BAUDDHA - INDIA - SRI LANKA - INDOCINA
BAUDDHA - INDIA - SRI LANKA - INDOCINA

BAUDDHA

528 A.C. – …

INDIA

Prima della sua ultima reincarnazione, Siddhārta Gautama si affaccia dal cielo Tuşita ove risiedono gli déi contenti, osserva il mondo per scegliere il tempo e il luogo in cui nascere e i genitori che lo daranno alla luce. Il tempo è il 560 a.c., periodo in cui si può vivere fino a cento anni, considerati sufficienti per compiere l’ultimo viaggio che volge al Nirvāna; il luogo è l’India settentrionale, il centro del mondo; per genitori sceglie Suddhodana, Rajà di Kapilavastu e la moglie Māyā che ha fatto voto di castità e che ha già dato prova della propria purezza nelle sue precedenti esistenze durante centomila età del mondo. Una notte Māyā sogna un elefante bianco che entra nel suo grembo, dopo dieci mesi nel bosco di Lumbini, nel mese di maggio con la luna piena, mentre la terra si scuote ed esseri soprannaturali assistono, dà alla luce Siddhārta, Colui che ha Raggiunto il Suo Scopo; come è tradizione delle famiglie nobili, sarà lui stesso a darsi il secondo nome, Gautama, in onore di un avo Maestro Bauddha. Sette giorni dopo Māyā muore, la santità di chi ha partorito un Buddha libera dalla vita terrena. È la sorella di Māyā, Mahāprajāpatī ad accudire ed allevare il piccolo Siddhārta tra il lusso e le comodità della reggia. Qualche tempo prima a Suddhodana era stato profetizzato che il figlio sarebbe divenuto o un grande sovrano o un senzatetto, per evitare che la seconda possibilità potesse mai realizzarsi Siddhārta viene isolato, beneducato, istruito nelle arti, nelle scienze e nelle pratiche ginniche; ricordando poi questo periodo il Buddha affermerà di essere stato estremamente viziato, unto con olio di sandalo di Benares e vestito solo di pregiati tessuti, con una residenza per l’inverno e una per la stagione delle piogge e un parasole perennemente a proteggerlo, circondato da suonatrici e recluso tra tante lussuose comodità. Siddhārta vive la sua vita di agi, si sposa con una fanciulla di nome Gopā, o Yasodharā, e passa le giornate allietato dal suo Harem di danzatrici, la sua vita però non ha senso, quella dorata reclusione è per lui un peso, tanto che chiama il proprio figlio Rāhula, Catena. La sua necessità di sciogliere quelle che sente lo leghino, lo porta a uscire dal palazzo per tre volte per compiere dei brevi viaggi, durante i quali conosce la realtà mondana e viene a contatto con sofferenze mai viste prima, un vecchio cadente, un invalido dolorante e un corteo funebre, delle quali sbigottito chiede spiegazioni, ma l’unica risposta che può ricevere è che quella è la semplicità del destino comune di tutta l’umanità. È invece durante il quarto e ultimo viaggio che incontra un povero monaco mendicante, sereno e contento nella sua misera esistenza, questa visione è una folgorazione per Siddhārta, che comprende la vacuità dei piaceri della vita e quanto questi siano senza alcun valore, per questo, all’età di ventotto anni, non è più in grado di sopportare tale oppressione così nottetempo, mentre moglie e figlio dormono, abbandona la reggia e diviene un senzatetto, com’era stato profetizzato.

La poetica delle leggende, che numerose sono nate intorno alla figura del Buddha, è estremamente affascinante anche se a tratti cruda ed è per me difficile non ascoltare le assonanze con i Vangeli Cristiani. La nascita da una vergine casta e pura, l’ascesa di questa al cielo per l’amore dell’atto compiuto e, qui sta la crudezza, l’abbandono della famiglia; incomprensibile forse più nel passo “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna” (Mt 19,23-29) ma molto meno oscuro in una filosofia che indica una via personale e non comunitaria per la salvezza. Gli altri, vicini e amabili quanto possano essere, alla fine di fronte alla vera e pura salvezza sono solo e soltanto un ostacolo, benevolo e colmo d’amore sincero ma pur sempre ostacolo al compimento della via, in entrambi i casi questo precetto porterà alla castità degli adepti, per essere al completo servizio della volontà di Dio nel Cristianesimo, per essere arma dell’Armonia Universale, arrivando anche al rinnegamento di sé stessi, nel Bauddha.

La poetica delle leggende che numerose sono nate intorno alla figura del Buddha è estremamente affascinante anche se a tratti cruda ma è solo e soltanto poetica leggenda che addolcisce la verità della nascita del Bauddha, le sue difficoltà dopo la morte di Siddhārta Gautama, il declino della filosofia, la sua fine e la rinascita sotto forma di religione in oriente e da qualche tempo il suo ritorno come pratica filosofica in occidente.

La poetica delle leggende che numerose sono nate intorno alla figura del Buddha è estremamente affascinante anche se a tratti cruda ed è stata talmente diffusa da indurre a credere fermamente per molto tempo della non reale esistenza di Siddhārta Gautama ma gli approfonditi studi sui ricchi riferimenti storici e la non divinità del Buddha hanno portato ad asserire cha Siddhārta Gautama sia realmente esistito.

In realtà non sappiamo se Siddhārta Gautama sia realmente esistito, se la storia sia cucita sulle leggende e se i tempi e i luoghi siano stati accomodati per rendere il tutto più verosimile ma tante sono le circostanze che lo vedono protagonista, citato con stima o avversato. Fra il 491 a.c. e il 461 a.c. sul territorio di Magadha regna per la dinastia Shishunaga, Ajātashatru. Il sovrano appoggia però un rivale di Siddhārta, il cugino Devadatta Gauḍīputra, che tra l’altro è anche cognato del Maestro e per ben due volte ne attenta alla vita cercando di spodestarlo dalla guida del Sańgha. Non riuscendovi dà vita allora al primo scisma Bauddha che genera una corrente, di cui si ha conoscenza fino al 400, la quale pur attenendosi alla via tracciata dal Maestro venera i tre Buddha precedenti ma non Siddhārta. Ajātashatru è ancora protagonista che da concretezza all’esistenza di Gautama a cui confessa le proprie colpe nei confronti del padre che ha fatto morire in prigione. Siddhārta appare ancora nelle vicissitudini del regno Magadha, a Pāṭalīputra, a dissertare con i ministri di Ajātashatru sulle istituzioni della Repubblica Aristocratica del clan dei Vrji mentre questi sono invece intenti nei preparativi agli scontri con il regno Kośala che prima si impadronisce dei territori della stirpe della famiglia Gautama, gli Śākya, e poi conquista o si fonde con il Magadha stabilendo la capitale proprio a Pataliputra. Il Kosala e il Magadha sono regioni in cui sono ambientate le più importanti vicende del culto Hindù, del Jaina e del Bauddha, diventa pertanto molto difficile districarsi nelle varie epopee, genealogie, leggende e storie per comprendere quali siano reali, quali adattate e quali addirittura copiate. C’è sempre un parente regnante messo lì apposta per dare concretezza all’esistenza e alla sussistenza in un periodo in cui Jaina e Bauddha divengono realtà culturali ma i fatti sono tanti e tali e le filosofie così importanti, articolate e nuove e le conseguenti cronistorie così evidenti che si potrebbe davvero crederci.

È in realtà accettata la possibilità che sia realmente esistito un personaggio cha abbia vissuto le vicende attribuite al Buddha o parte di queste. C’è da tener conto che oltre alla ingenua intenzione dei narratori di voler attribuire a Siddhārta le migliori e più prestigiose qualità sotto tutti i punti di vista, la disputa con la religione Dao che nel 1258 porta a creare e inventarsi date, luoghi e fatti per la controversia sulla precedenza nella nascita fra Siddhārta e Lao-tzu. Probabilmente di origine Brāhmaņica, ma spacciato per Kşatriya, ovvero appartenente alla Casta superiore, la più potente e quella ovviamente da ingraziarsi anche solo con questa subdola asserzione, l’appellativo Gautama lo inquadra all’interno del Clan, il Gotra, dei Gautama anche se la leggenda forza ulteriormente questo particolare facendolo discendere da padre e madre dello stesso Gotra, forse per innalzarne il valore in purezza, cosa però assolutamente vietata dalle norme civili del subcontinente. Originario della zona di Lumbini nei pressi di Kapilavatsu alle falde dell’Himālaya, territorio che lo inquadrerebbe anche per un altro suo appellativo, Sākyamuni, il Silenzioso dei Sākya, per alcuni come discendete del Gotra Sākya dimorante nella regione di Kapilavatsu e quindi di nuovo si ripresenterebbe l’appartenenza alla Casta Kşatriya, per altri semplicemente come abitante della zona che da quel Gotra ha preso il nome. Decade invece tutta la genealogia di Suddhodana in quanto all’epoca quelle zone erano suddivise in Repubbliche, Vairājya, a capo delle quali presiedeva un Rāja, non in quanto re ma quale rappresentante della regalità complessiva delle famiglie gentilizie elettrici. A mio parere però la caratteristica che al di là di tutte le storie e di tutte le leggende ne caratterizza la reale esistenza è un appellativo con cui Siddhārta Gautama veniva chiamato nelle fonti più antiche, Śramaņa Gautama, ossia Gautama l’Eretico. Nel mondo Hindù la parola Śramaņa indica un asceta non ortodosso, che lo emargina dalla caratteristica religiosa Hindù; purtroppo religione e genomica sono rappresentate con la stessa parola perché per il mondo Indiano sono effettivamente la stessa cosa, come per Ebreo che vuol dire praticante la religione Ebraica ma anche appartenente alla nazione Ebraica, che per gli Ebrei in realtà sono una cosa inscindibile, infatti entrambe le religioni non hanno una vera pratica di conversione, Hindù ed Ebrei si nasce non lo si diventa; Śramaņa, Eretico però non porta al rogo nel mondo Hindù, anzi se la nuova filosofia si accresce di proseliti ne fa un Guru di una della tante sfaccettature dell’essere Hindù; già dai Veda la proibizione di scrivere i fondamenti della religione per impedire di farli diventare un dogma aveva favorito che ogni interpretazione divenisse a sua volta nuova fede proprio perché l’interpretazione prima dei Veda era che la religione doveva favorire la speculazione e non confinarsi in regole che prima o poi sarebbero divenute anacronistiche e obsolete. Loro sì che erano stati lungimiranti, il mondo religioso occidentale si trova oggi ingessato dentro alle tre religioni monoteistiche dogmatiche e immutabili, che ancora si basano sulle esigenze di tremila anni fa.

Siddhārta Gautama è contemporaneo di Vardhamāna Jñātr fondatore della fede Jaina, con il quale condivide molte leggende, avi e discendenti, tanto da non riuscire a capire quale delle due fedi abbia copiato l’altra, ed entrambi si posizionano in un periodo storico che vede la fine dei Veda, sopraffatti dallo strapotere Brāhmaņico, odiato ed osteggiato da tutti coloro che non appartenevano a tale Casta, e la rinascita spirituale nel culto Hindù che beneficia della più folta partecipazione popolare e in un primo momento anche con una grossa migrazione verso Jaina e Bauddha. L’Eretico Gautama può pertanto essere stato un qualsiasi Asceta, di qualsiasi Casta, di qualsiasi corrente che ha spiritualmente trovato una nuova Via attraverso la quale accettare l’enorme e pesante incognita dell’esistenza in vita: Chi Siamo, da dove veniamo, dove andiamo e soprattutto… perché?

Abbandona la reggia e diviene un senzatetto, com’era stato profetizzato, alla ricerca della Conoscenza seguendo la filosofia Hindū, nel tentativo di unire l’io, Ātman, con l’origine del mondo, Brāhman; si sottopone ad estenuanti pratiche Yoga sotto la guida di due Guru ma insoddisfatto dei risultati abbandona le pratiche e riprende a viaggiare fino a stabilirsi a Uruvela, nel nord dell’India, dove insieme a cinque discepoli si attenta alla massacrante pratica del rinnegamento di sé per sei lunghi anni fino quasi al raggiungimento dell’estinzione, ma solo quella fisica. Infine, compresa l’inutilità delle pratiche esteriori, realizza che la Via è l’intuizione dell’essenza della realtà e il capovolgimento degli atteggiamenti volti solo all’inutile ricerca di soddisfare la sete di vivere. Una notte, sotto l’albero di fico, immerso nella pace del non cercare niente, vede le sue vite precedenti; la notte successiva grazie ad un’intuizione soprannaturale vede il ciclo della nascita, morte e rinascita e ne comprende la legge che lo governa; la terza notte apprende le quattro sacre verità: la conoscenza della sofferenza, la fonte della sofferenza, la rimozione della sofferenza e la Via per rimuoverla, è in questo preciso istante che diviene il Buddha, l’Illuminato.

 

Ogni esistenza è penosa, persino quella degli déi, di cui Siddhārta non nega né conferma l’esistenza ma li presenta come dato di fatto della cultura Hindù nella profondità delle sue radici Veda. Il disinteresse verso le divinità deriva probabilmente dal fatto che in fondo se li considera lo fa alla stregua dell’umanità, caduchi e soggetti alle stesse asperità, anch’essi alla ricerca del Nirvāņa che ponga fine anche al loro infinito ciclo di rinascite, in fondo anche lo stesso Bráhmā continua insistentemente a rinascere da sé stesso uovo. Pur negando l’esistenza di una divinità eterna e creatrice, lascia alle posteriori speculazioni la possibilità di trasformare la sua filosofia in una religione, stravolgendo completamente le sue intenzioni e riaffidando a déi e numi quel destino che per lui invece solo l’uomo in sé, da sé e solo per sé poteva scriversi; è più forte di noi, non potendo rispondere alle quattro domande possiamo solo affidarci alla più misteriosa delle risposte: Dio. È forse non è la risposta sbagliata.

Ogni esistenza è penosa, persino quella degli déi e per interrompere definitivamente la naturale insistenza all’esistenza l’umanità deve astrarsi da ogni passione, di qualsiasi natura ancorché benevola, caritatevole, umana. La crudezza del Bauddha si manifesta nell’esplicito completo disprezzo dell’esistenza, tutto è impermanente, destinato al mutamento e alla distruzione, tutto è puro fenomeno e nulla è sostanza o principio personale. Questo però significa che non esiste l’io, non esiste anima, non esiste Ātman ma allora cosa trasmigra da una morte alla successiva rinascita? Perché rinasco in una determinata situazione, più o meno positiva o negativa se nulla di quello che io adesso sono è stato parte di quello che prima era e nulla sarà in quello che poi avrà a divenire? Ma alla fine il Bauddha ci vuole solo dire che il nostro compito contingente in vita è solo rimediare ad atti compiuti da chissà chi, per riportare il tutto all’armonia del nulla prima del Big Bang, mi pareva di avere detto le stesse cose un milione di parole fa circa, parlando di quel Dio di cui Siddhārta nega l’esistenza, forse Dio è proprio il nulla, il nulla potenziale che può diventare tutto; perché fra un milione di milioni di anni quando l’ultima essenza sarà al Nirvāņa, cosà accadrà a tutta questa energia assorbita nel buco nero? Non vorrei che ironicamente tutto si risolvesse in un nuovo Big Bang di un Saṃsāra superiore e infinito.

Quel Saṃsāra che nella vita umana si ripete imperterrito, gli atti compiuti quasi sempre producono effetti negativi di tale importanza da non poter essere neutralizzati in una sola vita e allora i nostri, chiamiamoli col loro vero nome, peccati, trasmigrano in altre vite per poter svanire nella Vipāka, la maturazione subcosciente, che produce i Phala, i frutti, i cui effetti positivi sbiadiscono il peccato mentre quelli negativi lo rendono ancor più presente. La soluzione, comune a tutto il mondo Hindù, a questo dilemma dell’agire che produce incogniti Phala è la riduzione o l’eliminazione delle azioni che si risolve in una vita ascetica da mendicante, Bhikşu, termine che poi arriverà a indicare il Monaco Bauddha.

Quel Saṃsāra che solo dimenticando il mondo e la “sete” di vita può essere interrotto; è questo dimenticare che per Gautama si risolve nel Risveglio, Bauddha. Per lui l’eccezionalità del Risveglio sta nel sentire di averlo raggiunto da solo, dopo aver tentato più volte, dopo aver seguito ideologie e dottrine che lo hanno portato soltanto a rischiare la vita, sarà solo nella pace ritrovata ai piedi del fico, in ricordo della sua prima infantile esperienza, che improvvisamente e forse inaspettatamente riesce a discernere il Dharma lasciandosene pervadere e lasciando che abbattesse pregiudizi, opinioni, inclinazioni, proprie o comuni, la repulsione per la sterile ascesi che in fondo è essa stessa ricerca per abbandonarsi all’estinzione di ogni essenza che dalla beatitudine del niente porta alla felicità del non sentire fino al nulla del non esistere più, del non esistere, del non essere mai esistiti. In fondo la felicità è quell’attimo sfuggente durante il quale sentiamo di non aver alcun bisogno, alcun desiderio, alcun rimpianto, alcun ricordo, quell’attimo in cui senza pensarci ci rivolgiamo a noi stessi dicendo: Come sto bene. Ecco Siddhārta Gautama compie quell’ulteriore passo in più in cui riconosce, accetta e diventa quel non più, quel non, quel mai che è ancora più del “come sto bene” il non essere più, il non essere, il non essere mai stato, il non sapere neppure di non essere mai stato, il non sapere nemmeno cosa voglia dire non essere mai stato, il non sapere del non sapere del non essere mai stato, il non sapere del non, il non sapere del sapere, il non sapere dell’essere, il non sapere del mai, il non sapere di stato, per tutti noi inconcepibile, inaccessibile se non provato; pragmaticamente, ed ereticamente per la maggior parte delle religioni, ciò che accadrà ad ognuno di noi dopo la morte sarà come se non fossimo mai esistiti, in un contesto dove la parola esistere non esiste, è il bello è che possiamo farlo senza tutta la fatica e l’impegno che ci ha messo Siddhārta, a volte non credere ha i suoi lati positivi.

Quello del Bauddha però non è un percorso di morte bensì un percorso di vita, non l’accettazione della morte bensì l’accettazione della grama vita di ognuno di noi. La quiete dell’estasi, Jihāna, favorita dalla concentrazione, Shāmadi culmina nella conoscenza, Paññā, che porta l’intima felicità del corpo e dello spirito che non ha più sete, di bisogni e desideri, colmo come un blocco di argilla impastato; continua con la scomparsa dell’attenzione e dell’analisi pervadendo l’essenza umana come una sorgente che sgorga in uno stagno; segue il distacco dalla gioia e dalle sensazioni che colma tutto come è colmo d’acqua un loto che in essa mette radici, nasce, cresce e vive senza mai distaccarsene; infine alienandosi da ogni logica e da ogni illogica e dal concetto di contrari, permeati dalla purificazione e immacolati ci si avvia alla liberazione. Non è l’impegno, la privazione né l’abbandono che portano alla pace ma il susseguente spogliarsi degli stadi di estasi, Jihāna, che dona l’estinzione.

