta a codificare le azioni dell’Adhvariyu, il sacerdote preposto alla preparzione e alla conduzione del sacrificio, una sorta di maestro di cerimonia, il quale coordina le figure presenti alla cerimonia, dal Śamitar, il vero e proprio uccisore della vittima fino addirittura al Neşţār, colui che conduce sulla scena dell’olocausto la moglie di colui che offre il sacrificio, ad ulteriore dimostrazione che i Veda nulla lasciano al caso. Vi è quindi un apposito sacerdote che ha il compito di accompagnare e perfettamente posizionare la moglie dell’offerente; la complessità dei riti e dei funzionari attendenti si moltiplicherà con l’avvento dei Brāhmana fino a collassare sotto il peso di una casta sacerdotale talmente abnorme e assetata di potere da minacciare concretamente l’autorità politica e la sopravvivenza delle caste inferiori. Anche in questo caso sono andati perduti i testi originari di cui se ne contavano quindici diverse edizioni. Quella ritenuta la più completa e vicina all’iniziale rivelazione è la Vājasaneyisamhitā, ascritta al Rishis Yājñavalkya Vājasaneya il quale l’ha ricevuta per Śruti direttamente dal Sole. Anch’essa suddivisa in diverse sezioni accuratamente organizzate, diciassette nella versione Kāņva, la più antica e attinente al Ŗgveda di cui si trovano spesso citazioni e quattordici in quella Mādhyanadina. L’importanza di quest’ultima risiede in sei strofe contenute nel quattordicesimo libro denominate Īśa, ritenute il punto di partenza per le speculazioni teologiche che portano all’Hinduismo. Man mano si aggiungono a queste poche strofe ulteriori raccolte prima sempre più specifiche dell’atto del sacrificio e poi sempre più speculative e modificatrici dei Veda nelle modalità di fede che portano alla trasformazione della religione.

In appendice troviamo il Śatapathabrāhmaņa in cui è contenuto un considerevole elenco di dettagli mitici e simbolici dei Veda e alla cui conclusione vi è un importante Upanişad, la Bŗhadāraņyakpanişad, in cui l’autore, Yājñavalkya, appare come profondo conoscitore del sapere Brāhmanico e depositario di smisurata erudizione teologica, spirituale e metafisica affrontando e sconfiggendo autorevoli contendenti a colpi di enigmi, alla maniera dei filosofi greci. In un'altra Upanişad qualche sventurato redattore cerca di fisare il numero delle appendici in centootto ma con il tempo e con la sana abitudine Vedica queste divengono più di duecento, oltre a numerosi testi tecnici come il Śulvasūtra, sulla costruzione dell’area del sacrificio comprendente addirittura le regole geometriche da applicare per la corretta edificazione o il Pitŗmedha sulle offerte ai defunti. Tutti questi testi compongono lo Yajurveda cosiddetto bianco, in distinzione da quello denominato nero, il quale pur attenendosi ai Veda originari, dispone le speculazioni e gli approfondimenti non a seguire ma in corrispondenza del tema affrontato. Oltre a dare una maggiore predisposizione al mutamento in corso, molti dei Brāhmaņa e delle Upanişad assurgono al loro valore effettivo soltanto in età postvedica. La più importante è la Taittiŗīyasamhitā che appunto prepara al definitivo cambiamento e in cui ci sono già caratteri prettamente Hinduisti propedeutici a quello che diverrà il Vişņuismo. Veda, Brāhmaņa e Upanişad si susseguono e si intersecano senza soluzione di continuità, nella Śvetāśvataropanisad, citazioni dei Veda fondano la nuova teologia Hinduistica lanciando l’allarme dell’ormai incipiente arrivo dei Vedanta, la fine dei Veda. Notevoli le aggiunte, le appendici e i trattati che si compongono nello Yajurveda arrivando fino in piena età Hindu, di varie famiglie e di varie epoche, tra cui la Maitrāyaņīsamhitā attribuita al Rishis Manu, primordiale personaggio, protagonista del diluvio universale nella versione Vedica.

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Il terzo veda arcaico è il Sāmaveda destinato allo Udgātar, il sacerdote addetto alla cantillazione della parte centrale e più importante del rito, con la sola voce o accompagnandosi con uno strumento musicale simile al liuto, con l’ausilio delle sei note pure oltre a quella più alta su cui vivono gli déi. Anche in questo caso tutto e puntualmente descritto, dai toni ai movimenti cui l’officiante e gli accoliti devono scrupolosamente attenersi. Anche in questo caso si evocano numerose redazioni attestandone addirittura mille ma quelle sopravvissute sono solo tre, di cui due sufficientemente affini mentre la terza è piuttosto discorde. La samhitā si suddivide in due parti. La prima è la Pūrvārcika in cui sono raccolte le sole prime strofe degli inni, come per dare il “la” melodico alla cantillazione. Queste strofe sono considerate la matrice degli inni da recitare, denominate Yōni, la vulva, proprio per il loro carattere generativo. Suddiviso in quattro sezioni dedicate agli déi Agni, Indra e Soma e la quarta più esoterica da utilizzare fuori dall’abitato detta Āraņyaka, terreno incolto.

Aggiunte a queste sono la Grāmageyagāna, i canti dell’abitato e la Araņyageyagāna, i canti dei terreni selvaggi, in queste appendici le strofe sono edite per intero con particolare attenzione alle competenze e alle modalità di vocalizzazione, oltre all’evidenziazione delle sillabe sacre le quali daranno il via al sistema della preghiera meditativa attraverso il Mantra, lo strumento per pensare, ovvero alla recitazione ripetuta ed estenuante di una sola o di poche parole essenziali suddivisa in sei momenti. Ŗşi, la comunicazione del Mantra dal maestro al discepolo; il Raga il suono senza armonia; la Devata, la divinità destinataria del Mantra; il Bīja, il seme dell’autogenerazione del Mantra stesso; il Kilaka, la forza di volontà necessaria per l’incessante ripetizione; la Śakti, la consapevolezza, Madre Divina, l’energia della creazione che si manifesta con la recitazione. Il Mantra può essere definito personale, ovvero direttamente riferito ad una divinità, il più conosciuto e ascoltato anche nelle vie delle città occidentali è l’invocazione a Kŗşņa, “Hare Kŗşņa, Hare Kŗşņa, Kŗşņa Kŗşņa, Hare Hare, Hare Rāma, Hare Rāma, Rāma Rāma, Hare Hare”. Oppure può essere impersonale, evocativo dell’aspetto trascendentale della divinità vista come assoluto. Tutto è energia vibrante e con il passaggio dalle note più basse a quelle più alte il Mantra permette di percepirle in forma di emozioni o stati mentali che portano alla massima concentrazione fino al Nirvana, la sensazione del Paradiso. La più nota ma anche la più importante sillaba impersonale è Om che racchiude in sé stesso tutti i Veda.

La seconda parte è lo Uttarārcika, suddiviso in ventuno sezioni, raccoglie quattrocento inni di tre strofe da cantare secondo quanto indicato nella Pūrvārcika. Si aggiungono a questo delle appendici contenenti canti specifici per determinate funzioni in special modo in relazione al Soma come gli Ūhagāna, i canti della comprensione e gli Ūhyagāna, i canti di ciò che va compreso. Si aggiunge a volte una terza parte composta da dieci strofe chiamata Mahānāmnyārcika.

Come di consueto al testo principale si aggiungono nei secoli numerosi complementi. Il Tāņdyamahābrāhmaņa, specifico sul sacrificio del Soma, affronta, riflette e discerne sulle numerose varianti e modalità del rito. Un tema molto caro ai Veda, da richiedere addirittura tre successivi Brāhmaņa come ulteriore supplemento all’analisi del sacrificio del Soma, lo Şadvimśabrāhmaņa, lo Adbhutabrāhmaņa e il Chāndogybrāhmaņa, ognuno dei quali è a sua volta completato dalle relative Upanişad. Il Jaiminīyabrāhmaņa che affronta i Veda con piglio filosofico a rasentare i pensieri Platonici. Oltre a vari testi non rinvenuti nella loro integrità chiudono il Sāmaveda tredici Upanişad fra le quali il Sāmavidhāna sull’uso delle melodie, il Devatādhyāya che ne elenca le divinità destinatarie, il Vamśabrāhmaņa relativo alla genealogia dei Rishis divulgatori del Veda e delle famiglie che possono fregiarsi della discendenza.

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Redatta sulla stessa falsariga dei Veda, cioè di recitazione e cantillazione ma non ancora di speculazione, è la più tarda e pragmatica samhitā lo Atharvaveda. Una raccolta di strofe spesso metricamente asimmetriche; a volte in prosa anziché in poesia, alcune si rifanno direttamente al Ŗgveda altre lo intercalano con passi in prosa è suddivisa in venti libri ordinati secondo il numero delle strofe e aggiunti o integrati nel corso del tempo. La funzione di questo Veda è prettamente materiale, sono infatti contenute in esso delle vere e proprie formule destinate all’esecuzione di riti meno fastosi e privati volti all’ottenimento pratico di scopi prettamente mondani. Gli utilizzi sono di vario tipo da quello medico a quello amatorio, dalla ricerca dell’espiazione, all’inseguimento della ricchezza, esposte in forma di preghiera ma anche di benedizione e di maledizione, spesso di tipo apotropaico, ovvero atte ad allontanare gli influssi maligni. L’Ābhicārika, la formula magica, l’abracadabra delle nostre fiabe. Il contenuto dello Atharvaveda è altamente vario e indicativo delle reali necessità mondane degli Ariani o di quello in cui si stanno lentamente trasformando. Gli inni ascritti all’Atharvan divino, ovvero all’onnipotenza universale, compongono la parte più antica contenuta nei libri dal secondo al settimo, gli altri più tardi sono già di carattere riflessivo e speculativo pari ai Brāhmaņa e alle Upanişad dei Trayī Vidyā. Fra questi si evidenziano per la stretta praticità quelli dall’ottavo al dodicesimo in cui sono contenute tra l’altro una preghiera di protezione per la partoriente da tutta una serie di esseri notturni orribili e minacciosi, l’inno a Kāma l’Amore divino, quello alla vacca che la descrive in ogni sua parte anatomica e quello al soffio divino, l’inalazione della vita il Prāņa. Gli altri contengono inni dedicati alle varie divinità e nuovamente all’utilizzo nei riti ufficiali, tra cui nel ventesimo, l’inno tipicamente Ŗgvedico destinato al Brāhmano in cui si evidenzia il controllo che questi deve avere su ogni particolare momento della cerimonia assentendo con un sì per manifestare la sua approvazione, praticamente mormorando di continuo la sillaba che indica il suo assenso, Om. Seguono altre e numerose samhitā sempre più trascendenti dalle divinità per giungere alla ricerca dell’essenza umana nel divino e del divino nell’umano.

Un fiume di regole, norme, prescrizioni, attenzioni, precisazioni, riflessioni, ragionamenti, approfondimenti, rielaborazioni, speculazioni, variazioni esageratamente enorme, che in pratica non fa altro che riflettere il lungo cammino teologico ma anche umano di questa civiltà. Il cambiamento giunge lento ma inesorabile, senza bisogno di traumi, senza conquiste, senza invasori. Il subcontinente Indiano viene lasciato libero di maturare in autonomia evitando ulteriori influenze esterne, correggendo dove non più consono, ampliando, minuendo o mutando i poteri delle proprie divinità in virtù delle sole esigenze, necessità e crescite interiori prettamente umane. Delle antiche religioni è l’unica che ha avuto questa possibilità. Chiusa nel suo bozzolo, senza fretta e senza interferenze, ha continuato per centinaia e centinaia di anni la sua trasformazione prima di farne uscire fuori decine di quelle che oggi ci appaiono come farfalle ma che sono in realtà nuovi bozzoli di quella o quelle che saranno religioni domani.