Siddhārta Gautama raggiunge e supera questi stadi durante la sua meditazione sotto l’albero, che sarà poi definito della sapienza. Abbandona ogni senso a sé stesso assorto nella non ricerca, senza aver nulla da trovare, per raggiungere alcun obiettivo e trovare inconsapevolmente la quiete dell’assenza dei desideri. La seconda notte di meditazione, navigando in questo oblio della mondanità, conosce e comprende il ciclo della nascita, morte e rinascita e la legge che lo governa, il Dharma. Tutto nell’universo è soggetto alla decadenza, ogni cosa che è stata creata è inevitabilmente condannata a perire. Le persone, il mondo, l’universo tutto, non sono entità uniche, complete e separate le une dalle altre ma soltanto un agglomerato di elementi singoli che continuamente si uniscono fra loro per poi dissolversi e ancora unirsi con altri formando le individualità materiali conoscibili a tutti. Una perfetta teoria atomica, comprensiva del decadimento caratteristico degli atomi. In fondo noi non siamo, siamo la forma che hanno preso gli atomi dei vari elementi della Tavola Pitagorica che ci hanno formato, provenienti chissà da dove, che un bel giorno, o brutto per alcuni, si dissolveranno in quell’inevitabile “polvere eri e polvere ritornerai” per poi ricomporsi con altri atomi e creare una goccia d’acqua, un ossido, un acido che milioni di anni trasformeranno in ogni forma possibile dell’universo. Lo faranno secondo leggi rigorose, ogni chimico lo sa, ma per gli esseri umani la legge è dettata dal Karma, elemento essenziale della cultura Hindù. Il Karma è l’operato, il compiuto, l’agito durante ogni vita trascorsa, la qualità di queste azioni determina il corso della vita da trascorrere; azioni buone producono Karma positivo che favorisce una rinascita migliore e anche se per il fedele questa miglioria viene vista come nel morire vasaio e rinascere commerciante, morire commerciante e rinascere Raja, nella realtà della ricerca del Nirvāņa questa miglioria sarebbe in parole povere morire peccatore e rinascere pio. Azioni cattive producono Karma negativo che determina una rinascita peggiore, anche se per il fedele questo peggioramento viene visto come morire non abbastanza pio e rinascere peccatore, nella realtà della ricerca del Nirvāņa è come morire Raja e rinascere commerciante, morire commerciante e rinascere vasaio, eh sì, in questo caso la vita sarà davvero più dura. Il tutto regolato dal Dharma, che tutto ordina e tutto combina, un po’ come il Φ,phi, il numero della proporzione Divina della cultura occidentale:1,6180339887…, ma ancora di più perché il Dharma regola anche l’impalpabile, le emozioni, gli impulsi, la volontà, la fama e la fame, e ovviamente la crescita, l’invecchiamento e la morte; anzi la crescita, l’invecchiamento, la morte e la rinascita. Una rinascita completamente nuova, una rinascita in cui niente della passata esistenza è presente, nemmeno l’Anima, l’Ātman Hindù che nel Bauddha improvvisamente non ha più alcun significato. Atomi si combinano, decadono, si sfaldano e altri atomi a miliardi di chilometri di distanza si ricombinano in una nuova esistenza in cui solo il Karma passato vi trova posizione. Quindi non preoccupatevi della vostra disgraziata vita, non è colpa di ciò che avete fatto nella vita precedente ma di ciò che ha fatto qualcun altro, per cui mi verrebbe da dire fate ciò che volete a meno che non vi sentiate in colpa verso chi le vostre colpe pagherà nella prossima esistenza, quella in cui il vostro Karma troverà alloggio. La terza notte di meditazione Siddhārta matura la conoscenza e la comprensione delle Quattro Nobili Verità nucleo della teoria Bauddha, che si estinguono nell’adempiere all’Ottuplice Sentiero.

Adesso Siddhārta Gautama è Buddha, da qui in avanti in qualsiasi momento può definitivamente, nella sua accezione più definitiva, lasciare il mondo, nella sua accezione più infinita. A questo lo invita il demone Māra, dopo aver inutilmente tentato di dissuadere Siddhārta dal giungere all’illuminazione adesso lo tenta con l’egoismo, godere lui solo del traguardo raggiunto e lasciare l’umanità abbandonata a sé stessa; non vale la pena di insegnare alla gente ciò che Lui ha imparato, il popolino non è sufficientemente maturo per una tale meraviglia e avrebbe di sicuro preferito rimanere attaccato al fascino mondano e alle sue vanità; Siddhārta poteva infine morire alla terra per finalmente non essere più, non essere, non essere mai stato. Ma Buddha, pur colmo dei dubbi fomentati dal demone e corroborato dall’appoggio del dio Bhramā Sahampati resiste e insite anche se fosse stato per la salvezza di pochi. Con la rinuncia al non essere più, non essere, non essere mai stato qui e ora, mette in moto la ruota dell’insegnamento tenendo il primo famoso discorso al Parco dei Cervi di Benares nel 528 a.c., assistito dai suoi cinque ex compagni di preghiera che ne divengono i primi discepoli. Il gruppo si allarga velocemente grazie alla carismatica calma serena di Buddha, alla sua autorità riconosciuta e alla dottrina. Il figlio Rāhula e il cugino Ānanda entrano nell’ordine e quando il numero dei discepoli raggiunge i sessanta Gautama li invia a evangelizzare il mondo. Le donne entrano a far parte del Saṅgha, la comunità, soltanto dopo le insistenze della matrigna e della cugina, nonostante lo scetticismo di Siddhārta, convinto che se la sua dottrina avrebbe potuto durare per mille anni con le donne ne sarebbe durata solo cinquecento, per il solo fatto di essere strumento di generazione rappresentavano l’emblema della rinascita incarnando la bramosia di vivere, l’attaccamento mondano che svia dall’illuminazione. Ma la dottrina si espande e viene accolta nonostante tutto e nonostante tutti, per il popolo è la giusta risposta al declino dei Veda e alla supremazia dell’ideologia delle caste imposta dai Brāhmaņi. Buddha percorre più e più volte tutta l’India per quarantaquattro anni, accolto nei Vihara, sale comunitarie, dove viene ascoltato e la dottrina accolta. Finalmente all’età di ottant’anni muore alla terra nella città di Kuśingara e infine non è più, non è, non è mai stato, infine è al Nirvāna mentre terremoti scuotono la terra durante la sua ultima estatica ascesa al momento della cremazione. Le ultime parole sono per il fedele Ānanda “Non piangere Ānanda. Non t’ho forse detto molte volte che è nella natura di tutte le cose, per quanto vicine o care esse ci siano, che dobbiamo separarci da esse e lasciarle? Il saggio vede che tutte le cose create, fonte di preoccupazione e di sofferenza scompaiono di nuovo, mentre la verità rimane. Perché dovrei tenermi questo corpo di carne, visto che la nobile verità durerà? Hai agito bene, Ānanda. Sforzati in ogni modo e presto sarai anche tu libero dai grandi mali della sensualità, dell’egoismo, delle illusioni e dell’incertezza.” Non essere più, non essere, non essere mai stato. Meraviglioso sì, però così a me fa un po’ tristezza.

L'ILLUMINAZIONE DI SIDDHĀRTA GAUTAMA

Adesso Siddhārta Gautama è Buddha, depositario del Dharma che ha conseguito da sé, incarnazione del Dharma come egli stesso proclama, “Chi vede me vede il Dharma” e solo lui può trasmetterlo. “Venga a me l’intelligente, il sincero, non ingannatore, retto. Io lo istruirò, io gli mostrerò il Dharma. Come istruito, così mettendo in pratica, in non lungo tempo da sé solo conoscerà, da sé solo vedrà”. Nella sua trasformazione divina Buddha diviene per il tramite della Voce di Brahmā, il ruggito leonino di chi detiene la verità, diviene capace di operare direttamente in chi l’ascolta, se non oppresso da un Karman di stolte vite precedenti, facendolo divenire Nobile Uditore, generato dal Dharma, materiato dal Dharma, erede del Dharma, non della carne. Questa esperienza di nascita nobile, Āryajāti, sperimenta l’aprirsi del Dharmacakşus, l’occhio del Dharma, attraverso il quale penetra la Dottrina liberatrice e del Dharmaśrotas, l’orecchio del Dharma, che gli permette di udirla. Un apice ascetico stravolgente che trasfigura il praticante e lo rende infine capace davvero di giungere all’illuminazione, tutto questo solo ricevendo la verità direttamente da Buddha. Ma Buddha non c’è più, lo stesso termine Buddha definisce qualcosa che non c’è, non c’è più, non c’è mai stato. Millenni di culto dopo la trasfigurazione di Siddhārta hanno inevitabilmente trasfigurato anche la sua filosofia, invece che impegnarsi duramente nell’abbandonare la mondanità è più semplice pregare perché la sola volontà di Buddha porti al Nirvāņa. Godiamoci la vita e poi in un lampo potremo bearci nel Nirvāņa, magari potremo trasformare la filosofia in una religione, magari potremo chiamarlo Bauddha Mahāyāna.

Il Bauddha non ha per oggetto la venerazione di alcuna persona umana o divina; Buddha non è un dio, né un mediatore inviato da un dio, non può agire come salvatore o redentore in favore di altri, questo e alla base della Dottrina, ma alla morte del Buddha nel 486 a.c., il Parinirvāņa, contravvenendo ad ogni indicazione del Maestro, questi viene immediatamente divinizzato, ogni luogo da lui vissuto diviene Sacro e ogni parte del suo corpo materiale o iconico è destinatario di preghiere e offerte trasformando definitivamente, agli albori della formazione, la filosofia Bauddha in una vera e propria religione, anche se ancora oggi un monaco Theravādin potrebbe tranquillamente affermare che déi e divinità Bauddha non hanno niente a che vedere con la religione. La filosofia Bauddha è una dottrina della salvezza definitiva dalle sofferenze dell’esistenza, una maturazione morale e spirituale strettamente individuale e benché il Buddha possa essere consigliere nel cammino intrapreso né Lui né nessun’altra entità ha il potere di influire o influenzare direttamente la Via che si sta percorrendo e tantomeno contribuire al benessere umano in terra. Procedere sulla Via indicata dal Maestro può anche contribuire ad un miglioramento materiale della vita propria o comunitaria ma è solo un fatto accidentale, se tutti smettessimo di rubare in modo da elevare il nostro spirito, la conseguenza accidentale e non il fine, sarebbe che tutti potremmo vivere più tranquilli ma questo benessere sarebbe soltanto un effetto collaterale di un’azione che mira alla non più esistenza in vita, non a migliorare lo stato della vita perché anche il benessere, provocando attaccamento alla vita, crea i presupposti per nuove penose rinascite. La diretta derivazione dalla cultura e dal culto Hindù lascia in eredità al Bauddha tutte le divinità del proprio Pantheon senza che questo possa però inficiarne la filosofia, in fondo anche tutti gli déi prima o poi moriranno, costretti poi alla rinascita fino al loro annullamento nel Nirvāņa. La loro presenza porta quindi il fedele a rivolgerglisi per soddisfare i bisogni terreni e pur non considerandoli immortali si prodiga in preghiere e offerte come farebbe con qualsiasi potentato; per i Bauddha di oggi, nati e non convertiti per scelta, in fondo questa e mille altre vite, penose quanto possano essere ma sempre migliori una dopo l’altra grazie al solo pio comportamento, non sono poi così male da vivere, perché mai privarsi di tutto? Uomini, déi e demoni della cosmologia Hindù coabitano l’universo stratificato, salendo il quale aumentano benessere, potere e longevità; dall’alto abbiamo gli déi, gli uomini, gli animali, gli spiriti infelici dei morti e i demoni, i primi abitano il cielo, gli ultimi sottoterra e il resto popola la terra che però può essere visitata da déi e demoni. Il cielo è popolato non solo dagli déi ma nella parte più alta da coloro che sono morti in una tale santità e talmente prossimi al Nirvāņa da reincarnarsi un’ultima volta privi di corpo, sotto forma di puri spiriti. Gli strati più alti possono anche essere raggiunti con la sola mente durante alti gradi di estatiche meditazioni e qui, come testimonia di aver fatto lo stesso Buddha, intrattenersi con gli déì e benché questa visione del soprannaturale altro non sarebbe che una proiezione dello stato di illuminazione personale, forse è questo che Siddhārta desiderava trasmettere, decretando teoricamente l’inesistenza di déi e demoni relegandoli ad allegorie dello spirito personale, cosa che solo pochissimi potrebbero raggiungere; il culto comune ha preferito prendere alla lettera la cosmologia e intrattenervisi con la devozione.

L’esistenza di una stratificazione del cielo abitato sempre più in alto da sempre più illuminate e potenti presenze ma proprio per questo sempre più distaccate dal mondano, ha portato ad affermare che più un’entità o una divinità è alta nello spirito meno saranno ascoltate e quindi efficaci le invocazioni indirizzatele. Da questa particolarità nasce un curioso sistema che riesce a superare ogni possibilità che le invocazioni restino inascoltate, la profonda e sottile dinamica mi impone di esprimerla didascalicamente per una corretta comprensione. Una divinità buona aiuta coloro che lo invocano, questo atto provoca un innalzamento dello spirito della divinità ad una più elevata santità e ad un maggior distacco dal mondano, nel posto da lui lasciato si insedia a sua volta un suo subordinato capace di accogliere le preghiere del popolo; l’innalzamento della prima divinità la porta a morire per divenire nel Nirvāņa ma non muore la divinità vera e propria, muore l’esistenza che in lei era divenuta, pertanto chi ne prende il posto ne acquisisce il titolo, in pratica non esiste un deo ma la sua funzione, Vişņu non muore, muore lo spirito che si era innalzato fino a cotanta illuminazione che viene sostituito da un nuovo santissimo spirito, il tutto ovviamente si svolge in milioni e milioni di anni non influendo nella nostra misera e breve vita. Rimane comunque essenziale per le divinità il fatto che per divenire nel Nirvāņa devono comunque condurre un’ultima esistenza in forma umana, dopo tanta santità sono messe un’ultima volta alla prova dalla penosità della vita terrena ma così lontani dai fedeli e così immersi nel benessere dell’illuminazione; quindi, impossibilitati a compiere nuove buone azioni, come possono guadagnarsi un ultimo corpo materiale? Abbiamo definito che il deo inabitato da un santissimo spirito rimane nella sua funzione anche quando quest’ultimo muore perché lascia il posto ad un altro santissimo spirito; per cui alla fine tutti potremmo diventare divinità a meno che la nostra santità e illuminazione non ci conduca prematuramente al Nirvāņa, a meno che il noi che siamo non sia in realtà l’ultimo corpo di passaggio al Nirvāņa di una divinità. In ogni caso affinché questo passaggio divinità, copro materiale Nirvāņa possa avvenire è necessario che nonostante l’abulia divina a questa possano essere addotti dei meriti; Buddha afferma che per l’offerta ad un Sadhu, il Dāna, se ne debba rendere merito agli déi, la formula recita “Ho fatto questa buona azione che non siete in grado di compiere; vi invito a rallegrarvene come faccio io, e, pertanto, a purificare i vostri pensieri, come io faccio con i miei. In cambio vi prego di vegliare sui miei interessi nel mondo.” La buona azione compiuta porta quindi benefici a chi la riceve, a chi la fa e a colui nel nome del quale è stata compiuta permettendo a quest’ultimo di beneficiarne nella sua ascesa al Nirvāņa altrimenti negata.

Déi, demoni e uomini non sono differenti sottostanno a sofferenze all’apparenza ingiuste ma in realtà risultato delle azioni compiute e tutti potenzialmente posso ambire al Nirvāņa, anche i demoni, che se nel contingente possono agire a discapito dell’umanità sono anch’essi suscettibili di conversione con le opportune preghiere, ovviamente di queste ne beneficiano i demoni, coloro che pregano per i demoni, la divinità in nome della quale queste preghiere vengono proferite e l’umanità tutta alleviata dalle angherie del demone. Alla fine, la cosa più meravigliosa e più pregna di religiosità è che la buona intenzione fondamentalmente porta benefici a tutti universalmente e indistintamente. Effetti collaterali previsti da Buddha, più divino dello stesso Bráhmā, divinità creatrice onnipotente Hindù che nasce e si riassorbe ciclicamente e che nel Bauddha altri non è che il primo essere a rinascere in un cielo elevato, Bráhmā che chiede a Siddhārta di predicare l’illuminazione al mondo, effetti collaterali dell’illuminazione che non è onnipotenza, Buddha è consapevole del fatto che nessuno può salvare nessuno dagli effetti delle proprie azioni ma solo ognuno può salvare sé stesso e nel farlo può portare benefici all’umanità tutta. La filosofia si trasfigurerà completamente col tempo arrivando a sostenere che anche il solo atto di culto al Buddha è capace di portare all’illuminazione e nel Mahāyāna raggiungerà l’apoteosi dell’antitesi a Siddhārta affermando che tutti possono salvare tutti anzi che divenire nella santità, la Bodhisattva, è salvare tutti è lo scopo e il fine di ognuno.          

L’uso Hindù con la sua solita mancanza di un vero e proprio canone, l’abitudine alla speculazione, l’assoluta assenza del termine e della concezione dell’occidentale Eresia, dà il via al sorgere di numerose varianti, i Nikāya, ognuna con la propria interpretazione delle parole di Siddhārta; ai Theravādin, gli unici ancora esistenti i quali si considerano i veri e unici originali, si affiancano fra i più importanti i Mahāsāṃghika, i Vātsiputrīya, i Sarvāstivādin, i Saṃmatīya, i Mahīśāsaka, i Dharmaguptaka, i Lokottaravādin e i Pūrvaśaila; tutti questi non saranno in grado però di resistere all’esilio dall’India causato prima dalla rinascita del culto Hindù e poi dall’invasione Islamica.

Seicento anni dopo la nascita di Siddhārta il Bauddha arriva in una Cina aperta e alla ricerca di un culto popolare e popolano che doni a tutti quanti la speranza di una vita migliore se non in questa almeno nella prossima o in quella dopo, senza fretta; la commistione con la cultura cinese origina una religione a tutti gli effetti che preleva il meglio del Bauddha sfrondandolo dei sacrifici, dell’ascetismo e delle pene e arricchendolo della festosità comunitaria, delle gioie e del godimento. Il Mahāyāna, grande veicolo, che disprezza il Bauddha originario, l’Hīnayāna, in cui il devoto Arhat vive e opera solo per sé stesso e per la sua propria e unica salvezza, mentre il Mahāyāna spinge ognuno in una forma di semiilluminazione, la Bodhisattva, che volge alla perfezione, Pāramitā, attraverso innumerevoli rinascite in cui si pratica il Dāna, il dare agli altri, insieme alla saggezza, Prajňā. Il Bodhisattva è pronto a sacrificare il proprio Nirvāņa in soccorso di tutti gli altri esseri umani per recare loro al Nirvāņa, in quanto la sua definitiva dipartita priverebbe gran parte dell’umanità di giungere da sola all’illuminazione per le proprie mancanze, allora dove non puoi arrivare c’è sempre un Santo a cui votarsi. Chiunque può divenire Bodhisattva senza necessità di essere Arhat, la sua profonda saggezza lo rende capace di riconoscere le vacuità della vita mondana, Śūnyatā, tanto da elevarlo ad un passo dal Nirvāņa, passo che non compirà mai fino alla salvezza dell’intera umanità. Santi subito i Bodhisattva divengono destinatari del culto al pari se non maggiormente dello stesso Buddha; Avalokiteśvara, completamente misericordioso e Maitreya, il Buddha a venire sono i più celebri fra i salvatori Mahāyāna.

Anche il Mahāyāna non è culto definitivo, si evolve, si trasforma si dirama in nuove sette sempre più filosofiche se non metafisiche, intorno al 200 Nāgārjuna postula la tesi della vacuità universale affermando l’inesistenza della sostanza e fondando la scuola dei Mādhyamaka; nel 700 si fonde con il Tantra creando il Vajrayāna, Veicolo di Diamante, in cui yoga, magia e un’infinità di divinità danno vita ad un culto esoterico all’ennesima potenza.