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Il Ŗgveda risulta essere il solo modo di entrare in contatto con il reale mondo umano dell’epoca Veda, pur con le dovute cautele dettate dalle incerte datazioni delle varie redazioni e edizioni delle samhitā e la visione alquanto romanzata e perfezionista dei Libri Sacri. Ne emerge comunque una società di agiati proprietari terrieri occupati in continue feste o cerimonie, bendisposti verso il consumo di svariate e prelibate bevande e propense al consumo comune della carne. Distaccati dalla vita delle città, viste come luogo di sozzura, perdizione e falsità, il regno dell’Ánŗta, abitate perlopiù dagli indigeni considerati addirittura non umani, ovvero Ámānuşa, non discendenti di Manu e malvisti perché non dediti al sacrificio. Questo disprezzo epidermico verso le popolazioni autoctone produrrà il precoce accomodamento della divisione sociale in classi, relegando gli originari abitanti dell’India nella più infima, disprezzabile e intoccabile delle categorie assicurandosi in tal modo l’impossibilità per questa di pervenire a posizioni a riguardo, almeno per i quattromila anni successivi. Ben sistemati in villaggi campestri, gli Ariani portano avanti il loro mondo di perfezione e di purezza attenendosi scrupolosamente ai dettami del Ŗgveda, la meticolosità dei riti e delle cerimonie si riflette ossessivamente e ossessionatamente anche nella vita quotidiana. L’abitazione è costruita secondo specifici dettami e reca al suo centro una colonna rappresentativa dell’Axis Mundi che collega direttamente la casa e i suoi dimoranti con le divinità, con l’essenza, con il -ŗta. Tutto è –ŗta, tutto lo deve essere, tutto va considerato tale affinché l’ordine universale possa rimanere nel suo equilibrio. Tutto è puro e in tal modo deve essere mantenuto; familiari, animali, vegetali, vesti, arredi e suppellettili; impuro è tutto ciò che è Ánŗta o che porta ad esso o che è sconosciuto come il mondo esterno al villaggio, l’Áraņya, l’alieno, lo spazio sconosciuto abitato da entità mostruose e maligne, da demonietti dispettosi, da figure abnormi desiderose solo di violentare, invasare e attirare donne e uomini nello Ánŗta. Ma lo Ánŗta è sempre in agguato pronto a portare alla perdizione l’umanità in ogni momento, tutto quello che è impuro, sozzura, deve essere tenuto a distanza e quando ciò diviene impossibile il Ŗgveda corre in aiuto con i più disparati riti di purificazione e riconciliazione con Ātman-Brahman. Tutto ciò che fuoriesce dal corpo, umano o animale è impuro, ma guarda caso non l’urina della vacca che mescolata con altri ingredienti viene utilizzata per pulire, tantomeno i suoi escrementi visto che sono il miglior combustibile a portata di mano. Sudore, sperma e mestruazioni sono invece il peggio con cui si possa entrare a contatto e da cui purificarsi; la nascita poi è quasi evento nefasto che contamina l’intera famiglia. Questo mi riconduce al catarismo del 1200, probabile emanazione di chissà quale ramo Ŗgvedico sia caparbiamente arrivato fino in Europa, i cui Perfecti conducevano una pia vita di astinenza, pur contraendo Sacro matrimonio, evitando in tal modo di condannare qualsiasi anima vagante alla rinascita. L’impurità della nascita, celata dietro a liquidi e solidi fuoriusciti dalla vagina, deriva dalla certezza che la nascita sia la palese manifestazione del fallimento di una qualche vita precedente risultata incapace di cedere allo Ánŗta. La mancanza di perfezione che condanna a una nuova vita da trascorrere alla ricerca della stessa perfezione. Per ottenerla ogni azione deve essere attentamente considerata e riparata, anche se questa fa parte del quotidiano, addirittura del proprio mestiere. Macellai, calzolai, spazzini, chi ha rapporti con loro, chi li tocca, anche inavvedutamente; per ognuno di loro specifici riti via via più complicati ne permettono la purificazione. Ancor più complicati divengono i riti per coloro che invece intenzionalmente si allontanano dal -ŗta trasgredendo alle normali regole di condotta incappando negli Úpara, gli errori di disattenzione come una semplice flatulenza e ancor maggiori per chi incede nei Pātaka, le cadute, che portano allo Énas, la sventura o lo Āgas, il miasma; veri e propri peccati che prevedono l’intervento diretto di Varuņa in punizioni che portano alla degenerazione della vita, soprattutto per chi cede alla menzogna, materializzazione dello Ánŗta. Ma non finisce qui, perché la punizione è in agguato non solo per i peccati commessi, ma anche per quelli di cui non si abbia conoscenza o addirittura commessi a nostra insaputa da altri componenti del nucleo familiare. La continua preghiera diviene quindi l’unico sicuro metodo per l’ottenimento ripetuto della purificazione, il perdono, attraverso il quale ci si riavvicina al Brahman, l’entità universale fonte dell’esistenza. Colpisce in questo senso la preghiera contenuta in un inno del Ŗgveda dedicato ad un certo Vasişţha colpito da sventura. “M’interrogo su quell’enas, oh Varuņa, ansioso di discernere. Che Āgas vi è stato, oh Varuņa, tanto grave, che tu voglia uccidere il lodatore, l’amico? Dai drugdha paterni libera noi, da quelli che noi abbiamo compiuto mediante i corpi. Oh Re, come ladro di bestiame slegato libera, come un vitello dal cappio, Vasişţha! Non stessa iniziativa, oh Varuņa, l’obnubilamento, l’idromele, il furore, i dadi, la disattenzione. Viene il maggiore nell’ Úpara del minore! Neppure il sonno vale a tener lungi lo Ánŗta! Quale servo a un ricco, possa servire io al dio adirato senz’Āgas!”. La sventura occorsa ha origini ignote e per questo motivo Vasişţha cerca nella sua preghiera di comprendere tutto e tutti, dalle disattenzioni alle colpe dei familiari, fino alla caducità della vita e le mille opportunità di peccato che quotidianamente ci circondano. Chiede perdono e promette fedeltà, una semplice antica preghiera che ancora oggi, con parole diverse e verso un Dio denominato differentemente, continua a essere mormorata.

        INDRA

La complicatezza delle cerimonie, la facilità del peccato e la necessità di ottemperare con correttezza ai riti di purificazione, oltre alla ricerca di un concreta purezza interiore portano all’affermazione della casta dei Brāhmani, rappresentanti della prima funzione e insieme al re principali attori nelle cerimonie e nei riti sacrificali, la cui norma di vita è volta al raggiungimento della perfezione e il cui compito è insito nel proprio appellativo, Bráhman, l’accrescitore, colui che materialmente evoca la divinità e ne accresce la potenza, una figura temibile per il suo potere esoterico e mirabile per la sua completa vicinanza al –ŗta, rafforza l’ordine cosmico, libera dai mali e rende immortali, nel senso di immortalità dello spirito, non del corpo. L’archetipo del Guru che secoli dopo sarà il puro, volto al Nirvāna grazie alla sua inattività, l’unico modo per avere la certezza di non compiere alcun tipo di peccato, non fare niente.

La seconda funzione è rappresentata dalle famiglie dei nobili guerrieri, gli Kşatríya, fra le cui file viene acclamato il re, il Rájan. I bellicosi Arii sono temuti dentro e fuori dai confini e i componenti dell’esercito si guadagnano l’apellativo di Vŗka, laceratori di lupi. Addestrati ad ogni tipo di combattimento, votati alla morte per raggiungere il loro personale paradiso e non essere costretti ad una nuova rinascita, specialisti del tiro con l’arco dai carri, vengono scelti fra i giovani altolocati i Márya. Questa definizione di uomo, inteso come essere mortale, proviene dalle viscere degli albori Indoeuropei e viene trasmessa già con le prime migrazioni per arrivare addirittura fino a Roma dove darà origine ad un nome proprio Marius ovvero l’odierno Mario. Trasponendo il nome al femminile non posso fare a meno di costatare che il nome Maria, quello della Madonna Madre di Gesù, altro non sia che l’appellativo donna, inteso come essere umano femminile. Ne consegue che Gesù è figlio di una Donna, non specificamente di quella donna ma di una Donna, anzi La Donna, qualunque potesse essere il suo nome, è frutto del seno dell’essere che più di ogni altro, per la sua particolare caratteristica di procreare e di amare incondizionatamente, è legato a doppio nodo con l’essenza pura di Dio, l’Amore. Gesù diviene quindi figlio della Donna capace di sostenere il contatto e il confronto con il Puro Amore, colei che scelta fra tutte le altre, è stata capace di pronunciare quel sì che ha cambiato il mondo, meritandosi assolutamente di essere conosciuta con quello che poteva anche essere realmente il suo nome ma che ancor di più la distingueva, La Donna, Maria, Miriam.

Ma i guerrieri Ariani sono di tutt’altra sostanza e indole, bruciano il loro archi in roghi evocativi, gli Āngirasá, invocando l’aiuto di Agni e Indra che per mezzo di terribili creature ai loro comandi distrugga i nemici o che infligga loro ansie, paure o addirittura mali fisici fino alla diarrea per disperderli o annientarne l’energia. Il Rájan è uno di loro e attesta con il suo potere la supremazia della forza su quella della spiritualità divenendo pari ai Brāhmani, anzi il Brāhmano per eccellenza. Data l’estrema importanza e autorità, la sua investitura è celebrata con riti sacrificali lungo il corso di un intero anno coinvolgendo ogni tipo di animale sacrificabile, di bevanda e di preghiera fino allo Abhişecanīya, l’aspersione di diciassette diversi liquidi, fra i quali acque di fiumi diversi con il potere di farlo diventare una manifestazione del dio Varuņa in terra e detentore della sovranità suprema. Incrociando arco e frecce volti nelle quattro direzioni dello spazio impersona e si trasforma nell’Axis Mundi, il collegamento unico fra l’umanità e la divinità. Con il tempo il potere degli Kşatríya li porta, per la loro appartenenza a famiglie discendenti dai Rishis a contendersi il potere religioso con gli stessi Brāhmani contribuendo in parte alla rovinosa caduta di quest’ultimi.

Il Ŗgveda, un fiume di regole, norme, prescrizioni, attenzioni, precisazioni, riflessioni, ragionamenti, approfondimenti, rielaborazioni, speculazioni, variazioni esageratamente enorme, che inevitabilmente porta al periodo definito Vedanta, ovvero la fine dei Veda, un lasso di tempo relativamente lungo in cui l’una religione piano piano si trasforma nell’altra e non solo. Negli anni che precedono il 600 a.c. il dominio Ariano in India è ormai pressoché stabile e consolidato come lo sono le strutture e le infrastutture politiche, militari e religiose. Addirittura, quelle religiose si sono talmente espanse in ogni direzione e comunque arricchite di tutte le normative tipiche dei Veda che l’influenza sulla società è praticamente totale. L’antica suddivisione dell’uomo primordiale ha instillato nella civiltà neoindiana la convinzione che questa sia una volontà divina da rispettare come tutte le altre normative Vediche, la società si struttura quindi gerarchicamente in classi in base allo smembramento del Puruşa; i Brāhmani, gli Kşatríya, i Vaiśya; il Sacro, il Militare e l’economico e gli intoccabili, i Śūdra. Con il consolidarsi della convinzione della trasmigrazione dell’anima, le prime tre classi assumono l’appellativo di nati due volte, mentre i Śūdra ancor più vengono relegati nell’infimo della classificazione sociale lasciando loro come unica e sola speranza la morte, dopo aver condotto una irreprensibile vita secondo i canoni Vedici, quale veicolo per una possibile rinascita in una classe superiore. Questo rende chiara l’idea di quanto la supremazia delle prime tre classi fosse fortemente consolidata e fa loro quanto ormai la casta dei Brāhmani fosse indispensabile per la quotidianità dei riti ma soprattutto per la loro sempre maggior complessità e con l’espandersi delle ideologie Vediche la sempre minor certezza per il fedele di aver correttamente eseguito il proprio ufficio umano nell’Equilibrio Universale. Arriva un momento, in ogni fatto umano, in cui tirando troppo la corda questa non può far altro che spezzarsi, ancor più non poteva che accadere in un ambito in cui nel corso del tempo questa è stata lentamente ma inesorabilmente sfilacciata per intrecciare tante nuove cordicelle. Il potere dei Brāhmani arriva ad assumere un rilievo talmente assoluto che nessun’altra casta è più disposta ad accettare, non lo sono gli Kşatríya che da sempre rivaleggiano con i sacerdoti appropriandosi più volte nei secoli la facoltà di attribuirsi la paternità di inni e di samhitā oltre il diritto alla stesura di Brāhmaņa e Upanişad. Non lo sono i Vaiśya costretti a combattere quotidianamente fra le norme dei Veda e le opportunità del viscido mondo del commercio; non lo sono certamente i Śūdra vittime della loro intoccabilità. Non lo sono neppure i Veda che nei secoli hanno dato possibilità e opportunità di analizzare e modificare, svalutare o rivalutare, depauperare o arricchire il contenuto stesso dei Libri Sacri. Le Upanişad assurgono al grado di rivelazione, assumendo quindi natalità divina e non più umana e le ideologie che scaturiscono da queste divengono sempre più diramazioni dei Veda fino a evolvere in vere e proprie religioni. Nessuno difende l’indifendibile strapotere dei Brāhmani né a livello sociale né a livello teologico e come nel più classico stile Veda tutto cambia rimanendo immutato, non si rinnega, non si ripudia ma sulla solida base dei Veda si costruisce, anzi si costruiscono nuove ideologie questa volta indipendenti tanto da divenire pure antagoniste.

Sia Mahāvīra viene riconosciuto come il ventiquattresimo pioniere della vera fede nell’era del declino cosmico, il momento storico riconosciuto in quel momento nella ormai accettata ciclicità che silenziosamente si è insinuata nei Veda e che con la sua ruota manifesta l’infinito ripetersi degli eventi cosmici. Conduce la sua vita alla ricerca della salvezza che trova fuori dalle rivelazioni, intrinsecata nelle azioni o meglio nelle non azioni. Di puro stile dualista, sempre in bilico nella religione originaria, afferma che l’anima umana è prigioniera della materia e della materialità e per raggiungere l’immortalità, cioè la definitiva non esistenza in materia, ha bisogno di riconquistare la propria purezza primordiale; solo la fine all’accumularsi delle azioni e delle loro conseguenze può portare alla liberazione. Trascende dal concetto di creazione e pur non negando la possibilità di esistenza di qualsivoglia divinità, assume un atteggiamento definibile come ateo basato sul comportamento umano non corroborabile da alcun intervento di qualsivoglia provvidenza. L’uomo è solo e da solo ce la deve fare, compiendo unicamente quelle azioni che non comportino conseguenze, prima fra tutte il rispetto della vita, la non violenza, Ahimsā, che porta i suoi seguaci al completo vegetarianesimo e all’abolizione di ogni tipo di sacrificio, anche perché non c’è più un dio a cui offrire. Sia Mahāvīra diviene all’età di quarantadue anni, Kevalin, anima perfetta, da cui attingeranno i Perfecti Catari, e Jiņa, conquistatore, predica per i trent’anni successivi fino alla morte nel 527 a.c. lasciando ai suoi fedeli l’eredità di condurre nel mondo il pensiero del Jiņa, il Jainismo, l’arte della conquista, la conquista della liberazione eterna dalla miseria della vita mondana.