IL SAṄGHA

L’adesione di numerosi adepti alla filosofia di Siddhārta porta alla formazione di una folta congregazione Bauddha che sulle basi dell’ideologia fonda il proprio ordine, il Saṅgha, la Comunità, retta dalla severa disciplina osservata dal Maestro, il Vinaya. Il Saṅgha  non è un ordine monastico ma è l’intera comunità Bauddha o più semplicemente la locale comunità Bauddha, vi fanno parte infatti i Monaci, le Monache, oggi ormai estinto come gruppo, i fedeli laici uomini e le fedeli laiche donne, questi ultimi hanno il solo dovere di assolvere ai cinque comandamenti morali: non uccidere nessun essere vivente, non prendere ciò che non è dato, non abbandonarsi a pratiche sessuali illecite, non mentire e non bere sostanze inebrianti; l’originaria filosofia tradottasi nel Theravāda un tempo lasciava ampia autonomia ai vari Saṅgha  ma essendo sopravvissuta solo in pochi paesi che l’hanno poi trasformata nella Religione di Stato, è ormai organizzata burocraticamente allo stesso modo del sistema amministrativo laico, tanto che contrariamente al concetto stabilito dal Beato gli viene messo a capo un Re, il Saṅgha -rājan. Il fondamento del Saṅgha sono i Monaci, o così li chiameremmo noi per la loro pia fedeltà ma il loro essere nella comunità non è statico in un monastero ma itinerante e mendicante cibo, da cui l’appellativo Bhikşu o almeno così era un tempo; pii e asceti fungono per i laici da consiglieri e buoni esempi di devozione e obbedienza alla Dottrina e al Vinaya.

I Bhikşu hanno rinunciato al mondo per percorrere la via ascetica che mena al Nirvāņa e nonostante il Bauddha sia da sé, per sé, ormai essere nella comunità vuol dire entrarci ufficialmente, per i laici promettendo fedeltà ai comandamenti, per i Bhikşu chiedendo l’ammissione al gruppo di monaci già esistente che ne decide l’ingresso, questo comporta, diversamente dal da sé e per sé, un aiuto spirituale nell’avvicinarsi alla Dottrina fornito da un tutore, l’Upādhyāya, incaricato di insegnare il Vinaya e della vicinanza di un precettore, l’Ācārya, che gli farà strada nella complessità della Dottrina stessa; entrambi hanno principalmente il compito di sorvegliare il comportamento dei novizi. Tutti i Monaci devono sorvegliare sull’altrui comportamento come sul proprio e denunciarsi o denunciare eventuali mancanze che saranno punite a giudizio del Saṅgha locale. Mentre le questioni materiali possono sovente portare a discussioni e a sottoporre ad un più ampio giudizio la questione nata, soprattutto per le nefaste ripercussioni che un atto materiale potrebbe portare alla comunità laica, le questioni filosofiche, in mancanza di una vera e propria ortodossia portano materialmente a ciò che si potrebbe equiparare ad uno Scisma, ma che nel Bauddha significa la non collaborazione e la non coabitazione e convivialità fra due gruppi, che nei fatti porta semplicemente alla nascita di una nuova comunità con propri indirizzi e proprie regole, il divagare frequente e sregolato dei Saṅgha ha portato l’occidente ad identificare il termine utilizzato per definire le nuove identità, Nikāya, con Sette, come se fossero esoteriche congregazioni misteriche mentre in realtà è più corretto indicarle con l’occidentale Ordini, in quanto le divergenze fra i vari Nikāya nulla hanno di differente da quelle che esistono fra i Cristiani ordini di Francescani e Benedettini. Benché nata, divulgata e diffusasi per la particolarità di accogliere al proprio interno ogni umana realtà senza considerazione della razza o della Casta, con il passare dei secoli si è sempre più diffusa nei vari Nikāya la cattiva abitudine di accogliervi solo novizi delle Caste più alte, anzi i novizi vengono direttamente sponsorizzati dai Bhikşu più anziani, quindi più degni di ascolto per il loro già lungo percorso nel Vinaya, che invece vi introducono fedeli di Caste onorevoli per dar lustro al Saṅgha.

Il Saṅgha originario, fondato durante l’esistenza in vita del Buddha, successivamente al Parinirvāņa da comunità diviene da ben presto ecclesia comunitaria, un luogo di dispute a partire dalla successione alla guida della comunità stessa. Alla Sua morte in vita Siddhārta Gautama, il Maestro, il Buddha, non designa alcun successore, forse troppo confidando nei propri insegnamenti e questo porta non solo ad una lotta per la successione ma al diramarsi del Dharma in una serie infinita di ulteriori Dharma per ogni Saṅgha che si dissocia o che si crea per distacco da un precedente Saṅgha per differenza di vedute. Ben breve è infatti la cronologia dei successori del Maestro, a cui segue il severo Brāhmano Mahākāśyapa che avversa apertamente la linea genetica di Siddhārta, nel tentativo probabilmente di impedire che la carica di Guida possa divenire ereditaria, anche se l’umore popolare avrebbe preferito il pio Ānanda, colpevole invece per i più ortodossi di avere aperto le porte del Saṅgha alle donne. Da qui si apre un capitolo di leggende e interpolazioni infinito a seconda che le fonti provengano da questo o da quel Saṅgha, in cui venti anni dopo, alla morte di Mahākāśyapa, sia veramente Ānanda a prendere le redini della Comunità divenendo però di fatto anche l’ultimo a farlo. I Saṅgha si moltiplicano, le dispute continuano per centinaia di anni, si indicono e celebrano Concili per concordare un'unica vera Via con il solo risultato, invece, di certificarne di nuove. Gli eredi morali del Buddha continuano a predicare e ad essere osteggiati e i politici della religione continuano a disputare sulle qualità degli Arhat, i degni che raggiungono la liberazione in vita, e sulle finezze filosofiche delle parole del Maestro, alcuni semplificando altri rendendo praticamente impossibile seguirne l’esempio.

Ancora nel 300 a.c. si tentava di tenere unita la Comunità e a farlo è Aśoka Maurya il Grande, conquistatore e unificatore dell’India settentrionale. Nasce nel 304 a.c., nipote del re Candragupta Maurya e figlio di Bindusāra Amitrahāta, lo sterminatore di nemici, e della principessa Dharmā devota Bauddha, dopo una vita da guerriero, dopo mille conquiste, dopo aver sterminato la popolazione dei Kaliṅga, una volta creato il grande impero indiano, conducendo il paese in una sorta di Pax Augustea, si converte alla filosofia Bauddha e lo fa conscio delle proprie malefatte e della violenza portata e forse proprio per questo, lo fa in modo appassionato cercando, dopo aver procurato morte e distruzione in ogni luogo, di divulgare questa religione di pace in tutto il mondo. Non disponendo di TV, satelliti e internet, lo fa nel modo più comune, utilizzato per migliaia di anni, disseminando il suo regno e anche oltre, di iscrizioni in pracrito, in brāhmī, in kharoṣṭhī ma anche in aramaico e addirittura in greco, denominate Dharmalipi, nelle quali esorta tutti i suoi sudditi a seguire i precetti Bauddha. Si presenta come “caro agli déi” e “dallo sguardo amorevole” intento a diffondere il Dharma; intorno al 250 a.c. segue un ‘ispirazione che lo porta a compiere i cosiddetti viaggi del Dharma, visitando le varie parti del regno per confrontarsi con Brāhmani e asceti che lo portano ad abbracciare la Via del Maestro. La sua opera è continua e incessante; vien disposto, in memoria dei suoi viaggi, che ogni cinque anni dei dignitari, i Dharmamahāmātra, debbano recarsi nelle varie regioni del regno a diffondere, ma anche ad applicare e far applicare la Dottrina, per cui con poteri anche giudiziari e censori. Altri incaricati, i Dūta, sono invece deputati a evangelizzare oltre i confini del regno, nell’India meridionale e in Srī-Lanka, ma anche tra i Diadochi eredi dell’impero di Alessandro Magno fino in Antiochia ed Egitto. Nei suoi editti afferma i benefici effetti del Dharma che solo è capace di portarne di così virtuosi, invita ad osservare una serie di precetti che possono essere introduttivi al Dharma quali la Śuśruşā, l’obbedienza a genitori, maestri e all’autorità, a cui è dovuta anche la Sampratipatti, la premurosa attenzione; il Dāna, il donare, ma preferibilmente in oro; la Āhiṃsā, virtù principale del Bauddha; lo Śauca, la purezza corporea e la Bhāvaśuddhi, la purezza dei sentimenti, mentre invece sono da rifuggire fermamente l’ira, la crudeltà, l’alterigia e l’invidia, la madre per antonomasia del Kama che porta inevitabilmente al Duḥkha. Offre a tutti i “figli di Manu” la sua clemenza, la sua pazienza e di fornire loro giovamento e agio. Dopo aver tanto ricevuto, con la sua conversione offre al regno i frutti materiali e spirituali dalle sue conquiste.

La sua devozione all’Āhiṃsā si estende a tutti gli esseri viventi, vietando la macellazione di animali per la sua tavola, con alcune esclusioni, come esempio per tutti i sudditi; la ricchezza del regno e nel suo impegno a rendere più agiata l’esistenza dei sudditi promuove la coltivazione di erbe medicinali per il popolo, costruisce strade, pozzi e ospedali; questo suo continuo e lodevole elargire viene definito Paricaraṇa, andarsene attorno giovando agli altri, in chiara contrapposizione alle azioni negative che portano al Tatra tatrābhinandinr, l’inutile andar cercando qualcuno o qualcosa che dia un senso positivo all’esistenza.

La sua devozione è tale da portare a credere che sia reale e non una mera mossa politica per ingraziarsi un popolo già ampiamente convertito, perché non si ferma alla proclamazione, non è un atteggiamento fariseo ma pare proprio che sia stato benevolmente travolto dalla filosofia Bauddha. In un editto, che dichiara essere stato redatto in duecentocinquantasei esemplari sparsi per ogni dove, si dichiara Upāsaka, laico osservante, da due anni e mezzo anche se, e qui la devozione si trasforma in umiltà, quell’umiltà che porta a credergli, solo da un anno si considera avanzato sulla via del Dharma, da quando si è accostato al Saṅgha, quella comunità che difenderà strenuamente.

La sua devozione è tale da far restaurare gli Stūpa ed erigere pilastri ed effigi a Lumbini, luogo natale di Siddhārta, fino ad andare in pellegrinaggio presso l’albero all’ombra del quale Siddhārta ha conseguito l’Illuminazione e divenirne talmente devoto e innamorato da suscitare addirittura la gelosia della consorte.

La sua devozione è tale che si prodiga nella compilazione di un Canone illustrativo della Via dell’Illuminazione, redigendo numerosi testi da diffondere fra Bhikşu e laici per favorirne l’approccio alla filosofia. Un compendio di detti della Bhagavat Buddha in cui inserisce una serie di testi, quasi esoterici, che esaltano la Via e ammoniscono chi non la percorre: il Vinayasamutkarşa, l’esaltazione della disciplina; lo Aryavaṃśa, sui discepoli del Maestro; gli Anāgatabhaya, sui terribili destini dei peccatori; le Munigāthā, raccolta di prose del Buddha qui definito il Silenzioso; i Mauneyasūtra sulla condizione di Silenzioso; lo Upatişyapraśna, raccolta delle domande di Upatişya; il Rāhulavāda, il discorso di Rāhula, figlio di Siddhārta, in cui il padre lo ammonisce sulle false dottrine. Come se volesse convincere, se non imporre a tutti, la sua come l’unica visione della Via.

La sua devozione è tale da divenire quasi paranoica, imponendo, quasi come se fosse lui la guida della Ecclesia, che i monaci e le monache scismatiche venissero allontanate dai monasteri vestiti di bianco a denotare la loro reimmissione allo stato laicale, inviando addirittura messi a erudire a voce in merito, gli analfabeti.

La sua devozione è tale da regalare al fratello Tişya la grotta di Bhojagiri, dato che, dopo averlo servito come ministro, si è convertito alla Via sotto la guida del Maestro Mahādharmarakşita e tale da portarlo alla conversione al pentimento e alla richiesta di perdono per aver ucciso l’altro fratello Susīma per usurparne il potere, a dire la verità su questo ci sarebbe da dubitare; a rafforzare il suo stato di convertito e avviato sulla Via del Dharma muta il suo appellativo di cruenta potenza Caṇḍrāśoka nel mite e pio Dharmāśoka. La conversione di Costantino non regge certamente il confronto.

IL CANONE

Il Bauddha non ha per oggetto la venerazione di alcuna persona umana o divina; Buddha non è un dio, né un mediatore inviata da un dio, non può agire come salvatore o redentore in favore di altri, questo e alla base del Dharma, la Dottrina, Buddha è un esempio da seguire, lo stimolo per non essere in sé stessi, la parola da ascoltare mentre si percorre la Via. Il Canone Bauddha diventa tale e quantomeno definito se non definitivo, intorno all’anno zero, per più di cinquecento anni la Dottrina viene tramandata solo per via orale come nei consueti usi Hindù; dopo questa prima stesura invece quasi tutti i testi successivi saranno trascritti contestualmente alla loro composizione. Benché la Dottrina contenga enunciazioni anche di alcuni dei suoi più vicini discepoli, le regole fondamentali sono attribuite solo e soltanto a Buddha conferendo loro il rispetto e l’autorità del Maestro ed evidenziando che queste siano frutto della sua propria Illuminazione e non di ispirazione divina e men che meno una rivelazione, modalità proprie invece della filosofia di una religione che si dichiara tale. Ovviamente l’umana capacità di fare e disfare non ha impedito nel tempo che alcuni Monaci inserissero variazione e aggiornamenti per adattarle a nuove necessità dandone comunque l’origine alla parola del Buddha, come se ci fossero sempre state. La trascrizione della Dottrina comporta, in un territorio così vasto che andrà poi ad ingrandirsi ulteriormente, l’adozione di una lingua unica che per il culto originario ancora praticato in Indocina e Srī-Lanka, quello del Theravāda, è il Pāli, mentre per il Mahāyāna sarà il Sanscrito, purificato di tutte le influenze dialettali, a diventare la lingua dei testi, entrambe considerate come la vera lingua parlata dal Buddha sono divenuti idiomi sacri. Sarà comunque sempre favorita la traduzione in ogni altra lingua al fine di meglio far conoscere al mondo intero la Via dell’Illuminazione, anche per la peculiarità essoterica del culto, destinato a tutti, che solo in alcune particolari Sette Tibetane si rivolge come culto esoterico ai soli pochi iniziati. La declamazione dei salmi nelle lingue originarie dona alla recitazione quel potere soprannaturale capace di elevare all’illuminazione. La tradizione vuole che alcuni mesi dopo il Parinirvāņa si sia riunito un concilio durante il quale il Canone viene recitato e fissato ma solo in forma orale e che cento anni dopo questo si sia ripetuto ma la realtà è che se anche questo fosse davvero accaduto, solo cinquecento anni dopo quel Canone avrebbe trovato l’inconfutabilità della scrittura, manipolata e travisata ma permanente in ogni suo stadio di evoluzione; è quindi ben riconoscibile ogni successiva aggiunta o detrazione. I testi, considerati vera e propria emanazione del Buddha saranno considerati come la materializzazione della stessa Dottrina.

Il Canone, in sanscrito Tri-pițaka, è generalmente composto da tre macro-gruppi, i Pițaka; i Sūtra, Sermoni attribuiti al Beato, i Vinaya, della disciplina monastica e gli Abhidharma, della Dottrina approfondita; benché filosoficamente diversi fra di loro i Canoni dei diversi culti derivati, le cosiddette Sette, mantengono tutti lo stesso ordine di classificazione. A conclusione dei Sūtra sono inserite le Jātaka, leggende che narrano le precedenti vite del Buddha e il Dhammapada, una raccolta di sentenze pregne di altissima moralità. Il terzo Pițaka è quello che più differisce fra le varie Sette in quanto generalmente redatto in epoche posteriori e sostanzialmente fulcro filosofico di ogni nuova visione della Dottrina.

Senza un’autorità centrale controllore dell’ortodossia, la nascita di nuove Sette è una pratica semplice e non violenta che non comprende né il termine Eresia né tantomeno quello di Scisma; ogni Monaco qualora avesse interpretato la Dottrina in una nuova visione filosofica, spesso solo più moderna e più adatta alle contingenze, la enunciava attribuendone ovviamente l’ispirazione al Maestro, se la comunità della Setta, presieduta dai Monaci più eruditi e saggi, la accettava questa entrava a far parte delle tradizioni canoniche, se ciò non accadeva poteva prendere atto del diniego e rimanere nella Setta o perseverare fondandone una propria con propri discepoli, per i quali l’innovazione sarebbe invece divenuta il Canone.

I Canoni sono quindi tanti quanti le Sette sorte e svanite nei secoli e mentre i più antichi come il Mahāvairocana o il Mañjuśrīmūlakapa sono ancora contraddistinti dal termine Sūtra quelli del tardo Bauddha e della sua evoluzione nei moderni culti come il Guhyasamāya e il Kalācakra, recano l’appellativo di Tantra, metodo, che in occidente è conosciuto solo per gli approfondimenti  in ambito sessuale; tutti i testi sono invece una minuziosa raccolta di tecniche e pratiche rituali, regole ed esercizi Yoga capaci di portare all’identificazione del praticante con un Buddha o con una divinità ispiratori e non donatori, di una vita e una Via più Illuminata; molte sono le formule rituali, i Mantra e non mancano neppure quelle magiche i Vidyādhāraņī. La variabilità della dottrina ha portato poi alla stesura di molte opere post canoniche che sono attribuibili a precisi autori, probabilmente ad un certo punto non era più possibile far passare per antichi dei testi completamente nuovi e magari gli stessi autori hanno preferito fregiarsi della paternità di tali opere anziché rivendicarne l’attribuzione sempre al solo Buddha. Fra gli autori delle poetiche composizioni i più famosi sono Aśvaghoşa, Mātŗceta, Buddhaghosa, Vasubandhu, Nāgārjuna, Asańga, Candrakīrti e Dińnāga.

Ma “Il Canone”, il Vero Canone, non può essere che il discorso al Parco dei Cervi di Benares tenuto nel 528 a.c., durante il quale Buddha rivela le Quattro Nobili Verità: Gli esseri umani soffrono, la realtà dell’esistenza personale e del mondo esteriore è dolore, consistente nell’invarianza delle sue condizioni: nascita, malattia, morte, mancanza di ciò che si desidera, unione con ciò che dispiace, separazione da ciò che si ama; La sofferenza nasce dalla ricerca di ciò che è transitorio: il desiderio di esistere, il bisogno del piacere e anche il suo rifiuto; Per sconfiggere il dolore bisogna abbandonare l’attaccamento alle cose, alle persone e ai valori ingannevoli: il desiderio va eliminato; Esiste un percorso da seguire per emanciparsi dal dolore: il nobile ottuplice sentiero. E questo viene rivelato da Buddha: Retta Visione: contemplazione della realtà com’è, senza inquinarla coi propri pregiudizi, complessi inconsci, abitudini inveterate, ripugnanze innate, limitazioni caratteriali, ecc.; Retta Intenzione: possibile solo con un esercizio ininterrotto del controllo della propria rappresentazione concettuale; Retta Parola: cioè sua perfetta corrispondenza, senza enfasi né sciatteria, con l’oggetto enunciato; Retta Azione: agire esattamente quando e quanto sia necessario; Retta Sussistenza: saper mediare fra le necessità della vita materiale e i fini spirituali che ognuno si propone di conseguire; Retto Sforzo: saper adeguare esattamente ogni iniziativa all’importanza dello scopo da conseguire; Retta Presenza Morale: costante ricordo di quanto si fa, si pensa e si sente, in modo da essere continuamente presente a sé stesso; Retta Concentrazione: non lasciare che la mente sosti in stati d’animo depressi o esaltati.

Volgere al Nirvāņa nella piena conoscenza del non essere, l’io non esiste, l’Ātman non sussiste, atomi ed elementi si combinano infinitamente trasportando il Karman proiettato al proprio annientamento, accogliere questa verità significa staccarsi dall’Io e alla sua inutilità che ci mantiene attaccati al mondano, che si trascina di esistenza in esistenza e che è la causa prima e diretta del dolore, della nostra inutile vita dolorosa. Allora, volgere al Nirvāņa, al nulla, alla vacuità a quel niente che non è possibile definire se non con accezioni negative, nel Tripițaka si trova infatti la descrizione di ciò che il Nirvāņa non è, “Il Nirvāņa è la regione ove non esiste terra, acqua, fuoco e aria; non è la regione di uno spazio infinito, né quella di una coscienza infinita; non è la regione del puro nulla, né il confine tra la distinzione e la non distinzione; non è questo mondo né l’altro mondo, non vi sono né sole né luna. Non lo chiamerò venire e andare, o stare in silenzio, o svanire, o cominciare. Esso è senza fondamento, senza continuazione e senza fine. È la fine della sofferenza.” Il Nirvāņa può essere conosciuto con la meditazione ma è solo un illusorio assaggio di ciò che diverrà davvero dopo la morte, mentre Siddhārta Gautama è Illuminato, è Buddha perché ha avuto la Rivelazione in vita, perché ha conosciuto il Nirvāņa vero e pieno da vivo.

Dopo il Parinirvāņa il Canone prende velocemente nuove strade, vuoi per la consuetudine della cultura Hindù, vuoi per la rapida espansione dovuta al decadimento dei Veda, vuoi per l’individualità del percorso che facilita il poter affermare modi diversi di intraprenderlo, vuoi perché il Bauddha nella sua meravigliosa spiritualità e definitiva via per il Nirvāņa appare particolarmente difficile da perseguire. I filoni più ortodossi, fedeli alla parola di Siddhārta, si riconoscono nella fede Thera-vada, la Dottrina degli antichi, che mantiene il suo centro negli sforzi individuali per il raggiungimento della salvezza, disconosce ogni intervento divino e rifiuta il culto delle immagini, anche pregare davanti ad un’immagine di Buddha non ha alcun senso, Buddha è ormai al Nirvāņa, lontano da ogni dinamica mondana, nel nulla, è il nulla, non raggiungibile ed essendo al nulla, nulla può tornare da ciò che non c’è. I Thera-vādin sono consapevoli che soltanto i pii fedeli, i monaci, i Bhikşu posso quantomeno sperare, forse non in questa ma in una delle prossime vite, di poter magari, può darsi, con molto impegno, che si presenti la possibilità remotissima di sperare che ci sia l’opportunità, se tutto si svolge con l’impegno e la devozione opportuna che magari si possa credere di essersi avvicinati all’illuminazione, ma anche no. Con questa consapevolezza i Thera-vādin passano almeno un breve periodo della loro vita in monastero, quantomeno per scalfire un po’ il Karman.

La massa però ha bisogno di manifestazioni più tangibili della via per la salvezza, non ha fiducia in sé stessa e non crede davvero di potercela fare da sola e allora anche le consuetudini più conservatrici accettano e permettono il culto di spiriti e demoni e l’adorazione di immagini di divinità, esseri spirituali e dello stesso Buddha.

La massa però ha bisogno di manifestazioni più tangibili della via per la salvezza, non ha fiducia in sé stessa e non crede davvero di potercela fare da sola e allora occorre trasformare l’ateismo del Bauddha in una religione, il Mahāyāna. Lo scisma avviene molto presto, intorno al 400 a.c., i seguaci più liberali fondano una propria comunità, la Mahā-saṃghika, la grande comunità, dando al proprio culto il nome di Mahāyāna, Grande Veicolo e affibbiando al Thera-vada il nomignolo, non gradito ma che alla fine è rimasto ufficialmente a contrassegnarlo, di Hīnayāna, il piccolo veicolo. Questi appellativi nascono da una scrittura Mahāyāna che racconta dell’incendio di una casa durante il quale gli abitanti della casa si procurano un carro trainato da un solo animale e su cui solo in pochi possono salire, a significare che secondo il Thera-vada la salvezza è riservata a ben pochi; è questo appunto il piccolo veicolo che trasporta i fedeli Bauddha verso l’illuminazione elitaria. Al contrario la comunità Mahā-saṃghika assegna a sé la scelta di utilizzare un Grande Veicolo che può salvare tutti quanti gli abitanti della casa, il Mahāyāna. Dopo la diaspora, dovuta in gran parte alla conquista islamica del subcontinente, la fede Bauddha si è affermata in maniera consistente solo fuori dall’India, il Mahāyāna si è espanso nella regione del Tibet, in Cina, Mongolia, Korea Vietnam e Giappone, mentre il Thera-vada conservatore si è diffuso in Birmania, Cambogia, Laos, Thailandia e Srī-Lanka. Solo dopo il 1900 il Bauddha ha fatto ritorno in India ricominciando lentamente a riappropriarsi dei luoghi in cui Siddhārta Gautama ha predicato e raggiunto l’illuminazione e il Nirvāņa.

La massa ha bisogno di manifestazioni più tangibili della via per la salvezza, ma nessuno ha detto che la Via per la Salvezza sia un facile e agiato percorso, comunque il Bauddha si sia trasformato, la Via per la Salvezza indicata dal Maestro è una sola e praticamente impercorribile.

Non essendo una religione nel senso stretto della parola, risulta alquanto difficile apprendere, comprendere e spiegare il Bauddha; una religione ha dei dogmi a cui il fedele si attiene appunto per pura e semplice fede; crede, ci crede e professa e manifesta la sua fede, si rivolge alla divinità chiedendo aiuto, salvezza ma anche fama e ricchezza e confida che data la sua devozione la divinità si convincerà a dargli ciò che ha chiesto. Il Bauddha popolare di oggi ha ormai assunto questa veste più raggiungibile dalla grande massa, composta da ceti e culture diversi, accomunati dalla semplice necessità di una vita migliore ma in origine l’insegnamento del Maestro è una vera e propria filosofia e poi una filosofia di vita che oggi solo pochi monaci ancora diligentemente praticano mentre molti credono di farlo assumendo posizioni yoga in casa o in palestra. Non è stato facile per me addentrarmi in una filosofia, una filosofia ha sempre una causa e un effetto che devono essere compresi per potersi far permeare da questa; una religione ha un comandamento che non si discute; una filosofia ha sempre una causa e un effetto che devono essere compresi per potersi far permeare da questa, risulta alquanto difficoltoso il percorso, il percorso di vita, se non ci sono delle solide basi di conoscenza e comprensione capaci di farci compiere il successivo passaggio; una religione ha un comandamento che non si discute e se lo si fa ci sono due diverse conseguenze: la fondazione di una nuova religione o la morte sul rogo.

Non pretendo di aver completamente compreso questa filosofia e proprio nel tentativo di spiegarla cerco una migliore apertura della mia mente, per questo motivo cercherò di farlo in tre modi diversi, uno cronologico didascalico, uno cronologico approfondito e uno cronologico criticamente commentato sperando in quest’ultimo di poter respirare almeno un alito della profondità donataci da Siddhārta Gautama.

LE QUATTRO NOBILI VERITA’

GLOSSARIO CRONOLOGICO DIDASCALICO DELLE QUATTRO NOBILI VERITA’

Āryasatya: Nobili Verità, dall’appelaltivo degli Ārya, il popolo conquistatore del subcontinente indiano.

Dharma: la Dottrina Bauddha.

Dharma: la regola della Dottrina Bauddha.

Dharma: le entità esistenti che sottostanno alla Dottrina Bauddha.

Duḥkha: il disagio esistenziale da contrastare.

Śoka: l’angosciarsi a causa del disagio esistenziale.

Parideva: l’andarsene intorno lamentandosi del disagio esistenziale.

Daurmanāsya: i cattivi pensieri, il disagio mentale.

Upāyāsa: la frustrazione.

Samprayoga: la comunione di vita, nella sua accezione negativa di subirla con il non amato.

Viprayoga: la lontananza dall’amato.

Duḥkhaduḥkha: il disagio per i disagi dovuti all’esperienza di vita.

Vipariṉāmaduḥkha: il disagio per le alterazioni dei piaceri per il quale ci si rende conto di quanto siano effimeri.

Ksaṉikamaraṉa: il disagio della morte nel senso più ampio.

Saṃskāraduḥkha: l’inutilità del tentare di superare il disagio per il tramite degli Skandha.

Upādānaskandha: l’insieme dei fenomeni fisici e interiori che caratterizzano l’essenza umana per il tramite dei cinque sensi: Rūpaskandha, Vedanāskandha, Saṃjñāskandha, Saṃskāraskandha, Vijñānaskandha a cui si aggiunge la Mūlavijñāna, la coscienza mentale che coordina le altre cinque. Tutto quello che facciamo è Skandha, inutile al raggiungimento del Nirvāņa è di ostacolo.

Duḥkhasamudaya: l’insieme delle molteplici forme del Duḥkha.

Tṛṣṇa: la sete, ancestrale, inestinguibile, urgente e vitale che costringe l’umanità a cercare in ogni modo e maniera di placarla; l’origine primaria di ogni Duḥkha.

Tatra tatrābhinandinr: la vana ricerca di gratificazioni.

Duḥkhanirodha: la cessazione del disagio che indica le modalità per porre fine all’inestinguibile Tṛṣṇa: Aśeşavirāganirodha, Tyāga.

Pratinisarga: la completa estromissione.

Mukti: lo scioglimento.

Anālaya: la non dimora dei propri sensi nei desideri, l’allontanarsi dal Kāma.

Duḥkhanirodhagāminīpratipad: l’iter da seguire per giungere al blocco del disagio.

Āryaṣṭāṅġikamārga: la prassi ascetica che forma il Nobile Sentiero ad Otto Membra, l’Ottuplice Sentiero.

LE QUATTRO NOBILI VERITA’

GLOSSARIO CRONOLOGICO APPROFONDITO DELLE QUATTRO NOBILI VERITA’

Āryasatya: Nobili Verità, gli Ārya sono il popolo, proveniente dalla valle dell’Indo, conquistatore del subcontinente indiano, definititi appunto nobili per il loro potere, economico e militare, nei confronti delle miserrime popolazioni indiane, sono loro i portatori dei Veda.

Dharma: la Dottrina Bauddha così la chiama Siddhārta rifacendosi alla regola di vita del culto Hindù.

Dharma: la regola della Dottrina Bauddha, allo stesso modo questo appellativo di origine Hindù viene utilizzato anche per indicare le regole Bauddha.

Dharma: le entità esistenti che sottostanno alla Dottrina Bauddha, tutto ciò che definibile e a contatto con l’esistenza prende lo stesso appellativo della regola in quanto ne sottostà.

Duḥkha: il disagio esistenziale, il malessere umano insormontabile, l’invincibile avversario della Via della Salvezza, che solo con la corretta pratica può essere volto al nulla per divenire nel Nirvāņa. La traduzione del termine riporta ad un asse che gira male nel mozzo, dus, di una ruota, kha. In antitesi a questo, a seguito del discorso tenuto al Parco dei Cervi di Benares, Siddhārta Gautama mette in moto la Ruota del Dharma, Dharmacakra, rendendo possibile il superamento del Duḥkha.

Śoka: l’angosciarsi a causa del disagio esistenziale, una delle tante inutili attività in cui l’umanità si perde anziché affrontarle.

Parideva: l’andarsene intorno lamentandosi del disagio esistenziale, il tipicamente umano e ancora una volta inutile lamentarsi, come se ciò che accade sia colpa di qualcun altro, invece di reagire.

Daurmanāsya: i cattivi pensieri, il disagio mentale intesi non nel senso di progetti di cattive azioni ma dell’arrendersi all’esistenza.

Upāyāsa: la frustrazione che deriva da tutte le inutili azioni messe in campo lamentandosi e disperandosi invece di agire.

Samprayoga: la comunione di vita, nella sua accezione negativa di subirla con il non amato, l’essere costretti a condividere tempi della vita con persone non di nostro gradimento.

Viprayoga: la lontananza dall’amato, vissuta come disperata mancanza di qualcosa.

Duḥkhaduḥkha: il disagio per i disagi dovuti all’esperienza di vita, il lasciarsi aggredire dal disagio di non saper affrontare i disagi.

Vipariṉāmaduḥkha: il disagio per le alterazioni dei piaceri per il quale ci si rende conto di quanto siano effimeri, appena colti svaniscono lasciando il posto a nuove bramosie senza mai giungere ad una vera e propria soddisfazione. Questo particolare malessere è alla base della filosofia filoorientale di Arthur Schopenhauer che influenza anche Giacomo Leopardi nella sua estremizzazione del Pessimismo Cosmico.

Ksaṉikamaraṉa: il disagio della morte, inteso nel più ampio concetto di morte dell’attimo, quel fuggevole momento di piacere che svanisce, la continua morte della felicità.

Saṃskāraduḥkha: il disagio insito nella consapevolezza dell’inutilità del tentare di superare il disagio per il tramite degli Skandha.

Upādānaskandha: l’insieme dei fenomeni fisici e interiori che caratterizzano l’essenza umana per il tramite dei cinque sensi. Rūpaskandha: l’insieme delle forme visibili e sensibili che comprende il corpo, i cinque sensi e l’oggetto dei cinque sensi. Vedanāskandha: l’insieme delle sensazioni provate tramite i cinque sensi. Saṃjñāskandha: l’insieme delle coscienze sensoriali, interiorizzazione delle sensazioni provate tramite i cinque sensi. Saṃskāraskandha: l’insieme delle latenze, eventi e attitudini mentali, consce o inconsce non direttamente collegabili ai cinque sensi. Vijñānaskandha: l’insieme delle conoscenze, che raggruppa le cinque coscienze interiormente riflesse dai processi sensoriali dei cinque sensi a cui si aggiunge la Mūlavijñāna, la coscienza mentale che coordina le altre cinque. In pratica tutto quello che facciamo e proviamo ogni singolo attimo della nostra vita è Skandha e non solo è inutile al raggiungimento del Nirvāņa ma ne è di ostacolo.

Duḥkhasamudaya: l’insieme delle molteplici forme del Duḥkha che assillano l’umanità, fisiche mentali, spirituali, morali.

Tṛṣṇa: la sete, ancestrale, inestinguibile, urgente e vitale che costringe l’umanità a cercare in ogni modo e maniera di placarla; l’origine primaria di ogni Duḥkha, la fugace illusione di aver trovato la pace e la felicità per poi accorgersi che è già fuggita via o che non è mai abbastanza; perenne fonte di sofferenza dovuta alla frustrazione. La Tṛṣṇa si distingue in tre diversi ordini principali: il Kāma, il desiderio, la bramosia, intesi nella più vasta accezione ma in special modo nella sfera erotica; il Bhava, l’affannoso e infinito rifarsi al ciclo delle rinascite nel vano tentativo di raggiungere una condizione di vita più agiata che, in ogni caso, provocherebbe soltanto di desiderarne una ancora migliore; il Vibhava, il termine indica generalmente il censo di un individuo e il conseguente status sociale, ma la Dottrina Bauddha lo adotta come il desiderio di morire e il conseguente venir meno all’esistenza di coloro che sono soggetti a gravi sofferenze. L’arrendersi alla vita, l’arrendersi alla morte, ancora una volta nella vana speranza di una più agiata rinascita ancorché senza alcun merito o della miracolosa liberazione dal Duḥkhasamudaya, cosa che può invece avvenire soltanto per il tramite dell’Illuminazione.

Tatra tatrābhinandinr: la vana ricerca di gratificazioni nella vita vagando or qui or là, l’inutile andar cercando qualcuno o qualcosa che dia un senso positivo all’esistenza.

Duḥkhanirodha: la cessazione del disagio che indica le modalità per porre fine all’inestinguibile Tṛṣṇa: Aśeşavirāganirodha, il non colorire la mente con gli oggetti del desiderio, il non essere più turbato, positivamente ma neanche negativamente, da ciò che prima era desiderato; Tyāga, la rinuncia, paragonata con questo termine all’atto che l’offerente fa rinunciando ad una sua proprietà per farne un offerta alla divinità, con la consapevolezza quindi che questa rinuncia è un atto positivo di generosità, nello specifico verso sé stessi.

Pratinisarga: la completa estromissione, il liberarsi definitivamente, l’alleggerirsi dal desiderio, lo spengersi della Tṛṣṇa. Nel linguaggio comune corrisponde all’evacuazione delle feci.

Mukti: lo scioglimento, il lasciar cadere come dimenticato ogni desiderio, sciogliere i legami che ci tengono stretti al rinnovarsi delle esistenze.

Anālaya: la non dimora dei propri sensi nei desideri e negli oggetti della propria bramosia, l’indolore allontanarsi dal Kāma.

Duḥkhanirodhagāminīpratipad: l’iter da seguire scrupolosamente per giungere al blocco del disagio, l’estinzione del Duḥkha che mena all’Illuminazione.

Āryaṣṭāṅġikamārga: la prassi ascetica che forma il Nobile Sentiero ad Otto Membra, l’Ottuplice Sentiero.

LE QUATTRO NOBILI VERITA’

GLOSSARIO CRONOLOGICO COMMENTATO DELLE QUATTRO NOBILI VERITA’

Āryasatya: Nobili Verità, gli Ārya sono il popolo, proveniente dalla valle dell’Indo, conquistatore del subcontinente indiano, definititi appunto nobili per il loro potere, economico e militare, nei confronti delle miserrime popolazioni indiane, sono loro i portatori dei Veda è nella loro cultura che gli indigeni vengono assorbiti divenendo i Sūdra, i servi, i fuori casta, gli intoccabili a cui è reso impossibile l’ascesa ad una Casta, per quanto misera possa essere. L’appellativo Ārya diviene nella cultura Hindù l’aggettivo che non solo indica la nobiltà di Casta ma addirittura anche la nobiltà morale e spirituale la vittoria definitiva degli invasori del subcontinente indiano.

Dharma: la Dottrina Bauddha così la chiama Siddhārta rifacendosi alla regola di vita del culto Hindù che è allo stesso tempo l’equilibrio universale capace di far sì che tutto sia e continui ad essere. È Dharma anche il dovere del fedele di attenersi alla Dottrina e alle sue regole per impedire che l’equilibrio universale muti in caos.

Dharma: la regola della Dottrina Bauddha, allo stesso modo questo appellativo di origine Hindù viene utilizzato anche per indicare le regole Bauddha. Assume qui una forma non imperativa ma più quella di un consiglio, non un obbligo, al trasgredire del quale si incorra in sanzioni, punizioni o castighi divini ma il suggerimento e il monito di quanto possa accadere qualora il Dharma perda il proprio equilibrio, parafrasando ed estendendo il Trappista “Memento mori” diviene: ricorda il caos in cui l’universo tutto può sfociare a causa delle tue azioni; più di ricordati che devi morire e quindi è inutile che tu compia cattive azioni tanto muori lo stesso ma ricordati che le tue cattive azioni mandano al caos l’intero Universo.

Dharma: le entità esistenti che sottostanno alla Dottrina Bauddha, tutto ciò che definibile e a contatto con l’esistenza prende lo stesso appellativo della regola in quanto ne sottostà. Ogni cosa diviene Dharma perché tutto deve rimanere in equilibrio, è il Dharma che tutto articola che è Dottrina, è il Dharma che articola in modo che l’Universo sfugga al caos che è regola, è il Dharma che viene articolato e regolato al fine di mantenere perenne l’equilibrio che è entità. Tutto è Dharma perché è il Dharma che si articola e si regola da sé stesso, per sé stesso, per il proprio universale equilibrio in una visione animista dell’Universo ancor più consistente e concreta in una filosofia in cui ogni atomo che si compone e si ricompone senza fine agisce spinto dal Dharma a comporre e ricomporre affinché l’equilibrio non muti e il Dharma esista.