Siddhārta Gautama insegue un diverso Paradiso per l’anima, quello di giungere alla sua liberazione universale tramite la liberazione del motivo per cui le azioni umane vengono compiute, annullando di fatto contemporaneamente ogni possibile conseguenza. La sua è la ricerca dell’estinzione, il Nirvāņa, e dell’estinzione di una particolare componente umana, il desiderio. È il desiderio con le azioni che vengono compiute per esaudirlo e le conseguenze derivanti che tengono l’anima prigioniera del corpo in un inesauribile ciclo di rinascite che può essere arrestato soltanto estinguendo il desiderio, non desiderare porta a non dover agire e quindi non subire alcuna conseguenza capace di arrestare l’ascesa nelle caste fino alla definitiva venuta in Paradiso. Conquista l’appellativo di ultimo Buddha dell’era corrente e il suo concetto di ordine cosmico, il Dharma, viene parificato al Bráhman Vedico. Sulla più pia falsariga Vedica si attesta addirittura il concetto di insegnamento adattato, ovvero la non unicità della linea teologica da tenere per raggiungere l’obiettivo prefisso in quanto nessun approccio religioso, proprio perché religioso riesce a cogliere la realtà. Agire senza l’influenza religiosa in senso stretto come devozione ad un dio ma come estremo atto di devozione a sé stesso e alla propria anima. Siddhārta Gautama muore nel 483 a.c. dopo aver deposto in terra un seme, il Buddhismo che germoglierà in migliaia di fiori diversi come è già avvenuto per la stessa pianta da cui è stato donato. Buddhismo, la piena conoscenza delle cose, la reale realtà, chi siamo, da dove veniamo e soprattutto dove stiamo andando, la risposta alle domande condensata nell’assoluta inesistenza e inconsistenza della domanda stessa.

Queste stravolgenti ideologie, il sempre maggior rilievo delle Upanişad, l’inesauribile voglia di cambiare dei Veda, mantiene fra i deposti Brāhmani l’aspirazione a una nuova crescita della propria fede che sorta quasi come religione misterica approda infine nella più attinente derivazione dai Veda, senza fondatori, senza date, senza pretesa ma con la consolidata capacità Vedica vede la luce l’ultima, ma che nessuno osi dire definitiva, trasformazione in una sua ulteriore manifestazione che solo milleduecento anni dopo scoprirà, per mano dell’Islam di avere un nome e un’appartenenza etnica ben precisa, Induismo, la religione degli Hindu e solo loro, chi non ha le loro radici, il loro colore, i loro avi non potrà mai essere Hindu nonostante quanto e come possa concretamente professarne la fede, perché essere Induista non significa attenersi ad una religione ma essere in un contesto generale di civiltà.

Ecco perché gli studiosi dibattono e annaspano sull’etichetta di religione, per tutti i comportamenti umani delle genti d’oriente, ecco perché io le chiamo tutte religioni in quanto anche quelle occidentali altro non sono che comportamenti umani. Comportamenti volti, nelle maniere più disparate, ad accettare e superare questa incognita universale che più genericamente chiamiamo vita.

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La religione dei Veda si afferma inizialmente come una fede politeista che nel corso dei tempi, grazie all’immenso lavoro di autocritica e analisi evolve verso un’incognita indefinita sorta dai dubbi che gli stessi Veda contengono e presentano ai fedeli. Gli déi, pur minuziosamente descritti mantengono un alone di indefinibilità che porta a confonderli gli uni con gli altri, le parentele si sommano e altrove divergono, gli attributi e l’area di competenza si confondono e favoriscono la facile identificazione degli uni negli altri fino ad immedesimarli tutti con il sole che già ha propri déi impersonati che si sovrappongono gli uni sugli altri ancorché in maniera non completa. Gli déi vengono presentati come esistenti ma poi solo se evocati dall’energia della fede dei Brāhmani, confondibili ma inamovibili, essenti ma assenti. D'altronde le variabili del Ŗgveda contrappongono diversi déi principali solo in virtù di quelli preferiti dalla famiglia discendente dal Rishis redattore originario manifestando una concorrenza più campanilistica che teologica e i vari tentativi di riorganizzazione del pantheon lasciano comunque la sua struttura abbastanza fluida e interpretabile. Nello stesso Ŗgveda si arriva ad affermare “Indra, Mitra, Varuņa, Agni l’hanno chiamato; e altresì il divino Garúmat dalle belle ali, un'unica realtà i vati molteplicemente enunciano, Agni, Yama, Mātaríşvan l’hanno chiamato” a manifestare già nei Libri Sacri i dubbi sulla pluralità divina. Ancora nella Bŗhadāraņyakpanişad si afferma che i tre e trecento, tre e tremila altro non sono che la manifestazione dei trentatré, espressione del gruppo di undici déi appartenenti alle tre legioni che si rifanno al cielo, alla terra e allo spazio intermedio, fino ad affermare che divinità sono solo i tre mondi in cui è diviso l’universo, poi solo cibo e Prāņá e in ultimo ravvisare il fondamento di tutti gli esseri nel solo Bráhman. Un percorso diverso da quello del gemello Mazdeismo che volge però verso lo stesso risultato pur se discorde. Nei Veda le divinità, i Deva, sono le forze buone che poi in ultimo confluiscono nell’unicità totale del Bráhman, nel Mazdeismo i Deva sono spodestati della loro benevolenza e trattati alla stregua di demoni, non perché malefici ma per la loro facoltà di distogliere dall’unicità di Dio, Bráhman o Ahura Mazdā un unico Dio che racchiude tutte le potenzialità divine senza bisogno di spartirle con effimere manifestazioni.

La stessa cosmogonia viene definita misteriosa e nemmeno mai realmente approfondita mentre invece per me manifesta appieno l’essenza che secoli di speculazioni sono poi riusciti ad estrapolare per condurre ad un’unicità divina. Nel Ŗgveda si trovano due passi inerenti alla creazione del mondo che palesano chiaramente la nascita dell’Amore dall’Amore stesso. Il terzo inno del decimo libro del Ŗgveda descrive magnificamente l’attimo prima del Big Bang, “Né Non Ente era né Ente era allora, non era lo Spazio né il Cielo ch’è al di là. Che fremeva? Dove? Sotto la protezione di chi? L’acqua forse che era, abisso profondo? Né Morte era, Non Morte neppure allora, né di Notte e Giorno era segnacolo; soffiava senza vento, per autoestrinsecazione, Quell’Uno oltre di Quello invero null’altro affatto era. Tenebra, da Tenebra nascosta in principio, illimitata Acqua tutto questo!” e poi... un’esplosione di Amore. E come? “Quello ricoperto di vuoto, genera l’Uno e il Kāma diviene brama di essere molti mutandosi in primo sperma della mente, feconda l’autoestrinsecazione generando il tutto. Chi dunque sa? Chi mai potrebbe proclamare l’accadimento donde queste emanazioni in tutte le direzioni del cosmo ha avuto luogo? Gli stessi déi sono posteriori ad essa. Se egli l’ha disposta o no, lo sa Colui che nel sommo Cielo è il sorvegliante di questo mondo; o forse non lo sa?” L’incognita celata in queste affermazioni è la dimostrazione della inconcepibilità umana di quanto possa essere accaduto perché non dimostrabile empiricamente in alcun modo, come l’Amore possa generare Amore e contestualmente definire il male, perché quello che è tangibile lo sia e come. Non è capacità umana e non lo può essere perché solo quando non saremo più allora saremo e infine sapremo senza più nemmeno chiedercelo, dimenticando addirittura che fosse domanda. “Quello ricoperto di vuoto, genera l’Uno “, il tutto e il nulla che si ripete all’infinito nelle ricerche filosofiche umane. Il vuoto, il nulla, per la sua non essenza materializza inevitabilmente l’Uno che è, per ovvia antinomia. Non può essere nulla se non c’è Uno. Il nulla, l’assenza, materializza conseguentemente il tutto, l’essenza e il tutto onnicomprensivo è Amore generativo che per sua stessa conseguenza non può far altro che generare il male fino a reinglobarlo in sé annullandolo e dunque annullandosi e per diretta conseguenza divenire nulla che dà vita all’Uno, in un inesauribile rincorrersi di ciclicità senza inizio senza fine, come la ruota che accompagna l’infinità ciclicità scaturita dai Veda e fatta propria dalle sue infinite emanazioni. 