Duḥkha: il disagio esistenziale, il malessere umano insormontabile, l’invincibile avversario della Via della Salvezza, che solo con la corretta pratica può essere volto al nulla per divenire nel Nirvāņa. La traduzione del termine riporta ad un asse che gira male nel mozzo, dus, di una ruota, kha. In antitesi a questo, a seguito del discorso tenuto al Parco dei Cervi di Benares, Siddhārta Gautama mette in moto la Ruota del Dharma, Dharmacakra, rendendo possibile il superamento del Duḥkha. Il Dukkha è il continuare a vivere credendo vanamente di poter trovare nell’esistenza anche la beatitudine, è l’agire credendo vanamente di poter trovare nell’esistenza anche la beatitudine e il pregare credendo vanamente di poter trovare nell’esistenza anche la beatitudine e non comprendere che la beatitudine non può esistere nella vita ma solo nella consapevolezza che la beatitudine non può esistere nella vita e distaccarsene è la via per allontanarsi dal Dukkha.

Śoka: l’angosciarsi a causa del disagio esistenziale, una delle tante inutili attività in cui l’umanità si perde anziché affrontarle. Porsi domande per trovare soluzioni che non possono essere rinvenute in quanto la stessa esistenza è fonte di angoscia e diviene vano preoccuparsi di qualcosa che è fonte di preoccupazione quando l’unica via è distaccarsene per allontanarsi dal Dukkha e intraprendere la via per l’illuminazione.

Parideva: l’andarsene intorno lamentandosi del disagio esistenziale, il tipicamente umano e ancora una volta inutile lamentarsi, come se ciò che accade sia colpa di qualcun altro, invece di reagire. Quando l’angoscia non è più sufficiente e nel consumarsi in essa non si trova più la deprimente soddisfazione dell’autocommiserazione, il lamentarsi diventa necessario per non implodere e coinvolgere tutti gli altri, magari tentando di trovarvi la fonte del disagio e magari credendo che la loro eliminazione possa porre fine all’angoscia e magari coinvolgere tutti gli altri nella vana ricerca di soluzioni che non possono essere rinvenute, in quanto la stessa esistenza è fonte di angoscia e diviene vano preoccuparsi di qualcosa che è fonte di preoccupazione, quando l’unica via è distaccarsene per allontanarsi dal Dukkha e intraprendere la via per l’illuminazione.

Daurmanāsya: i cattivi pensieri, il disagio mentale intesi non nel senso di progetti di cattive azioni ma dell’arrendersi all’esistenza. Tutti quegli atti derivanti dall’angoscia e dal lamentarsi, dall’incolparsi e dall’incolpare, dal desiderare la fine della propria esistenza o di quella degli altri. La consapevolezza disperata che non possono essere rinvenute soluzioni in quanto la stessa esistenza è fonte di angoscia e diviene vano preoccuparsi di qualcosa che è fonte di preoccupazione quando l’unica via è distaccarsene per allontanarsi dal Dukkha e intraprendere la via per l’illuminazione.

Upāyāsa: la frustrazione che deriva da tutte le inutili azioni messe in campo lamentandosi e disperandosi invece di agire. Ma si continua ad angosciarsi e a lamentarsi e a sentirsi impotenti nell’affrontare e superare le angosce dell’esistenza, il disagio della consapevolezza disperata che non possono essere rinvenute soluzioni in quanto la stessa esistenza è fonte di angoscia e diviene vano preoccuparsi di qualcosa che è fonte di preoccupazione quando l’unica via è distaccarsene per allontanarsi dal Dukkha e intraprendere la via per l’illuminazione.

Samprayoga: la comunione di vita, nella sua accezione negativa di subirla con il non amato, l’essere costretti a condividere tempi della vita con persone non di nostro gradimento. Il disagio che si prova nel dovere trascorrere la propria esistenza con persone che non sono amate, anche in senso non erotico: vicini di casa, colleghi di lavoro, la persona seduta accanto a noi; il disagio che non ci sia una risposta e un’azione da compiere alla domanda: perché devo stare qui? In quanto neanche andarsene fa cessare il disagio di esserci stati.

Viprayoga: la lontananza dall’amato, vissuta come disperata mancanza di qualcosa. Il disagio che si prova nel non potere trascorrere la propria esistenza con persone amate, anche in senso non erotico: l’amato, i genitori, gli amici, una persona incontrata per caso; il disagio che non ci sia una risposta e un’azione da compiere alla domanda: perché devo stare lontano? In quanto neanche l’incontro farebbe cessare il disagio di esser stati lontani.

Duḥkhaduḥkha: il disagio per i disagi dovuti all’esperienza di vita, il lasciarsi aggredire dal disagio di non saper affrontare i disagi. La pura disperazione, il vortice in cui si viene trascinati dalla continua e inutile ricerca di soluzioni per avere mentre l’unica possibilità e non desiderare più.

Vipariṉāmaduḥkha: il disagio per le alterazioni dei piaceri per il quale ci si rende conto di quanto siano effimeri, appena colti svaniscono lasciando il posto a nuove bramosie senza mai giungere ad una vera e propria soddisfazione. Perché la comunione di vita con il non amato si ripresenterà continuamente

L’OTTUPLICE SENTIERO

GLOSSARIO CRONOLOGICO DIDASCALICO DELL’OTTUPLICE SENTIERO

Āryaṣṭāṅġikamārga: la prassi ascetica che forma il Nobile Sentiero ad Otto Membra, l’Ottuplice Sentiero.

Samayagdṛṣṭi; il primo obiettivo/effetto dell’Ottuplice sentiero, la Veduta Appropriata.

Dṛṣṭi; l’antitesi del Samayagdṛṣṭi, la veduta erronea.

Artha: lo scopo del Dharma.

Dṛṣṭiprāpta: colui che ha raggiunto l’obiettivo della Veduta Appropriata.

Śrotāpanna: il giunto nella corrente del Dharma; colui che pur avendo raggiunto l’obiettivo della Veduta Appropriata, muore ma per il risultato ottenuto rinascerà ancora solo sette volte prima di elevarsi al Nirvāṇa.

Samyaksaṃkalpa: la Decisione Appropriata di abbandonare il ciclo delle rinascite.

Lobha: l’avidità, dalla quale ci si deve astenere.

Dveşa: la malevolenza.

Moha: l’ignoranza intellettuale.

Samyagvāc: la Parola Appropriata.

Samyakkarman: l’Azione Appropriata.

Ahiṃsā: la non violenza, precetto del Samyakkarman.

Samyagājīva: i Mezzi di Sussistenza Appropriati.

Samyaguyāyāma: lo Sforzo Appropriato.

Samyaksmṛti: l’Attenzione Appropriata.

Dharmalakşana: le caratteristiche delle entità in genere su cui soffermare con lucido distacco la Samyaksmṛti: impermanenza, assenza di Ātman, assenza di Duḥkha, vacuità.

Nīvāraṇa: i cinque fattori di impedimento alla meditazione Dhyāna.

Kāmachandas: il desiderio del piacere.

Vyāpāda: la malevolenza.

Uddhatva: l’eccitazione.

Auddhatya: il senso di colpa.

Māna: l’orgoglio.

Dhyāna: i quattro stati meditativi di coscienza.

Upacārasamādhi: lo stato di concentrazione di saluto e omaggio che rende possibile l’approssimarsi alla meditazione.

Vitarka: l’attenzione verso l’oggetto della meditazione.

Vicāra: l’andirivieni mentale verso l’oggetto della meditazione.

Prīti: il diletto derivante dalla meditazione.

Sukha: il bell’agio derivante dalla meditazione.

Ekāgrāta: l’incentramento in un sol punto durante la meditazione allo stato del secondo Dhyāna.

Adhyātmasamprasādana: l’intima serenità raggiunta con la meditazione.

Upekşa: lo sguardo distaccato verso l’oggetto della meditazione allo stato del terzo Dhyāna.

Smrti: l’attenzione.

Samprajñāna: la perfetta consapevolezza dell’oggetto della meditazione.

Saumānasya: il rilassamento mentale della meditazione che si abbandona allo stato del quarto Dhyāna.

Daurmānasya: la tensione mentale della meditazione che si abbandona allo stato del quarto Dhyāna.

Pariśuddhi: la purezza che circonda il meditante in questo stato di meditazione.

Abhijñā: le peculiarità di super conoscenza raggiungibili allo stato del quarto Dhyāna.

Siddhil: i superpoteri materiali derivanti dalla prima Abhijñā.

Ṛddhi: gli stati di prosperità psichica derivanti dalla prima Abhijñā.

Divyaśrotas: l’Orecchio Divino, la chiaroaudizione.

Divyacakşus: l’Occhio Divino, la chiaroveggenza.

Bodhi: la comprensione liberatrice a cui si può accedere da tutti e quattro i Dhyāna, la conoscenza.

Āsrava: gli input Karmici il cui accumularsi porta ad attendere al ciclo delle rinascite.

Āsravakşayajñāna: il disseccamento, l’esaurimento degli Āsrava.

Saṃvara: l’occlusione dovuta al deposito Karmico.

Karman: l’azione, l’ente causa del ciclo delle rinascite.

Akarman: l’inattività, la non azione principe che porta all’interruzione delle rinascite.

Sāsrava: gli enti a cui si accompagnano Āsrava.

Anāsrava: gli enti cui non si accompagnano Āsrava.

Akuśalamūla: le tre radici dell’imperizia: Lobha, Dveşa e Moha.

Kuśala: Karman positivi.

Akuśala: Karman negativi.

Kāmasrava: gli Āsrava derivanti dalla brama.

Bhavāsrava: gli Āsrava derivanti dall’esistenza.

Avidyāsrava: gli Āsrava derivanti dall’ignoranza.

Samyaksamādhi: la Concentrazione Appropriata il culmine dell’Ottuplice Sentiero.

Samāpatti: l’incontro, il completamento dell’attenzione.

Āyatana: i quattro livelli di Ārūpyadhātu.

Ārūpyadhātu: lo stato di assenza di forme.

Rūpasaṃjñā: la coscienza della forma materiale abbandonata dal meditante.

Nānātva: la molteplicità della forma materiale a cui il meditante non bada più.

Ākāśa: lo spazio occupato dall’oggetto supporto della meditazione, ormai non più esistente.

Ananta: l’infinito percepito dal meditante dell’Ākāśa.

Ākāśanantyāyatana: lo stadio di infinità dello spazio attinto dal meditante.

Vijñāna: la conoscenza riflessa dell’infinità dello spazio occupato dall’oggetto supporto della meditazione, ormai non più esistente.

Vijñānanantyāyatana: lo stadio di infinità della consapevolezza.

Abhāva: l’abbandono dell’infinità della consapevolezza.

Bhāva: la presenza della consapevolezza.

Śūnyatā: la vacuità evocata in sostituzione della consapevolezza.

Viviktākāra: la non considerazione della consapevolezza come oggetto proprio.

Ākiṃcanyāyatana: lo stadio del non v’è alcunché.

Naivasaṃjñānāsaṃjñāyatana: né al tutto esperienza né inesperienza il culmine della pratica, il venire meno dell’esser consapevole di alcunché.

Nirvāṇa: lo stato a cui si addiviene con l’illuminazione, la cessazione dell’esistenza, la non più esistenza, l’inesistenza, la mai esistenza.

L’OTTUPLICE SENTIERO

GLOSSARIO CRONOLOGICO APPROFONDITO DELL’OTTUPLICE SENTIERO

Āryaṣṭāṅġikamārga: la prassi ascetica che forma il Nobile Sentiero ad Otto Membra, l’Ottuplice Sentiero. Un percorso a tappe che può essere anche ripreso nelle vite che verranno qualora la morte sopraggiunga lungo il tragitto; lo stato ascetico raggiunto con estrema dedizione e fede nel risultato finale, riuscendo mano a mano a trascendere tutto ciò che v’è di mondano, non rimane un inutile fatica ma si rivela nella vita successiva come base per l’ascesa al Nirvāṇa.

Samayagdṛṣṭi; il primo obiettivo/effetto dell’Ottuplice sentiero, la Veduta Appropriata. È la conoscenza cosciente delle Quattro Nobili verità, dapprima appresa e compresa viene successivamente assimilata e attenzionata in modo tale che il Dharma acquista evidenza e diventa naturale attenervisi. La prassi recita: “Avendo udito il Dharma, vi sofferma l’attenzione, dei Dharma su cui l’attenzione e soffermata indaga ogni risvolto il senso e lo scopo, per lui che indaga il senso i Dharma acquistano evidenza e forza di convinzione, essendovi evidenza dei Dharma, sorge l’impulso ad attenervisi”. È la stessa pratica che nell’essere praticata diventa ovvia regola di vita.

Dṛṣṭi; l’antitesi del Samayagdṛṣṭi, la veduta erronea. La mancata consapevolezza delle Quattro Nobili Verità o anche il solo non ricercarle, porta in modo naturale ad allontanarsi dal Dharma e a perpetuare quell’attaccamento al mondano che obbiettivamente ha come ovvia conseguenza il continuare a produrre Duḥkha.

Artha: lo scopo del Dharma. La comprensione del fine ultimo del Dharma che è quello di mostrare come la pratica che via via si fa sempre più complicata ma allo stesso tempo più semplice, se correttamente attuata, sia in grado di elevare dal mondano produttore di Duḥkha.

Dṛṣṭiprāpta: colui che ha raggiunto l’obiettivo della Veduta Appropriata. La comprensione del Dharma e della via indicata come unica possibilità di abbandonare l’infimo ciclo di rinascite.

Śrotāpanna: il giunto nella corrente del Dharma; il Dṛṣṭiprāpta anche se soltanto all’inizio del Nobile Sentiero ha attinto la Veduta Appropriata, è di per sé già in uno stato di conoscenza elevato, non ha approfondito, non ha lungamente praticato ma ha consapevolmente compreso quale sia la via e non la potrà più abbandonare e qualora dovesse morire, grazie al risultato conoscitivo ottenuto rinascerà ancora solo sette volte prima di elevarsi al Nirvāṇa.

Samyaksaṃkalpa: la Decisione Appropriata di abbandonare il ciclo delle rinascite. È uno stato fondamentale perché la decisione di inoltrarsi nel Nobile Sentiero è in fondo l’ultima tentazione, ancora aleggia nell’aria il profumo di quei brevi, fuggevoli, effimeri momenti di piacere materiale per i quali forse ancora la vita vale la pena di essere vissuta e per questo solo una pia pratica porta alla ferma decisione di abbandonare il ciclo delle rinascite, nessuna effimera gioia potrà mai competere con l’eterno abbandono del Duḥkha.

Lobha: l’avidità, dalla quale ci si deve astenere. Il voto solenne di abbandonare in futuro la brama materiale che mai può essere soddisfatta e che si nutre di sé stessa portando solo pesante e infinito Duḥkha.

Dveşa: la malevolenza. Un’altra umana comune attività che viene aborrita e solennemente bandita dal praticante nell’elevarsi alla Decisione Appropriata.

Moha: l’ignoranza intellettuale. L’offuscamento della mente, la non conoscenza, il non impegno nella conoscenza, il dubbio che ostacola la presa definitiva inconscia di abbandonarsi al Dharma ormai riconosciuto come unico strumento capace di porre fine al Duḥkha. La Decisione Appropriata arriva nel momento in cui si abbandonano tutte queste quotidiane e umane attività liberandosi della loro inutilità. L’importanza di questa fase si manifesta nel fatto che lo Śrotāpanna che dovesse morire dopo aver perfezionato la Decisione Appropriatà rinascerà solo un’altra volta prima di elevarsi al Nirvāṇa.

Samyagvāc: la Parola Appropriata. Il non utilizzo della parola per il nocumento altrui. Il precetto si esprime ancora una volta con l’astensione da atti perpetuabili, questa volta con il linguaggio, preludio al non fare, non dire il falso e non seminare zizzania, non rivolgersi con fare scortese o intrattenersi in futili conversazioni. Questi Comandamenti invitano fin dall’inizio il praticante che non è il fare qualcosa che può portare beneficio al viaggio intrapreso ma proprio il non fare qualcosa, abituandolo al progressivo abbandono di ogni azione.

Samyakkarman: l’Azione Appropriata. Andando avanti nel Sentiero si affrontano situazioni che possono apparire sempre più difficili da attuare, può sembrare semplice astenersi dal dire e ben più complicato astenersi poi dal fare ma quanto già ricordato nel primo precetto rende il praticante sempre più lontano dal mondano e quello che poteva apparire impervio prima di aver cominciato diventa di volta in volta naturale, e solo così può essere raggiunto, quando la Veduta, la Decisione e la Parola sono ormai Appropriate in quale altra via potremmo mai addentrarci se non in quella dell’astenersi da azioni produttrici di Duḥkha che sempre meno ci appartengono.

Ahiṃsā: la non violenza, è il precetto fondamentale del Samyakkarman, l’astenersi da azioni cruente, non uccidere ma non essere neppure il mandante né approvare tale atto; istigare al suicidio, l’aborto, ma anche azioni che possono apparire meno gravi quali il non appropriarsi di ciò che non viene dato e l’astenersi da illecite gratificazioni sessuali, questo comporta inquadrare la sfera femminile in ben delineati e determinati ambiti, quando queste non sono mogli si deve mantenere lo stesso comportamento che, a seconda della loro età, si avrebbe con figlie, madri o sorelle.

Samyagājīva: i Mezzi di Sussistenza Appropriati. Anche se diventa sempre più complicato avere una vita sociale attiva nell’addentrarsi lungo il sentiero, non è vietato continuare ad averne una e non è necessario rinchiudersi in un monastero, se il praticante è in grado può continuare la sua consueta attività di vita purché questa sia Appropriata; ancora il non fare diventa ormai lo strumento di inattività che sempre più rende capaci di continuare nel percorso, non esercitare commerci nocivi come quello delle armi, della carne, di alcoolici, droghe, veleni e meno che mai di esseri viventi; non praticare l’usura, non dedicarsi all’illusionismo o alla predizione del futuro né a tutte le attività basate sull’inganno.

Samyaguyāyāma: lo Sforzo Appropriato. Lo stato raggiunto a questo punto dal praticante ha ormai coperto con il non fare ogni attività sociale e questo è un risultato che non può essere perduto, occorre a questo punto concentrarsi sullo sforzo ascetico di fiducia nel Dharma affinché non venga meno il risultato ottenuto, nella pratica questo impone un Appropriato comportamento e un Appropriato sentire che portino a evitare l’insorgere di vizi non ancor sorti e all’abbandono dei vizi esistenti onde propiziare l’insorgere di virtù ancora non sorte e conservare e perfezionare le virtù già sorte.

Samyaksmṛti: l’Attenzione Appropriata. Il settimo passo all’interno del Sentiero porta il praticante ad una fase di continua meditazione e ascesi attraverso la quale si sofferma con lucido distacco su quattro ordini di oggetti: gli eventi corporei, le sensazioni passive, gli eventi mentali e gli enti in genere. Un incessante esercizio consapevole dell’attenzione sui messaggi sensoriali e del pensiero isolando progressivamente l’oggetto da qualsiasi associazione fino a farlo scomparire e a far scomparire lo spazio che lo ospitava. L’apice della pratica porta ai quattro stati meditativi di coscienza i Dhyāna.

Dharmalakşana: le caratteristiche delle entità in genere su cui soffermare con lucido distacco la Samyaksmṛti: l’impermanenza, la non eternità, la base del non essere più, non essere stati fino al non essere mai stati; l’assenza di Ātman l’impersonalità dell’essenza umana, non v’è un anima che è costretta alla continua rinascita ma è il non equilibrio universale causato al Dharma che si ripresenta in nuove entità messe alla prova nella ricerca del niente che riequilibri lo stato di Dharma universale; assenza di Duḥkha l’abbandono del disagio sotto ogni sua forma e possibilità di poter inficiare il percorso; la vacuità di ogni azione materiale e mondana attuata per il raggiungimento di quella beatitudine tangibile che non può essere ottenuta con la vita ma solo con l’abbandono definitivo del concetto di ogni vita possibile e non essere più, non essere stati, non essere mai stati.