KAMA

ADITI: signora dell’ordine divino, madre degli Ādityas. Diviene una forma della grande dea madre e il suo ventre l’ombelico del mondo. Chi si affida a lei ottiene la liberazione della malattia, dall’angoscia e dal peccato. Devakī, la madre di Krishna è considerata una sua incarnazione.

ĀDITYAS: gruppo dei sette déi principali tra i quali Varuņa, Mitra e Aryaman. L’ottavo dio Martanda è l’antenato divino dell’umanità. Ci si rivolge a loro per la liberazione da tutti i mali. Successivamente diverranno i dodici déi del sole legati ai dodici mesi dell’anno.

AGNI: dio del fuoco, la sua azione funge da unione fra gli uomini e gli déi. È lui che porta agli déi le offerte dell’olocausto. Rosso e avvolto dalle fiamme, sette lingue con cui lecca il burro sacrificale. La mitologia lo vede nascere dal sole, dal cielo, dal fulmine, dalla terra ma anche dall’acqua, dove si ritiene che riposi il fuoco spento ma anche atto sessuale in cui il fuoco simbolo maschile si spenge nel simbolo femminile dell’acqua. Il suo vāhana è un ariete o un caprone. Il mondo occidentale ne mantiene le caratteristiche nel termine romano Ignis, fuoco.

AIRĀVATA: sorto dal mare, elefante divino, vāhana di Indra. Nasce dalla frullatura dell’oceano di latte.

AKSHAMĀLĀ: rosario simbolo dell’eterno ciclo del tempo.

ANDHAKA: demone mitologico con mille braccia e mille teste. Tenta di rapire la moglie di Shiva che lo ferisce con una freccia ma dal suo sangue sorgono gli Asuras nella loro manifestazione demoniaca. Solo quando è minacciato dalla lancia di Shiva, Andhaka si arrende divenendo il condottiero dei Ganas al servizio dello stesso Shiva.

ANGIRAS: figli del cielo, annunciatori e veggenti, attengono l’immortalità dal dio Indra. In greco diventano Angelos, Angeli.

APAM NAPAT: divinità acquea con funzioni belliche, dona l’acqua ma sottomette le regioni ribelli. Condivisa nelle sue caratteristiche originali con il Mazdeismo.

APASMĀRA PURUSHA: demone nano della disattenzione e della smemoratezza che rendono cieca la spiritualità umana. Shiva gli spezza la spina dorsale.

APSARAS: spiriti dell’acqua nati dalla frullatura dell’oceano di latte. Donano fortuna nel gioco ma nell’Atharvaveda si mette in evidenza la loro potenzialità di condurre alla pazzia.

ASHVINS: coppia di déi gemelli, caratteristici della terza funzione l’Economico. Cocchieri dell’aurora, medici divini, curano le malattie e ringiovaniscono i vecchi, mantengono le loro peculiarità di donare le possibilità di godersi la vita. Figli di Dyaus, forse per questo in Grecia divengono i Dioscuri Castore e Polluce.

ASURA: gruppo di déi primordiali a cui inizialmente appartengono anche Varuņa e Mitra. Con l’evolversi teologico questi vengono a indicare solamente i demoni. Nel buddhismo divengono un gruppo di demoni celesti gettati nell’oceano dagli déi, la stessa fine di Lucifero.

ATHARVAVEDA: libro delle formule magiche.

ATRI: uno dei Rishis, i cantori primordiali degli Inni Sacri poi santificati. Scopre il sole ingoiato da un demone e lo pone nel cielo.

AVĀTARA: incarnazione, manifestazione corporea di un dio.

BALI: demone che regna sui tre mondi nella seconda era dell’universo. Vishnu lo costringe a cedergli cielo e terra rimanendo così solo re del mondo sotterraneo. Nemico degli déi abita sotto forma di asino in una capanna diroccata.  

BRAHMĀ: personificazione del Brahman, in origine il capo della Trimurti in quanto creatore e dio supremo degli déi. Con quattro volti e quattro braccia con cui tiene i quattro Veda. Tiene un recipiente con l’acqua del sacro fiume Gange e un Akshamālā, sua vāhana è un’oca. La sua sposa è Sarasvatī. Con il tempo perde d’importanza divenendo dio della saggezza e precursore dei Brāhmani.

BRAHMAN: il verbo, la parola magica, la formula sacra da recitare, il veicolo attraverso il quale i Brāhmani compiono i loro riti e gli déi recepiscono le preghiere. La forza della parola. Con le Upanişad diviene il principio reggente anzi lo stesso creatore, l’essenza dell’universo, la causalità dell’esistenza. “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.” Giovanni (1, 1-3).

BRAHMANI: sacerdoti, appartenenti alla più alta delle classi.

BUDDHA: Avātara di Vishnu. I Buddha sono otto: Vipashyin, Shikhin, Vishvabhu, Kracuc-chanda, Kanaka-muni, Kāshyapa, Gautama Buddha, fondatore del Buddhismo, Maitreya che ancora deve manifestarsi in quanto Buddha della fine dei tempi.

CĀMUNDĀ: manifestazione demoniaca della grande madre, prende il suo nome dai due demoni che ha annientato Canda e Munda. Suo vāhana e un gufo.

CANDRA: dio della luna, bianco di carnagione, bianche le sue vesti, il carro che guida e i cavalli che lo trainano. Diverrà la personificazione del Soma.

CHĀYĀ: incarnazione del tramonto, madre del pianeta Saturno.

DAITYAS: demoni figli degli déi e della dea Diti, contrari ai sacrifici e per questo gettati nel fondo dell’oceano da Indra. Prahlada viene elevato da Vishnu a loro re e più tardi presenta caratteristiche ascetiche, suo nipote è Bali eterno rivale della Trimurti nel tentativo di dominare l’universo.

DAKSHA: personificazione della forza creatrice. Nasce dal pollice di Prajāpati, è considerato il progenitore dell’umanità. Viene decapitato da Vishnu durante una lite, riportato successivamente in vita gli viene data una testa di capra essendo la sua ormai perduta.

DEVA: denominazione degli déi, diviene l’appellativo degli déi minori oscurati dalla Trimurti. Vi appartengono gli insiemi dei celesti Ādityas, dei terreni Rudras e degli aerei Vasus oltre a molti altri per un totale di 3.333, ridotto successivamente a 33. Nascono immortali ma poi successivamente perduta la loro importanza teologica divengono creature mortali. Il disprezzo per queste divinità porta il Mazdeismo a trasformare il loro appellativo da déi, Deva in demoni.

DHARMA: personificazione della legge interiore che determina le azioni e termine con cui viene indicata.