Nīvāraṇa: i cinque fattori di impedimento alla meditazione Dhyāna. Giunti al settimo livello del Nobile Sentiero si intraprende un nuovo percorso che richiede uno stato di meditazione sempre più elevato nella concentrazione, come in tutto il viaggio ogni passo compiuto e assimilato rende agevole l’approccio al passo successivo ma mai deve venire meno l’obbiettivo e soprattutto la consapevolezza dei mezzi e dei modi per proseguire. La mente deve essere sempre più scevra da tutto ciò che ancora ci possa tenere nel sicuro ed effimero rifugio del mondano. Diventa così inevitabile lasciarsi indietro tutti quei fattori che ancora possono influenzare negativamente ogni pensiero, quotidiano e meditativo. Questi sono il Kāmachandas, il lieto desiderio del piacere, che sia quello onnipresente erotico ma qui inteso come ogni tipo di piacere che si possa desiderare di provare con tutti e cinque i sensi, paragonato all’incancellabile ricordo di un debito che ci tormenta; la Vyāpāda, la malevolenza, che sia rivolta verso altre persone ma anche oggetti, ossessionante come un’infermità cronica; l’Accidia, considerata come un carcere che imprigiona il meditante; l’Uddhatva, l’eccitazione unita all’antonimo Auddhatya, il senso di colpa che dipendono dal Māna, l’orgoglio che nel suo innalzarsi e scomparire da luogo alle due contrastanti sensazioni, vista come schiavitù e per ultimo il dubbio, l’ultimo dei fattori di impedimento alla meditazione Dhyāna, nel Bauddha, nel Dharma, nella prassi che ne deriva e nella stessa pratica il cui paragone è emblema dell’estrema complicatezza della via che mena all’illuminazione, considerandolo come il disorientamento del viaggiatore che si perde nel deserto senza aver più alcun punto di riferimento, cadere in questo stato è il preludio alla più tormentosa disperazione. Il giungere, comunque, a questo stato liberato di meditazione comporta la possibilità di rinascere ancora solo due o tre volte prima di elevarsi al Nirvāṇa.

Dhyāna: i quattro stati meditativi di coscienza a cui ci si approccia dopo aver superato, anche solo temporaneamente i Nīvāraṇa. Una volta sedati i fattori di impedimento ci si accinge allo stato meditativo per il tramite dell’Upacārasamādhi, lo stato di raccoglimento, di saluto e omaggio che rende possibile la concentrazione necessaria alla meditazione, attraverso il Vitarka l’attenzione verso l’oggetto della meditazione che permette la permanenza nello stato meditativo necessario anche attraverso il Vicāra, quell’andirivieni mentale verso l’oggetto della meditazione che innalza stordendo, elevando dal materiale dell’oggetto stesso. Lo stato raggiunto permette di sperimentare la Prīti, il diletto derivante dalla meditazione, che ci invita a dimenticare il materiale dell’oggetto stesso, paragonato alla vista di un’oasi nel deserto e il Sukha, quel bell’agio derivante dalla meditazione, la beatitudine di uno stato di incoscienza calmo e lucido che diviene il crogiolarsi nella freschezza dell’ombra trovata nell’oasi ormai raggiunto il primo stadio del Dhyāna. Nel secondo stadio del Dhyāna, definito il Nobile Silenzio, si abbandonano gli stati meditativi del Vitarka e del Vicāra avendo ormai maturato la consapevolezza dei loro difetti e delle loro mancanze e ci si applica nell’Ekāgrāta, l’incentramento in un sol punto della concentrazione nella meditazione, tipico della pratica Yoga, che porta al godimento dell’Adhyātmasamprasādana, quell’intima serenità raggiungibile solo con una energica e trasportante meditazione che inspira ed evoca nel meditante la fiducia indiscussa e indiscutibile nel successo della pratica intrapresa. Approcciandosi al terzo stadio del Dhyāna si riconoscono le imperfezioni della Prīti abbandonandola e si mantiene lo stato di Sukha ottenuto però con l’Upekşa, lo sguardo distaccato verso l’oggetto della meditazione e con la Smrti, l’attenzione e la memoria a cui si aggiunge la Samprajñāna, la perfetta consapevolezza dell’oggetto della meditazione quasi a unirsi e a scindersi contemporaneamente da esso. L’approfondimento della meditazione porta a disdegnare anche il Sukha che ormai appare insufficiente e sempre più associabile anch’esso al Duḥkha e per il tramite dell’abbandono del Saumānasya, il rilassamento mentale della meditazione e del Daurmānasya, la tensione mentale della meditazione si approda al quarto Dhyāna. Questo stato di meditazione è ancora accompagnato da Upekşa, Smrti e Ekāgrāta a cui si aggiunge la sensazione della Pariśuddhi, la purezza che circonda il meditante in questo stato sempre più estatico di meditazione. All’acme del raccoglimento la mente diviene capace di lucida attenzione e nel contempo, di distacco, questa condizione, ripetutamente raggiunta in più meditazioni così profonde da raggiungere ogni volta il quarto Dhyāna, la rende atta ad assumere stati fisici diversi senza alcuno sforzo conquistando la peculiarità della Abhijñā.

Abhijñā: la meditazione estatica ripetuta concede al meditante il dono della super conoscenza attraverso la quale si possono ottenere e manifestare dei superpoteri paranormali quali i Siddhil, i superpoteri materiali e i Ṛddhi, gli stati di prosperità psichica, entrambi derivanti dalla prima Abhijñā, questi sono: la bi- o poli- locazione, essere contemporaneamente in due o più luoghi diversi; l’invisibilità; la capacità di passare attraverso muri ed ogni altro ostacolo materiale; lo sprofondare ed emergere dalla terra, con la stessa facilità con cui lo si fa con l’acqua; il camminare sull’acqua, come se questa fosse terra; la levitazione, il levarsi in aria alleggeriti dal peso del mondano; la capacità di estendere il proprio corpo fino a poter toccare la luna e addirittura il sole; il trasferimento istantaneo del proprio corpo fisico in qualsiasi altro luogo, fino addirittura al mondo di Brahmā. La seconda Abhijñā conferisce il Divyaśrotas, l’Orecchio Divino, la chiaroaudizione che permette di udire anche contemporaneamente i suoni provenienti da ogni parte, compreso il mondo degli déi. La terza Abhijñā permette di accedere ai pensieri altrui. La quarta Abhijñā permette l’accesso ai ricordi delle vite precedenti procedendo a ritroso come a ripercorrere gradualmente gli stati fisici passati. La quinta Abhijñā rende possibile il Divyacakşus, l’Occhio Divino, la chiaroveggenza, la capacità di vedere la realtà delle cose senza i filtri dovuti alla presenza nel mondano. La sesta Abhijñā, raggiungibile da qualsiasi stato di Dhyāna è la Bodhi.

Bodhi: la comprensione liberatrice a cui si può accedere da tutti e quattro gli stati di Dhyāna, la conoscenza, la comprensione, quel flash improvviso che rende capace il meditante di comprendere quale sia la modalità per il disseccamento, l’eliminazione per consunzione, degli Āsrava.

Āsrava: gli input Karmici il cui continuo accumularsi, come un deposito di acqua putrida che passa attraverso canali porosi, aperti dalle azioni compiute, porta ad attendere al ciclo delle rinascite; la solida conseguenza delle azioni negative eseguite che si accumula e che dopo la morte senza Illuminazione di colui che le ha prodotte sola si ripresenta nella vita del malcapitato a cui toccherà subirne le conseguenze e agire o meglio non agire per eliminarle disseccandole per mezzo dell’Āsravakşayajñāna, il disseccamento, l’esaurimento degli Āsrava, essenza non vivente, che si è depositata filtrando come acqua sporca nel vivente, attraverso le porosità causate dalle azioni errate del Kāyayoga le azioni corporee, del Vacanayoga, le azioni vocali e del Manoyoga, le azioni mentali. Lo scorretto attuare ogni azione comporta l’aumento dell’accumulo producendo così il Saṃvara, l’occlusione dovuta al deposito Karmico. Il Karman è materialmente la non corretta azione compiuta, che produce l’Āsrava, è l’ente principale a causa del ciclo delle rinascite, ogni azione contribuisce ad aumentarne il deposito che si fissa come resina appiccicaticcia, il Kāşāya. Il Karman però non è solo negativo, la corretta azione, quella compiuta attenendosi alle Quattro Nobili Verità e seguendo il percorso dell’Ottuplice Sentiero comporta quella dose di Karman positivo che contribuisce a sciogliere i depositi Karmici e ad occludere le porosità in modo da non impedire nuova penetrazione di flussi di Āsrava. Dato che i principali precetti delle Quattro Nobili Verità e dell’Ottuplice Sentiero però sono divieti di compiere determinate azioni, fisiche vocali e mentali, la più opportuna azione, che sicuramente porta all’Āsravakşayajñāna è l’Akarman, l’inattività, la non azione principe che favorisce il disseccamento dei depositi e porta all’interruzione delle rinascite. Nel Dharma più antico si potevano individuare i Sāsrava, gli enti a cui si accompagnano Āsrava e gli Anāsrava, gli enti cui non si accompagnano Āsrava, ovverosia azioni che comportavano l’accumulo di Karman e azioni che invece non ne provocavano. La capacità o la possibilità di produrre o meno Karman derivava dall’Akuśalamūla, le tre radici dell’imperizia, Lobha, Dveşa e Moha, la cui assenza nell’origine dell’azione compiuta porta alla produzione di Kuśala, i Karman positivi mentre laddove fossero state l’origine o la spinta o il mezzo per compiere l’azione, queste avrebbero portato gli Akuśala, i Karman negativi. L’origine di questi termini deriva dalla manipolazione di un’erba molto tagliente chiamata Kuśa utilizzata per i riti Veda, per cui Kuśala erano coloro che erano capaci di maneggiarla senza ferirsi, mentre Akuśala erano quelli che la maneggiavano maldestramente ferendosi; di conseguenza Kuśala divengono quelli che sono capaci di attenersi al Dharma e Akuśala coloro che non sono capaci o magari non vogliono attenersi al Dharma. Le azioni provocanti gli Āsrava vengono classificate a seconda della loro origine in Kāmasrava, quelli derivanti dalla brama, Bhavāsrava, semplicemente derivanti dalla sola esistenza e gli Avidyāsrava, quelli derivanti dall’ignoranza. Il concetto di Āsrava era però molto legato ad una primigenia concezione materialistica del Karman e addirittura ad una coscienza materiale nel ciclo delle rinascite, tanto che la ricostruzione sopra esposta proviene in realtà dal culto Jaina la cui contemporanea nascita ha comportato collusioni, plagi e interpolazioni che hanno spesso impedito di poter verificarne l’esatta attinenza ed esistenza nelle vere origini, nel Bauddha viene subito abbandonata per la più attinente visione impersonale dell’ente Karmico che si rialloggia in una nuova ma diversa vita, versione che più si si allinea ai concetti generali della Dottrina e che più precisamente la completa, rimane comunque fastidiosamente ancora presente solo in quanto parte delle scritture originarie.

Samyaksamādhi: la Concentrazione Appropriata il culmine dell’Ottuplice Sentiero; il significato letterale del termine ne evidenzia le motivazioni e le modalità per il raggiungimento, il suffisso Samādhi indica la riconciliazione dell’attenzione verso l’oratore partendo da una estremità distante ove vagava dispersa, come dispersa vaga l’umanità ignara di poter ambire all’illuminazione che viene improvvisamente attratta dal Dharma. Il conseguimento della Concentrazione Appropriata è ottenuto attraverso le quattro Samāpatti, l’incontro, il completamento dell’attenzione che corrispondono ai quattro Āyatana, i livelli dell’Ārūpyadhātu, lo stato di assenza di forme. La discesa nella meditazione ha, nel suo corso, favorito la comprensione dei difetti dell’esteriorità dell’oggetto facilitando l’emergere della Rūpasaṃjñā, la coscienza della forma materiale meditata che viene così più facilmente abbandonata dal meditante, insieme alla Nānātva, la molteplicità delle forme materiali dell’oggetto a cui ormai il meditante non bada più. Quello che rimane dopo aver cancellato l’esteriorità dell’oggetto è nient’altro che l’Ākāśa, lo spazio anzi occupato dall’oggetto supporto della meditazione, ormai non più esistente, che non più delimitato dalle forme possibili si configura nell’Ananta, l’infinito percepibile dal meditante, raggiungendo lo stadio dell’Ākāśanantyāyatana, quello dell’infinità dello spazio ormai liberato dai confini della forma. Per il tramite della presa di coscienza dell’imperfezione anche di questa infinità spaziale il meditante raggiunge il Vijñāna, la conoscenza riflessa dell’infinità dello spazio occupato dall’oggetto supporto della meditazione, ormai non più esistente, anche se permane ancora un’aura che ne testimonia la precedente presenza in forma materiale. La filosofia occidentale affermerebbe che l’oggetto esiste perché lo sto guardando. L’infinità spaziale è a questo punto percepita come espansa in ogni direzione confermando lo stadio di infinità della consapevolezza raggiunto, il Vijñānanantyāyatana. Nel Mahāyāna si arriva addirittura ad affermare che tutto è Vijñāna, pura illusione, il Vijñānamātratā. Quest’infinità spaziale rimane però ancora consapevolezza di una rappresentabilità per cui il meditante, nell’estaticità della meditazione abbandona il Bhāva, la presenza della consapevolezza per il tramite della pratica dell’Abhāva, liberandosi infine dell’infinità della consapevolezza, ultimo baluardo di materialità, sostituendola con la Śūnyatā, la vacuità evocata in sostituzione della consapevolezza o con la Viviktākāra, la non considerazione della consapevolezza come oggetto proprio. Questo estremo stato di esaltazione meditativa porta infine allo stadio dell’Ākiṃcanyāyatana, la sussistenza del non v’è alcunché, infine il nulla, che comunque appare ancora influenzato dall’origine che un tempo fu una forma ed è quindi necessario che anche questo alcunché, ancorché semplicemente un nulla, venga meno, affondando ciò che fu oggetto nella nuda quiete di un’attenzione a uno stadio di dormiente oblio, la Naivasaṃjñānāsaṃjñāyatana, né al tutto esperienza né inesperienza il culmine della pratica, il venire meno dell’esser consapevole di alcunché, ancor più inconcepibile ad una mente occidentale dell’inflazionata “l'unica cosa che so è di non sapere” di Socrate. Il meditante è a questo punto tutt’uno con la più profonda ignoranza del tutto, non conosce, non sa, non sa di esistere e quindi, infine, non esiste, non esiste al Nirvāṇa, lo stato a cui definitivamente si addiviene con l’illuminazione; la cessazione dell’esistenza, la non più esistenza, l’inesistenza, la mai esistenza. Quest’ultimo ciclo di progressione all’interno della meditazione fa in realtà parte della cultura Indiana e dello Yoga in particolare, tanto che è pacifico che il Buddha abbia appreso le pratiche capaci di addivenire al Dhyāna e di sviluppare la Samāpatti da precedenti Maestri, nei tanti vani tentativi di raggiungere con sacrificio l’illuminazione, ma la peculiarità del Dharma sta nell’Āsravakşayajñāna ottenibile soltanto per il tramite della comprensione intima delle Quattro Nobili Verità che permette di interrompere infine il ciclo delle rinascite addivenendo alla Vimokşa o Vimukti, la completa liberazione.

Nei testi Bauddha si fa forte la necessità dell’addivenire al non v’è alcunché tanto da inserire una disquisizione fra il Maestro e un monaco sulla consistenza del Nirvāṇa che risulta essere, per la costruzione linguistica, palesemente un’interpolazione, ciò non toglie valore all’affermazione ma ne determina invece la postuma comprensione del messaggio del Dharma. “V’è, oh Bhikşu quello stato di assenza di forme ove non sono né terra, né acqua, né igneo fulgore, né vento, né stadio dell’infinità dello spazio, né stadio dell’infinità della consapevolezza, né stadio del non v’è alcunché, né stadio ove non si dà né al tutto esperienza né inesperienza, né questo mondo, né l’altro mondo, né la coppia di Luna e sole. Quello io, oh Bhikşu, né invero venuta dico, né andata, né perdurare, né venir meno, né venire in essere: non fondato, non messo in moto, senza inizio invero è Quello. Esso solo è la fine del Duḥkha. V’è oh Bhikşu, un Non nato, Non venuto in essere, Non fatto, Non composto. Ove non vi fosse Quello, oh Bhikşu, ove non vi fossero un Non nato, Non venuto in essere, Non fatto, Non composto, invero da questo mondo nato, venuto in essere, fatto, composto, non vi sarebbe e non si conoscerebbe uscita”. Il Nirvāṇa non può che essere questo non essere, altrimenti tutto sarebbe senza senso. Il grande dilemma di ogni religione.

 

Mentre nella filosofia Hindù e nel Jaina il termine Nirvāṇa si intende come assenza di aria, assenza di vento; quindi, il non esserci di agenti che possono manifestare l’esistenza e quindi il raggiungimento dell’inesistenza, nel Bauddha con Nirvāṇa si intende il soffio impetuoso di un vento purificatore, il Vātavega; quindi, un’inesistenza che non è da sé stessa ma a cui si addiviene tramite il Dharma. Anche il Vātavega ha origini primordiali rifacendosi ai Veda in cui c’è un chiaro riferimento al dio Agni e del suo andare a casa, trasmigrato dall’andare a casa metafora del tramonto del sole, Agni è il fuoco e il suo andare a casa è lo spengersi, magari grazie ad un soffio impetuoso di un vento purificatore, cessando la manifestazione esteriore in fuoco il dio Agni non cessa di essere in potenza ma ritorna allo stato latente ricollocandosi alla sua Yoni, la vulva creatrice, alla sua matrice a ciò che lo detiene in potenza pronto a manifestarsi di nuovo, allora le bacchette che sfregate produrranno di nuovo il fuoco, oggi nell’accendino. Nel Bauddha il senso del Nirvāṇa è “Come una volta estinta per la potenza del vento la fiamma è andata a casa, né più è nominabile, così il Silenzioso, una volta liberato al tutto da nome e forma va casa né più è nominabile”. E qui è la meraviglia celata del Bauddha che all’ultimo momento dona la pallida speranza dell’eternità, non esistere più, non esistere, non essere mai esistito ma continuare a sussistere in potenza nella matrice indistinta, inconosciuta, innominata, inconsiderata che come nella più antica tradizione Brāhmanica Hindù, tutto possa un giorno ricominciare dall’inizio, da un nuovo inizio. Anche se a precisa domanda, anzi alle dieci questioni indeterminate, gli Avyākṛta, il Buddha non risponde, dando al suo silenzio né senso affermativo né senso negativo; sullo stato dell’illuminato dopo la morte viene chiesto al Buddha se sussista il Tathāgata, il così andato dopo la morte, cosa c’è dopo la morte, che fine facciamo dopo la morte; “Sussiste il Tathāgata al di là della morte? Non sussiste il Tathāgata al di là della morte? Sussiste e non sussiste il Tathāgata al di là della morte? Né in effetti sussiste né non sussiste il Tathāgata al di là della morte?” Non lo sapremo mai, o meglio un giorno lo sapremo tutti.