DHRUVA: la stella polare divinizzata, appartiene ai Vasus. Invocata nei riti nuziali a simbolo di costanza.

DITI: divinità che concede i doni desiderati. Madre dei Daityas tenta di vendicarne l’espulsione partorendo un figlio capace di uccidere Indra ma questi ne divide l’embrione in sette parti da cui nascono i Maruts che diverranno invece i suoi perenni accompagnatori.

DURGĀ: grande madre, causa prima femminile dell’essere che rende Shiva capace di agire nel mondo. La sua emanazione Gauri è benevola e reca il riso, quella temibile è il demone Canda oltre ad altre denominazioni sorte dalla fusione della divinità con le varie dee locali.

DYAUS: dio del cielo, padre degli déi. Si accompagna alla dea della terra Prithivī, i due sono immaginati come un toro e una vacca, la fertilità del mondo. Suo figlio è Sūrya il dio del sole, padre del cielo, Dyaus pitar diviene a Roma Jupiter, Giove.

GANA: nani demoniaci al servizio di Rudra e di Shiva, al loro comando ci sono Ganesha e Andhaka.

GANDHARVAS: spiriti semidivini che condividono il cielo di Indra con le Apsaras, musicanti e cantori. Nell’antichità Gandharva e Apsara erano singoli déi dalla cui unione nasce la prima coppia umana Yama e Yami.

GRAMADEVATĀ: nume tutelare protegge dalle malattie e veglia sui campi e alle frontiere dell’abitato. Una pietra grezza verniciata di rosso è la sua dimora.

HIRANYAKASHIPU: demone Daityas nemico di Vishnu e da lui sconfitto incarnandosi nel suo Avatāra Narasimha, uomo leone. Simbolo della sregolatezza e dell’egoismo, seguace di Shiva, il figlio Prahlada invece diviene un fedele di Vishnu.

INDRA: dio della pioggia e della fertilità. Temuto giacché signore del maltempo. Rappresentante dei guerrieri è munito di una clava con cento facce. Nell’antichità era un demone portatore di discordia. Principale dio Vedico. Suo vāhana è l’elefante Airāvata.

KA: chi? Dio primigenio e sconosciuto del Rgveda, successivamente diventa un appellativo di Prajāpati. L’essenza cosmica, l’equilibrio divino.

KĀLA: personificazione del tempo. Padre di sé stesso a indicare la ciclicità delle ere. Diviene divinità ctonia.

KĀMA: dio dell’amore, lo accompagna Rati, la voluttà. Giovane che non invecchia mai, suo vāhana un pappagallo, usa un arco le cui frecce hanno fiori al posto della punta.

KĀSHYAPA: la tartaruga, uno dei sacri cantori Rishi, potenza creatrice, padre degli Adityas e dei Daityas. Creatore di tutti gli esseri e successivamente identificato in Prajāpati.

KINNARA: spettri rappresentati da uccelli con testa umana o come centauri. I maschi recano una cetra alla cui musica danzano le femmine. Appartengono ai Gandharvas a seguito di Kubera e sono benevoli con gli uomini.

KUBERA: dio della ricchezza, al comando degli spiriti degli abissi Yakshas, solo dopo numerose mortificazioni ottiene l’immortalità. Nano, grasso e con tre gambe, risiede nell’Himalaya a guardia del settentrione.

KŪRMA: tartaruga, personificazione della forza cosmica in stretta relazione con Prajāpati ma identificato anche con Vishnu nel suo secondo Avatāra, scende sulla terra per servire da robusto appoggio per la frullatura dell’oceano di latte.

LAKSHMĪ: dea della felicità e della bellezza. Sposa prima di Varuņa, poi di Sūrya e infine di Vishnu. Ad ogni diversa incarnazione di Vishnu ne corrisponde una di Lakshmī. Per Krishna è la pastorella Rādhā prima e la consorte Rukmini poi. Il suo corpo è dorato e siede su un fiore di loto. Incarna dunque l’essenza femminile al fianco dell’uomo.

LOKAPĀLAS: i guardiani del mondo. Le Upanişad li determinano come gli dèi a guardia dei punti cardinali: Indra a est, Varuņa a ovest, Yama a sud, e Kubera a nord. Successivamente vengono aggiunti Soma a nord-est, Agni a sud-est, Sūrya a sud-ovest e Vayu a nord-ovest.

MAHAESHVARI: compagna di Shiva, ne eredita i simboli: il toro, la clessidra, il tridente e il serpente. Appartiene alle Mātrikās le grandi dee madri.

MANGALA: sovrano di Marte, dio astrale corrisponde a Skanda.

MANU: l’uomo primordiale, il progenitore dell’umanità. Figlio di Vivasvat, altre volte di Sūrya, durante il diluvio universale riesce a salvarsi grazie all’aiuto del pesce Matsya, per ringraziare gli déi offre in sacrificio latte e burro fuso, l’offerta si trasforma nella figlia Idā con la quale darà vita al genere umano. Si contano tredici Manus, uno per ogni preciso periodo di tempo, sempre con il compito di creatore e protettore degli uomini.

MARUTS: spiriti della tempesta figli di Rudra e della vacca Prishni. Accompagnano Indra. Vestiti di corazze dorate e armati di scudi frantumano le rocce delle nubi per creare la pioggia.

MITRA: dio dell’amicizia e dei contratti, in veste di intesa. Dio della prima funzione, il Sacro, che condivide con Varuņa. Fa parte degli Ādityas e successivamente diviene una semplice divinità benevola.

NĀGA: serpenti demoniaci, alcuni di loro divengono esseri immortali. I ceti popolari li adorano come portatori di fertilità. Corpo di uomo su fusto di rettile o serpenti con sette teste, sono presenti nella mitologia con svariate funzioni: Shesha regge la terra, Ananta rappresenta l’infinito

NĀRADA: ipostasi di Vishnu, messaggero degli déi. Appartiene ai Rishis, inventore del liuto e patrono della musica.

NIRRTA: dio che incarna la morte e la distruzione, la sua sposa è Nirrti, insieme sono i genitori di Baya, il terrore.

NIRRTI: dea della distruzione e della rovina per vivi e morti. Dea originaria da cui prende forma il maschile Nirrta.

PARJANYA: dio della pioggia, la terra è vista come sua sposa e insieme generano la vegetazione. Nel Rgveda appare come toro con chiare prerogative alla fertilità.

PĀRVATĪ: moglie di Shiva, figlia del re dei monti Himavat, madre del dio della guerra Skanda nella sua emanazione Kārttikeya. La sua figura viene sopraffatta dalla versione di Durgā. L’unione fra Pārvatī e Shiva rappresenta la personificazione dell’Assoluto comprendente i due aspetti della loro essenza.

PRAJĀPATI: creatore del mondo, del cielo e della terra emanazioni della sua inesauribile essenza. Patrono dell’organo sessuale, gravido di tutti gli esseri umani. A volte sostituisce Varuņa appropriandosi del simbolo creatore della tartaruga. Lo stesso altare sacrificale è costruito con la forma del suo corpo, chi opera offerte a quest’altare si identifica con Prajāpati nella speranza di guadagnare lo stato di non morte a chiusura del ciclo delle rinascite.