L’OTTUPLICE SENTIERO

GLOSSARIO CRONOLOGICO COMMENTATO DELL’OTTUPLICE SENTIERO

Āryaṣṭāṅġikamārga: la prassi ascetica che forma il Nobile Sentiero ad Otto Membra, l’Ottuplice Sentiero. Un percorso a tappe che può essere anche ripreso nelle vite che verranno qualora la morte sopraggiunga lungo il tragitto; lo stato ascetico raggiunto con estrema dedizione e fede nel risultato finale, riuscendo mano a mano a trascendere tutto ciò che v’è di mondano, non rimane un inutile fatica ma si rivela nella vita successiva come base per l’ascesa al Nirvāṇa. La prassi richiesta per affrontare il Sentiero mette a dura prova il devoto meditante; le rinunce oggettive, l’isolamento e l’assenza di emozioni impediscono la strada dove c’è assenza di vera fede, dove il Kama persiste, dove ancora c’è attaccamento a questo mondo che in fondo in fondo non è poi così brutto. Le parole di Siddhārta sono di pietà verso le sofferenze tutte di questo Universo, sono un invito a comprendere la via per far sì che tutto questo finisca, sono vere e sincere nate dalla sincera comprensione che il mondo di Brahmā è un inutile ripetersi di quelle poche gioie che ci costringono ad una vita di sofferenza alla ricerca e nella speranza di viverne di nuove che però ancora una volta si riveleranno effimere. La struttura che il Maestro costruisce non dà la possibilità di scegliere, devi comunque tentare per il raggiungimento dell’Equilibrio Universale, perché la metempsicosi non è del corpo né dell’anima ma del Karman, delle azioni compiute, dei peccati che devono cessare di essere pene da scontare e sciogliersi nell’inazione. La vita che viviamo è la nostra opportunità di sciogliere i peccati compiuti da altri in altre vite e di non compierne di nuovi da far scontare ad altri in altre vite che saranno; l’invito di Buddha è un invito al sacrificio, all’annullamento della propria esistenza perché non ci siano sofferenze in futuro. Siete voi disposti a non godere nemmeno di quelle poche ed effimere gioie ed emozioni che la vita vi farà provare per costringervi a viverla tutta e sacrificarla invece nell’annullamento dei propri sensi, nell’estinzione delle emozioni, nel rendere la vostra vita inutile al mondano in modo che dopo di voi non ci sia più nessuno a dover scontare le azioni compiute da voi come da chiunque altro. Se la reincarnazione non è altro che la necessità del mondano di dare un nuovo corpo materiale ai peccati passati che verrà punito con ogni tipo di disagio e malessere, ma questo corpo non sarà più il vostro né vostra sarà l’anima, che non esiste, siete disposti voi a non vivere in vita per far sì che dopo nulla esista più? Avete una vita, sarà piena di sofferenze ma potrà capitare che possiate amare o essere amati, potrete vedere un tramonto sul mare o una cima innevata, il sorriso di un bimbo, sentire una carezza, celebrare una vittoria, scoppiare in una risata, fare e provare tutte quelle cose che vi faranno credere in quel preciso momento che in fondo la vita valga la pena di essere vissuta, avete una vita durante la quale vi ammalerete, verrete picchiati, cadrete, sarete feriti nella carne e nei sentimenti, sarete traditi, vivrete molte più volte sensazioni che vi faranno credere ripetutamente che nulla possa accadere di buono da far sì che la vita valga la pena di essere vissuta. Avete una vita, cercate di godere di quei pochi momenti e accettate i molti disagi o vi annullate perché dopo di voi nessun altro abbia non a soffrire ma a esistere? La profondità del Bauddha va al di là della salvezza di corpo e anima, va al di là di mondi migliori, di eden e paradisi la filosofia Bauddha ti chiede se vuoi che tutto questa non esista, non esista più, non sia mai esistito e che nulla mai più abbia a esistere, se lo vuoi, se veramente lo vuoi con tutto te stesso, non per diventare un beato che osserva il mondo dal suo Paradiso e da questo non è sfiorato, non per un fine personale come Hindù e Ebrei o come Cristiani e Islamici che verranno, non come tutte le religioni del mondo che offrono un futuro migliore ma perché il futuro non sia, non sia più, non sia mai stato; ecco, se lo vuoi, questa è la via da percorrere. La durezza di questa pratica porterà ben presto a annebbiare piano piano i ben delineati lineamenti dell’obiettivo e a proporre risultati intermedi che siano ritenuti sufficientemente positivi per un piccolo passo nella scala dello scioglimento del Karman e che magari non sia così necessario farlo tutto in una sola vita, in fondo ne abbiamo un’infinità a disposizione e poi magari invece di sacrificami io, esistente in questo momento, per tutti che si sacrifichino un po’ tutti per quel risultato finale da cui in fondo io, esistente in questo momento, non ricevo né in vita né in morte alcun beneficio, nasce così il Mahāyāna, che velocemente da filosofia riporta tutto a culto religioso. Nell’ideologia del Nobile Sentiero riconosco il Primo Comandamento Cristiano, “Non avrai altro Dio fuori di me” nell’aver compenetrato le Quattro Nobili Verità si arriva alla consapevolezza che non v’è altro Dio, anzi non v’è dio, divinità o fine ultimo se non il Nirvāṇa.

Samayagdṛṣṭi; il primo obiettivo/effetto dell’Ottuplice sentiero, la Veduta Appropriata. È la conoscenza cosciente delle Quattro Nobili verità, dapprima appresa e compresa viene successivamente assimilata e attenzionata in modo tale che il Dharma acquista evidenza e diventa naturale attenervisi. La prassi recita: “Avendo udito il Dharma, vi sofferma l’attenzione, dei Dharma su cui l’attenzione e soffermata indaga ogni risvolto il senso e lo scopo, per lui che indaga il senso i Dharma acquistano evidenza e forza di convinzione, essendovi evidenza dei Dharma, sorge l’impulso ad attenervisi”. È la stessa pratica che nell’essere praticata diventa ovvia regola di vita. È ovvio che soltanto per il raggiungimento di questa prima consapevolezza possa non bastare una vita, ma il dono che il Bauddha concede è che nella ricerca meditativa attuata, anche senza il raggiungimento del lontanissimo obiettivo finale, la pratica stessa ha contribuito allo scioglimento del Karman, magari solo in piccola parte ma quel tanto che basta affinché la vita che si accollerà quel Karman appena appena ridotto, possa meglio e più velocemente arrivare ad un grado di meditazione più elevato da dissolvere ancora più Karman cosicché la vita che si accollerà quel Karman ancora più ridotto possa meglio e più velocemente arrivare ad un grado di meditazione così elevato da raggiungere l’illuminazione e liberarsi nel Nirvāṇa.

Dṛṣṭi; l’antitesi del Samayagdṛṣṭi, la veduta erronea. La mancata consapevolezza delle Quattro Nobili Verità o anche il solo non ricercarle, porta in modo naturale ad allontanarsi dal Dharma e a perpetuare quell’attaccamento al mondano che obbiettivamente ha come ovvia conseguenza il continuare a produrre Duḥkha. “Avendo udito il Dharma, vi sofferma l’attenzione” è in queste parole che si concentra il dono di Buddha, se l’inconsapevolezza può essere contrastata mediante l’evangelizzazione di fronte al disinteresse la lotta diviene assai ardua e di fronte a interessi con secondi fini quasi impossibile; la veduta erronea può essere frutto di una cattiva abitudine, dell’ignoranza o di un errata educazione ma udire il Dharma dà la possibilità di avviare anche con un solo primo piccolo passo la lunga strada, compiuta magari in molte vite, per liberarsi nell’Illuminazione. Ma se la veduta erronea è frutto di un convincimento o per approfittarsi di coloro che praticano la corretta via allora è impossibile decifrarne l’Artha, lo scopo del Dharma, il suo fine alto e puro della liberazione da ogni male. La comprensione dell’Artha, fine ultimo del Dharma, porta all’apertura verso la pratica che via via si fa sempre più complicata ma allo stesso tempo più semplice, se correttamente attuata, ed è in grado di elevare dal mondano produttore di Duḥkha. L’Artha dona speranza, rende visibile l’obbiettivo raggiungibile e addolcisce le montagne dei dubbi che possono distrarre lungo il percorso; “per lui che indaga il senso, l’Artha, i Dharma acquistano evidenza e forza di convinzione” rendendo capaci della Veduta Appropriata, divenendo Dṛṣṭiprāpta, colui che ha raggiunto l’obiettivo della Veduta Appropriata, che indagato il senso del Dharma, lo ha compreso, fatto suo e lo utilizza per attenervisi nel percorrere e praticare la via indicata come unica possibilità di abbandonare l’infimo ciclo di rinascite.

Śrotāpanna: il giunto nella corrente del Dharma; il Dṛṣṭiprāpta che anche se soltanto all’inizio del Nobile Sentiero, dopo aver attinto la Veduta Appropriata raggiunge già uno stato di conoscenza da considerarsi elevato, non ha approfondito, non ha lungamente praticato ma ha consapevolmente compreso quale sia l’Artha e quale sia la via e non la potrà più abbandonare; ormai la consapevolezza si è indissolubilmente insinuata nell’intimo del meditante e non è più possibile fingere di non conoscere la verità, vi si può solo attenervisi o nasconderla ma anche in questo caso la verità rimane comunque presente e se è possibile nasconderla agli altri non è possibile nasconderla a sé stessi senza perdere di vista l’Artha e perdere le capacità potenziali di liberazione dell’essere divenuto Dṛṣṭiprāpta. Qualora lo Śrotāpanna dovesse morire, anche dopo aver raggiunto solo questo primo minimo ma essenziale stato, grazie al risultato conoscitivo ottenuto rinascerà ancora solo sette volte prima di elevarsi al Nirvāṇa. Questo accentua l’importanza della comprensione dell’Artha e della sua accettazione, è la consapevolezza del traguardo che rende possibile procedere con umiltà e semplicità nell’arduo percorso del Nobile Sentiero.

L’aver attinto la Veduta Appropriata e l’aver compreso l’Artha porta il meditante allo stadio successivo il Samyaksaṃkalpa, quello della Decisione Appropriata di abbandonare il ciclo delle rinascite. È uno stato fondamentale perché la decisione di inoltrarsi nel Nobile Sentiero è in fondo l’ultima tentazione, ancora aleggia nell’aria il profumo di quei brevi, fuggevoli, effimeri momenti di piacere materiale per i quali forse ancora la vita vale la pena di essere vissuta e per questo solo una pia pratica porta alla ferma decisione di abbandonare il ciclo delle rinascite, nessuna effimera gioia potrà mai competere con l’eterno abbandono del Duḥkha. “essendovi evidenza dei Dharma, sorge l’impulso ad attenervisi” dopo aver compenetrato l’Artha non è più possibile tornare indietro, la verità è davanti ai nostri occhi, chiara, rivelata ed evidente; le sofferenze pesano sulle nostre spalle e nell’intimità del nostro spirito e davanti a noi si mostra la via per scioglierle come se non fossero mai state, non è più possibile tornare indietro non ne saremmo capaci l’unica strada e addentrarsi nel Nobile Sentiero. Le sofferenze pesano sulle nostre spalle e nell’intimità del nostro spirito e davanti a noi si mostra la via per scioglierle come se non fossero mai state, non è più possibile tornare indietro non ne saremmo capaci ma addentrarsi nel Nobile Sentiero non è l’unica strada, ce n’è un’altra quella di non percorrere, di rinunciare, di lasciarsi illudere, di voler ancora una volta cercare quella piccola, misera, effimera sensazione di gioia che sappiamo poi ci darà tanta pena nel non poterla trattenere ma in fondo “L'attesa del piacere è essa stessa il piacere” ci ricorda Gotthold Ephraim Lessing, ed è così difficile rinunciarvi, anche se siamo nella piena consapevolezza che la via del non percorrere ci porta all’inferno, anzi, ci lascia all’inferno.

La Samyaksaṃkalpa è una decisione ferma e autoritaria presa da noi stessi per noi stessi e la si conferma nella piena consapevolezza che non è solo una vana promessa ma è parte della via che ci porta al non essere, al non provare, al non sentire e fermo, autoritario e solenne è il voto che il meditante offre di rinunciare a tutti quegli atti che ne impedirebbero la prosecuzione: il Lobha, l’avidità, dalla quale ci si deve astenere, nella disputa retorica fra l’essere e l’avere quale via migliore mirare al non essere rinunciando all’avere e pronunciare il voto solenne di abbandonare in futuro la brama materiale che mai può essere soddisfatta e che si nutre di sé stessa portando solo pesante e infinito Duḥkha; la Dveşa, la malevolenza, un’altra umana comune attività che viene aborrita e solennemente bandita dal praticante nell’elevarsi alla Decisione Appropriata, nel non essere nulla più può tangerci e spingerci a provare sentimenti malevoli, lasciare il peso di questa inutile zavorra ed elevarsi verso la conoscenza oltrepassando la Moha, l’ignoranza intellettuale, l’offuscamento della mente, la non conoscenza, il non impegno nella conoscenza, il dubbio che ostacola la presa definitiva inconscia di abbandonarsi al Dharma, ormai riconosciuto come unico strumento capace di porre fine al Duḥkha. La Decisione Appropriata arriva nel momento in cui si abbandonano tutte queste quotidiane e umane attività liberandosi della loro inutilità. L’importanza di questa fase si manifesta nel fatto che lo Śrotāpanna che dovesse morire dopo aver perfezionato la Decisione Appropriata rinascerà solo un’altra volta prima di elevarsi al Nirvāṇa, confermando che sono i primi passi i più difficili da intraprendere perché sentiti dolorosi nel distacco dall’abitudine al mondano, dall’abitudine al Duḥkha, dall’abitudine alla sopportazione; la Samyaksaṃkalpa non è un giuramento ma un innalzamento verso quella verità che il Dharma della prassi ha fatto conoscere. Non c’è perdono, non c’è punizione, non c’è aiuto divino né conforto né sostegno, c’è il meditante e davanti a lui la liberazione da ogni sofferenza, la cancellazione delle sofferenze, le sue, quelle che lo hanno costretto in quella vita e quelle che non dovranno più essere vissute. È una visione immane, un vortice in cui abbandonarsi senza l’illusione della vita e nella comprensione del non essere, del non esser più, del non essere mai stati, un’estasi paragonabile a quelle dei Santi narrate dal Cristianesimo e come nel Cristianesimo salvare sé stessi per salvare il mondo, anche se il Bauddha non lo salva dal male ma da sé stesso, e lo fa cancellandolo. E quando non sarà più, sarà come se non fosse mai stato, ma in fondo quando non ci saremo più per tutti noi sarà come se non ci fossimo mai stati.

Samyagvāc: la Parola Appropriata. Il non utilizzo della parola per il nocumento altrui. Il precetto si esprime ancora una volta con l’astensione da atti perpetuabili, questa volta con il linguaggio, preludio al non fare, non dire il falso e non seminare zizzania, non rivolgersi con fare scortese o intrattenersi in futili conversazioni. Questi Comandamenti invitano fin dall’inizio il praticante che non è il fare qualcosa che può portare beneficio al viaggio intrapreso ma proprio il non fare qualcosa, abituandolo al progressivo abbandono di ogni azione. La parola deve essere appropriata, cioè inerente e costruttiva, purtroppo l’umanità è poco avvezza a queste due attività e se dovessimo contare le parole che in una vita sono volte a disprezzare, mentire, calunniare, schernire, discernere di argomenti inutili alla concretezza della sussistenza delle esistenze poco rimarrebbe ed è proprio a questo che mira il Dharma, a limitare la parola, limitarla a quell’essenziale che possa favorire il Dharma. Una limitazione che invita e aiuta ancor più a limitare l’intenzione anche per il solo timore di trasgredire al Dharma, è un silenzio sempre meno rarefatto che piano piano aiuta il meditante a quel silenzio che sarà preludio del non dire, per non fare, per non più fare. Il Nobile Sentiero è un lungo percorso, tanto che già lo stesso Dharma ammette che per intraprenderlo è sicuramente necessaria più di una vita figuriamoci per concluderlo ma la sua struttura è intelligente, e paziente. Le complicate attitudini che devono essere raggiunte sono raggiungibili solo con il pieno possesso delle abilità richieste dal passaggio precedente ed ogni passo è di per sé un percorso arduo e ostacolato dal mondano e di per sé propedeutico ma allo stesso tempo indissolubilmente necessario al passo successivo. Ogni stadio del Nobile Sentiero è semplicemente ma acutamente conseguenza di quello precedente e necessariamente fondamento per poter provare ad attendere a quello successivo. Una Dottrina che non impone il suo Dogma a cui attenersi indipendentemente dal fatto che lo si sia compreso e compenetrato ma che con la quiete della consapevolezza delle infinite vite a disposizione porta non più a comprenderlo, perché non più necessario né richiesto neppure dal meditante, ma a esserlo, essere il Dogma al di là dell’esistenza o meno del Dogma stesso. Per comprenderlo, una mente occidentale deve portarsi ad esempio le mille e mille domande che ci accompagnano ogni giorno, nella consapevolezza che potranno essere risposte solo nell’aldilà, che ci si creda o meno, quelle verità, quei misteri Divini, il Cristiano Mistero della Fede, che non possono aver risposta qui ed ora, solo dopo la nostra morte potremo ascoltare la Parola Appropriata, quella inerente e costruttiva; “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” Gv1,1, ma dopo la nostra morte noi stessi faremo parte del Verbo, noi stessi saremo la risposta che non avremo più necessità di ascoltare, la Verità ci sarà rivelata non con una risposta ma con il nostro essere parte della Verità, quella che il praticante Bauddha si avvia invece a conoscere in vita, o almeno in una delle tante che gli occorreranno per completare il Sentiero. Nel terzo stadio del Nobile Sentiero risulta palese l’assonanza con l’Ottavo Comandamento Cristiano “Non dire falsa testimonianza” e vi si può anche riconoscere il Secondo Comandamento Cristiano “Non nominare il nome di Dio invano” almeno quanto vanamente sia indicato di non nominare mai nessuno.

Samyakkarman: l’Azione Appropriata. Andando avanti nel Sentiero si affrontano situazioni che possono apparire sempre più difficili da attuare, può sembrare semplice astenersi dal dire e ben più complicato astenersi poi dal fare ma quanto già ricordato nel primo precetto rende il praticante sempre più lontano dal mondano e quello che poteva apparire impervio prima di aver cominciato diventa ogni volta naturale, e solo così può essere raggiunto, quando la Veduta, la Decisione e la Parola sono ormai Appropriate in quale altra via potremmo mai addentrarci se non in quella dell’astenersi da azioni produttrici di Duḥkha che sempre meno ci appartengono. Anche in questo caso, come nel precedente stadio, i precetti indicati sono negativi, sono nel “non fare” e come per quello sono l’indicazione del togliere dalle nostre azioni tutte quelle che non sono inerenti e costruttive per far sì che si manifesti quanto poco altro resta al mondano e avviare infine all’apice del non, quello del non agire. Il primo precetto è altissimo e comune a tutte le religioni che volgono all’Amore, anche se a dire il vero non ce ne sono poi così tante e poca umanità è riuscita ad attenervisi, è il precetto del rispetto della vita, propria, altrui, tutta l’Ahiṃsā la non violenza, il precetto fondamentale del Samyakkarman, l’astenersi da azioni cruente, non uccidere ma non essere neppure il mandante né approvare tale atto; non istigare al suicidio o all’aborto ma anche azioni che possono apparire meno gravi quali il non appropriarsi di ciò che non viene dato e l’astenersi da illecite gratificazioni sessuali, quest’ultimo comporta il fondamentale apprendimento del corretto inquadramento della sfera femminile in ben delineati e determinati ambiti, quando queste non sono mogli si deve mantenere lo stesso comportamento che, a seconda della loro età, si avrebbe con figlie, madri o sorelle. Ovviamente come in ogni testo, moderno o antico, laico o religioso, ministeriale o popolare la donna si mostra penosamente e violentemente solo quale oggetto, al pari del contestato Nono Comandamento Cristiano “Non desiderare la donna d'altri” chiaramente richiamato nel Quarto stadio del Nobile Sentiero insieme al Quinto Comandamento Cristiano “Non uccidere”, al Sesto “Non commettere atti impuri”, al Settimo “Non rubare” e infine il Decimo “Non desiderare la roba d'altri”. Latita il Terzo Comandamento Cristiano “Ricordati di santificare le feste” se non intendendolo come santificazione quotidiana del Dharma nella meditazione, la festa rientra infatti di per sé fra le azioni futili più mondane e ingannatrici che il Dharma possa intendere; non c’è un vero e proprio richiamo al Quarto Comandamento Cristiano “Onora il padre e la madre” se non nel rispetto generico verso le esistenze tutte, prima che tutte si dissolvano nell’indifferenza dell’ascesa ascetica, laddove niente più dà pena né sollievo, laddove niente più è oltre il Sentiero in divenire, niente più oltre il meditante stesso e solo, senza più padre senza più madre.