PRITHIVĪ: la madre terra, il suo simbolo è la vacca. Madre tra gli altri dell’aurora, Ushas e del fuoco, Agni.

PURĀNAS: sacri testi Vedici. Testi religiosi e storici oltre che genealogici attraverso la cosmogonia e la teogonia. Trattati religiosi relativi alle pratiche rituali, alle festività, agli insegnamenti spirituali delle singole divinità a ognuna delle quali è dedicato un capitolo del testo.

PURUSHA: il primo uomo, tre quarti di lui sono immortali e solo un quarto è terreno. Dalla terra forma la sua compagna Virāj che poi lo partorirà come essere universale dalla forma di un gigante cosmico. Viene sacrificato agli déi per smembramento, la testa diviene il cielo, il corpo l’atmosfera e i piedi la terra. Successivamente questa suddivisione si amplia a formare le quattro principali caste: la bocca per la classe sacerdotale, le braccia quella militare, le cosce la classe economica e poi la casta degli intoccabili i Śǔdra, rappresentata dai piedi.

PŪSHAN: divinità raggiante e priva di denti, compagno della fanciulla del sole attraverso la quale dona prosperità. Pastore, custodisce le strade e i viaggiatori, psicopompo, libera dalle catene del peccato.

RĀTRĪ: divinità benevola della notte stellata, protegge da briganti e fiere.

RIBHUS: triade di déi inferiori, Ribhu, Vāja e Vibhvan. Figli di Indra, di origine umana assurgono alla divinità in ricompensa della loro abilità di carpentieri costruendo tra gli altri i carri di Indra e degli Ashvins.

RISHIS: i veggenti. Cantori preistorici degli inni sacri, coloro che hanno tramandato i Veda nell’originaria forma orale, hanno per attributi un libro ad indicare la sapienza e un vaso colmo d’acqua a significare la fertilità, anche quella dovuta alla conoscenza.

RUDRA: dio della tempesta, nato dal solo seme del creatore universale. Arciere vendicatore colpisce con le sue frecce di malattia uomini e animali. La versione benevola, chiamata Shankara, diviene invece medico e signore delle bestie. Padre dei Maruts.

SARASVATĪ: dea fluviale, incarna la parola per divenire dea dell’eloquenza e del linguaggio.

ŚAKTI: energia creatrice femminile. Si unisce al principio creatore maschile incarnandosi in una dea, diviene in questo modo Durgā, Lakshmī, Pārvatī e così via. Il suo simbolo Tantrico e la Yoni, l’organo sessuale femminile, si unisce al Linga, l’organo maschile, di Shiva per manifestare che gli opposti divengono unità. L’energia primigenia femminile che con l’Assoluto trascendente di Shiva crea e distrugge ogni cosa.

SHESHA: serpente demoniaco, tiene la terra avvolta tra le sue spire per sostenerla. Re dei Nāgas, come Annata è simbolo dell’infinito.

SHĪTĀLĀ: dea del vaiolo. Durante la sua danza estatica getta perle che diffondono la malattia.

SKANDA: dio della guerra, figlio di Shiva, a volte, altre generato dal seme di Agni asperso nel fuoco sacrificale. Protettore di Marte, suo vāhana un pavone, a volte, altre un elefante. Le sue raffigurazioni hanno fino a dodici braccia e reca in mano uno scalpello, Thanka, come emblema del fulmine tipico del dio guerriero. Definito Kārttikeya, con sei teste e sei bocche per essere allattato dalle sue sei balie, le sei ninfe astrali della costellazione delle Pleiadi, Kirttikah.

SOMA: divinizzazione della bevanda sacra del Soma, componente principale del sacrificio Vedico. L’essenza vitale di ogni essere umano, la bevanda che gli déi sorbiscono direttamente nella coppa della luna la quale, assieme al suo dio Candra ne eredita l’appellativo.

SŪRYA: dio del sole figlio di Dyaus, per alcuni culti di Indra, per altri nasce da un occhio del gigante primordiale Purusha. Viaggia su un carro dorato trainato da sette cavalli a rimembrare i giorni della settimana. La figlia porta lo stesso nome.

TVASHTAR: il dio artigiano che ha dato ad ogni essere la propria forma ma anche la vita, oltre a formare cielo e terra. Realizza tra gli altri la coppa del Soma per gli déi e la pietra del fulmine di Indra. Nell’Induismo entra a far parte degli Ādityas.

UMĀ: personificazione della luce e della bellezza, compagna di Shiva diviene Durgā e anche Pārvatī. Nasce dall’Himalaya conseguendo il massimo livello dell’essere.

USANAS: re di Venere, reca in mano l’Akshamālā e un recipiente colmo d’acqua a ricordarne la fertilità. Quando è raffigurato come donna suo vāhana è il cammello.

USHAS: dea dell’aurora figlia di Dyaus, amata da Sūrya.

VĀC: la parola divinizzata, che acquista potere magico. Il principio universale, sorgente di tutte le azioni degli déi. Moglie di Prajāpati.

VĀHANA: veicolo, la cavalcatura degli déi. Ogni dio ne ha una propria con specifici significati.

VAIKUNTHANĀTHA: Vishnu in Paradiso, vaikuntha, con quattro volti a dare protezione ai punti cardinali.

VARUŅA: dio supremo del Vedismo, creatore dei tre mondi del cielo, della terra e dell’atmosfera. Tutore del –rta, l’ordine cosmico. L’attributo principale sono i lacci con cui lega i malfattori ma anche scioglie dai peccati. Insieme a Mitra compone il binomio della prima funzione, il Sacro. Suo vāhana è Makara, un mostro marino.

VĀRUNĪ: sposa di Varuņa, dea dell’ebbrezza. Come brocca d’acquavite è una delle quattordici leccornie nate dal frullamento dell’oceano di latte.

VASANTA: dio della primavera, la sua mansione è di accompagnare il dio dell’amore Kama.

VĀYU: dio del vento, nato dal respiro di Purusha. Suo vāhana è una veloce antilope, la quale a sua volta simboleggia il soffio vitale.

VIVASVAT: il sole sorgente, padre degli Ashvins, di Yama e di Manu. Reca il fuoco agli uomini.

VRITRA: domone che avvolge i mondi della terra e dell’acqua, nemico giurato degli déi e degli uomini. Indra lo uccide con la sua clava.

YAKSHAS: esseri semidivini, ctoni, formano il seguito di Kubera. Panciuti e con arti corti. Come ogni divinità Vedica e Induistica hanno un aspetto benevolo e uno malvagio. Variano quindi da numi tutelari a demoni a seconda del contesto.

YAMA: re mitico, il primo uomo a morire e andare nell’aldilà, dove da allora regna come sovrano. Giudice dei morti ne strappa l’anima con il suo attributo principale, il cappio. Suo vāhana è Kala, il tempo, un bufalo nero.

YAMUNĀ: dea fluviale, pesce o donna su di una tartaruga, reca un recipiente d’acqua simbolo di fertilità ma è la sposa del dio della morte Yama.

I TESTI VEDA