Samyagājīva: i Mezzi di Sussistenza Appropriati. Anche se diventa sempre più complicato avere una vita sociale attiva nell’addentrarsi lungo il sentiero, non è vietato continuare ad averne una e non è necessario rinchiudersi in un monastero, se il praticante è in grado può continuare la sua consueta attività di vita purché questa sia Appropriata. Risulta però alquanto complicato comprendere come si possa dedicarsi così fattivamente e profondamente alla meditazione e nel contempo avere una vita sociale attiva che ci permetta la sussistenza personale e quella di un eventuale famiglia a meno che come per il Brāhmaņo Hindù, non ci si

L’enorme, varia e vasta quantità di interpretazioni impone però ben presto l’esigenza della fissazione di un Canone che per lo meno rallenti il dilagare delle filosofie. Si prende a cuore questa difficile impresa il sovrano Aśoka che diffonde fin dove possibile la filosofia Bauddha cercando di uniformarla in una sorta di religione di stato. È intorno al 300 a.c. infatti che si comincia a dare una forma e una struttura al Canone individuando i temi e i brani meritevoli di rientrarvi, prendendo spunto da un evento leggendario che si sarebbe tenuto subito dopo l’ascesa al Nirvāna di Siddhārta Gautama ormai Buddha. In quell’occasione, al cospetto di più di cinquecento Arhat, sarebbe stato recitato da parte del discepolo Upāli il Vynaia e da parte del discepolo Ānanda il Dharma, individuando in questi due i temi che avrebbero caratterizzato il Canone. Una seconda occasione, ritenuta meno leggendaria e più concreta, si sarebbe verificata cento anni dopo nel 380, in questo caso al cospetto di più di settecento Bhikşu, il Vynaia sarebbe stato recitato da Sarvakāmin. Vynaia e Dharma sarebbero stati recitati anche in occasione del Concilio indetto da Aśoka consacrandoli a Canone da definire e divulgare, a questi brani si va ad aggiungere la recitazione del Kathāvatthuppakaraṇa, il Capitolo delle questioni controverse, fatta da Tisya Maudgalīputra che perorerà le tesi filosofiche del Mahāsaṅgha, comprendente l’approfondimento e il confronto fra cinquecento tesi ortodosse e altrettante eterodosse. La stesura per iscritto non è però né semplice né immediata e la sua definizione, favorita dalla stesura del Canone Pāli voluta dal re singalese Vaṭṭagāmaṇi nel 20 a.c., si protrae fino al 200 circa per poi improvvisamente rivoluzionare completamente la sua conformazione intorno al 500 e definirsi con la stesura birmana nel 1077. Il primo ordinamento del Canone Bauddha ricalca quello Jaina con la suddivisione in dodici sezioni nominate Aṅga, Membra, dell’immenso corpus orale che si era andato formando; ogni Aṅga illustra il Vinaya e il Dharma attraverso diversi strumenti esplicativi. I testi che si considerano contenuti in questo elenco sono stati nel tempo ritrovati e ricostruiti tradotti in varie lingue dal sanscrito originario al Pāli artificioso di Ceylon, fino al cinese degli studiosi che lo hanno portato e diffuso nel continente; per cui di ogni raccolta non esiste una stesura unica ma è stata restaurata con parti di ogni idioma soprattutto a causa della perdita o della distruzione di tantissimi testi in India.

Il primo Aṅga è costituito dai Sūtra, narrazioni di eventi che si presentano come profferiti direttamente dal Buddha e che hanno inizio con l’incipit “Evam mayā śrutam”, “Così da me è stato udito”; a loro volta i Sūtra si suddividono in più sezioni, i Vibhaṅga, introdotti da parabole e racconti favoleggianti che rasentano lo stile “Boccaccesco”, volti a illustrare in modo più che esplicativo precisi comportamenti trasgressivi vietati a Bhikşu e Bhikşuṇī, in ordine di gravità dell’accadimento e della relativa grave sanzione.

Le Pārājikadharmāpatti, le trasgressioni che comportano l’espulsione definitiva dal Saṅgha; come sempre il sesso è il nemico principe della santità e allora, per i Bhikşu avere rapporti sessuali volontari, non ci sono scusanti, la punizione arriva anche se compiuti in stato di ebbrezza, con animali o addirittura cadaveri, dovevano avere strane abitudini in quei tempi, i “tre orifizi impuri” non potevano essere penetrati in alcun modo; si prosegue poi elencando gli altri peccati, prendere il non dato, l’omicidio, spacciarsi per Arhat e millantare poteri paranormali. Per le Bhikşuṇī le colpe del sesso sono preponderanti, oltre a quanto già elencato è proibito toccare e farsi toccare fra collo e ginocchia, e le otto specifiche forme di colpevole intimità: stare a distanza di un gomito da un maschio, parlargli all’orecchio, dargli la mano, farsi tenere per la veste, accoglierlo entusiaste, farlo accomodare, tendersi a lui, dargli un appuntamento. Altrettanto grave è tacere essendo a conoscenza di tali fatti di una consorella o sostenere chi è stato espulso.

Le Saṅghātiśeşa, le trasgressioni che comportano l’allontanamento temporaneo parificato al tempo in cui il peccato è stato tenuto nascosto; per i Bhikşu eiaculare, non sia mai, toccare una donna, farle la corte e chiederle un incontro d’amore, di sesso, volevo dire di sesso; far da ruffiano, calunniare un altro Bhikşu, addirittura costruirsi una cella fuori misura e forse il più grave, incitare allo scisma. Per le Bhikşuṇī inveire contro laici, ancor più citarli in giudizio, viaggiare da sole, attraversare da sole un fiume, cosa gravissima, dormire da sole, ordinare in autonomia una consorella, ordinare una condannata a morte e ovviamente non poteva mancare l’avere un rapporto saffico.

Le Aniyatadh, trasgressioni varie, con punizioni ovviamente variabili.

Le Naiḥsargikadh trasgressioni di possesso la cui sanzione è l’abbandono dell’oggetto stesso detenuto senza il corretto titolo.

Le Prāyaścitya, trasgressioni lievi espiate con una sorta di confessione comunitaria durante la cerimonia del Prātimokşa tenuta ogni plenilunio e novilunio.

Le Prātideśanikadh, scortesie da tavola espiate con le scuse profferte al danneggiato commensale.

I Vibhaṅga continuano andando a trattare altri argomenti per la comprensione di Vinaya e Dharma, con un a specifica elencazione di norme e note tecniche.

I Nirdeśa, in pratica il glossario dei termini tecnici utilizzati.

I Khaṇḍaka, riportanti le regole enunciate direttamente dal Buddha.

Il Parivāra, il corteo, una serie di domande e risposte sul Vinaya.

I Kuddhakapatha, le piccole lezioni Pāli, suddivise nel Maṅgalasutta sugli elementi auspiciosi e il Ratanasutta sulle Tre Gemme.

I Sūtra del Suttanipāta, una raccolta in versi e in prosa su argomenti vari le cui forme evidenziano origini molto antiche nel linguaggio e nei temi come il divieto di speculazione, che ovviamente è stato trasgredito da tutti quando ancora Siddhārta Gautama era in vita terrena.

Il secondo Aṅga contiene i Geya, testi da cantare, una raccolta in strofe di profferimenti del Buddha.

Il terzo Aṅga è il Vaiyākaraṇa, la spiegazione dettagliata, una raccolta dei testi tecnici non inseribili negli altri Aṅga.

Il quarto Aṅga contiene le Gāthā, strofe di detti e sentenze attribuite al Buddha comprendenti tre sezioni.

Il Dharmapāda un testo moraleggiante che attinge le sue radici nella cultura Hindù, suddiviso per argomento con esposizione dell’evento che le ha generate.

Il Suttanipāta, altra raccolta di strofe.

Le Theragāthā e le Therīgāthā, le strofe ascritte a discepoli e discepole del Buddha che hanno raggiunto lo stadio di Arhat, in cui sono descritti in forma meravigliosa i passaggi da loro compiuti nelle Via.

Il quinto Aṅga contiene gli Udāna, i profferimenti del Buddha, strofe oscure in forma meravigliosa, accompagnate da Sūtra esplicativi. La prima stesura del Canone si fermava a cinque Aṅga a cui posteriormente sono stati aggiunti gli altri.

Il sesto Aṅga è composto dagli Itivuttaka, una raccolta di strofe con la caratteristica di iniziare con l’incipit “Iti vuttakan Bhagavatā”, “Così è stato del Bhagavat” il glorioso, il cui contenuto è dedicato alla pratica saggezza.

Il settimo Aṅga raccoglie le Jātaka, i racconti in veste sia umana che animale delle precedenti vite del Buddha, a cui successivamente è stata aggiunta una biografia del Maestro. I racconti di tipo moraleggiante introducono la forma favolistica nella Dottrina.

L’ottavo Aṅga è l’Adbhutadharma, il Dharma meraviglioso, una raccolta di Sūtra i cui protagonisti sono essere divineggianti in cui hanno particolare risalto le loro azioni miracolose.

Il Nono Aṅga, il Vaidalya, l’analisi, è una raccolta delle spiegazioni delle parole del Buddha con annesso il suo sollecito all’insegnamento da parte di coloro che hanno attinto la conoscenza. La seconda stesura si completa con questo Aṅga e successivamente sono stati aggiunti gli ultimi tre.

Il decimo Aṅga raccoglie i Nidāna, una serie di Sūtra sulle diverse fasi in cui si articola il difficile e tortuoso percorso che porta alla rinascita.

L’undicesimo Aṅga raccoglie gli Avadāna, le gesta del Buddha e di altre meritevoli personalità che iniziano dal momento in cui quest’ultime hanno incontrato il Buddha di una precedente era sulla loro Via e di come questo, esistenza dopo esistenza li abbia portati all’Illuminazione.

Il dodicesimo Aṅga contiene infine gli Upadeśa, gli insegnamenti non direttamente impartiti dal Buddha. In questa raccolta si trovano strofe delle più vaste origini che si concentrano sul dialogo del sovrano della Battriana con il Maestro Nāgasena, il quale con altri Bhikşu era sfuggito a persecuzioni in patria.

Ovviamente, essendo una ricostruzione di quella che doveva essere una prima stesura del Canone, in cui sono contenute parti provenienti dalle tradizioni orali di pressoché tutti i Nikāya non è l’unico e il solo ma il più conosciuto a cui se ne affianca un altro, molto simile per articolazione e contenuti, che si ascrive ai discendenti del discepolo Ānanda, anche questa versione si presenta suddivisa in dodici Aṅga:

Jātaka, in cui sono inseriti brani dell’Abhidharma.

Mahāniddesa.

Cūlaniddesa, con parti del Canone Pāli e altri Sūtra antichi.

Paṭisambhidāmagga, il Sentiero della completa discriminazione, contenente testi posteriori all’epoca Aśoka.

Suttanipāta.

Dhammapada.

Udāna.

Itivuttaka, raccolta di testi sul tema del Paradiso e dell’Inferno, conseguiti in base a buone o cattive azioni.

Vimānavatthu, sulle cose celesti.

Petavatthu, sul destino dei trapassati.

Theragāthā.

Therīgāthā.

Nel mentre in ogni dove nel subcontinente ci si dava da fare alla costruzione sinottica di un Canone che andasse a contenere le essenze delle varie filosofie, nei monasteri adiacenti se ne disfaceva l’ossatura in dodici Aṅga per ricostituirlo in tre Piṭaka, canestri, sullo stile voluto dal sovrano singalese Vaṭṭagāmaṇi. La versione che poi costituirà l’ossatura del Canone definitivo viene redatta da cinquecento Maestri riuniti nello Ālokavihāra e nel 400 sarà integrata dai monaci del Mahāvihāra, durante un concilio voluto da re Dhātusena, che poi durante il regno di Parakkamabāhu I diviene il riferimento principale per il Theravāda. L’affermazione di questo Canone è in parte dovuta alla ripresa Hindù nell’India, da cui il Bauddha va lentamente scomparendo e alla lontananza dall’altra filosofia vincente del Mahāyāna che trova invece la propria collocazione nell’area di influenza cinese. Le invasioni islamiche determineranno poi la definitiva scomparsa del Bauddha dall’India e la definitiva affermazione del Canone singalese in Indonesia e Indocina, che ancora oggi sono i paesi in cui si professa il culto Bauddha Hīnayāna. Il testo singalese arriva in Birmania nel 1057 grazie al re Anuruddha e qui viene fuso e confuso con il testo locale fino a darne una versione finale che torna a Ceylon nel 1077 divenendo Il Canone per i fedeli di Srī-Lanka, Thailandia, Cambogia e Laos.

La classificazione in Piṭaka, allontana la filosofia Bauddha dalla coeva fede Jaina che prima di questa già suddivideva il proprio Canone in Aṅga, anche per fuggire sospetti e maldicenze sul fatto che il Bauddha fosso in realtà una revisione della religione Jaina in forma atea, in questo modo si vuole in parte anche affermare l’unicità e l’originalità del Bauddha. La visione del cesto è quella di un canestro in cui vengono depositati i testi redatti dopo che per centinaia di anni il Dharma è stato proclamato oralmente, come se fosse un contenitore, umile ma pratico, per le cose più preziose, non un mondano forziere o uno scrigno ma un semplice cesto in cui insieme ai giunchi vengono intrecciate le parole del percorso per la Via all’illuminazione.

Il Vinayapiṭaka, il Canestro della Disciplina, in cui sono contenuti antichi Vibhaṅga e Vinaya prevalentemente della corrente Sarvāstivāda, ma non solo e questo è evidenziato dalla presenza di testi tradotti in cinese, costituiti fra il 100 a.c. e il 200, pur comprendendo parti delle più svariate tradizioni, l’unità secondo la quale queste varie visioni della filosofia si sono potute fondere in un unico Canone e che tutte si rifacevano comunque alla tradizione orale del discepolo Upāli, il barbiere del Buddha, di casta inferiore, convertitosi per seguire i propri Principi della clan dei Sakya a cui apparteneva lo stesso Siddhārta Gautama.

Il Suttapiṭaka, il Canestro dei Sūtra, vastissima raccolta di Sūtra, suddivisa in cinque Nikāya, mucchi di testi, di origine antica ma la cui costruzione denota una forte rielaborazione di quelli che erano gli indirizzi del periodo di Aśoka.

Il Dīghanikāya, il mucchio dei Sūtra lunghi, che viene redatto per osteggiare la diffusione di false dottrine. Nella versione Pāli viene definito con l’appellativo Suttanta, quasi ad identificarsi con il periodo di rinascita dell’Hindù in India caratterizzatosi come Vedānta. I Sūtra lunghi sono accompagnati da Sūtra brevi e dal commento ascritto a Buddhaghoşa, con un’ampia analisi delle dottrine e delle pratiche ascetiche che si affermarono nei primi momenti di diffusione della filosofia. Fra questi si evidenzia il Mahāparinibbānasuttanta, che illustra gli ultimi giorni del Maestro, la sua morte in vita e le esequie a lui tributate in modo solenne.

Il Majjhimanikāya, il mucchio dei Sūtra mediani, redatto per favorire l’approfondimento dei tratti più fini del Dharma. A dimostrazione dell’estrema diffusione della filosofia Bauddha si trova in questa sezione una traduzione cinese curata dal parto Aršak, in cinese An Shigao, attestato in Cina intorno al 150.

Il Samyuttananikāya, il mucchio dei Sūtra interconnessi, redatto per favorire l’accostamento alla meditazione. Fra questi il Dhammacakkappavartanasutta, il Sūtra del far girare la ruota del Dharma in cui si riporta la prima predica del Maestro.

Lo Aṅguttaranikāya, il mucchio dei Sūtra da una strofa in su fino a undici, redatto per le diverse esigenze di uomini e déi. Se ne ascrive l’origine al 150 a.c. proveniente dai fedeli del regno di Menandro I Sotere di origini greche, considerato il primo occidentale a convertirsi al Bauddha.

Il Khuddakanikāya, il mucchio delle piccole lezioni. Qui sono raccolti i Sūtra che sostanzialmente non hanno trovato collocazione nelle altre sezioni e l’elaborazione di questo Nikāya appare tardiva e successiva all’allontanarsi delle filosofie settentrionali da quelle meridionali, forse anche a causa della conquista islamica, in quanto non ne esistono versioni tradotte in cinese. Si ripropongono qui riuniti i Sūtra appartenenti agli Aṅga delle versioni precedenti del Canone suddivisi in quindici sezioni:

Kuddhakapāṭha, le quattro piccole lezioni.

Dhammapada.

Udāna.

Itivuttaka.

Suttanipāta, in cui sono raccolti i Pārāyana, i testi di quelli che vanno all’altra riva dell’oceano delle rinascite, considerato il più antico testo scritto Bauddha esistente.

Vimānavatthu.

Petavatthu.

Theragāthā.

Therīgāthā.

Jātaka.

Niddesa.

Mahāniddesa.

Cūlaniddesa.

Paṭisambhidāmagga.

Apadāna.

Successivamente sono state aggiunte altre due sezioni:

Buddhavaṃsa, la Stirpe dei Buddha, con la narrazione in versi della vita del Maestro e di ventisette suoi predecessori.

Caryāpiṭaka, il canestro della condotta, in cui viene raccontata la pia esistenza del Brāhmano Govinda.

Lo Abhidhammapiṭaka, il canestro di ciò che è relativo al Dharma, successivamente addirittura inteso come super-Dharma. Qui si raccolgono dei testi molto più prettamente tecnici per cui le diverse origini ne evidenziano alcune discrepanze dovute anche al fatto che la raccolta dei testi comincia nel periodo di Aśoka per protrarsi fino al 300, anche se la tradizione ascrive un sostanziale intervento della tradizione orale proveniente dal discepolo Śārīputra. La raccolta include sette sezioni:

Dhammasaṅgani, degli elementi della realtà, i Dharma.

Vibhaṅga, sulla messa a punto dogmatica dei concetti fondamentali.

Dhātukatā, sulle sfere dell’esistenza.

Kathāvatthuppakaraṇa, delle questioni controverse.

Puggalapaññatti, sulle nozioni convenzionali.

Yamaka, sulle posizioni antitetiche.

Paṭṭhānapakaraṇa, del porsi in opera dei fenomeni, in cui si illustra le condizioni a causa delle quali si producono i conseguenti fenomeni.

Contemporaneamente e conseguentemente all’elaborazione del Canone si vanno formando anche le biografie del Buddha; redatte e trascritte in altre lingue dalle varie correnti, mantengono comunque tutte un canovaccio pressoché inalterato e inalterabile focalizzato sugli stessi dodici eventi dell’esistenza del Maestro. Fra le più antiche intorno al 100 a.c. la Mahāvastuavadāna dei Lokottarāvadin e la Mahākandhaka del Canone Pāli nelle quali comincia a formarsi la trama definitivo della narrazione, più tardo ma già più organico è il Lalitavistarapurāna, L’antica storia particolareggiata dell’Amabile, costituitasi in ambiente Sarvāstivādin e che dopo abbondanti e infiorettati arricchimenti diviene uno dei testi più venerabili del Mahāyāna. Altri testi che andranno poi a convogliarsi nelle biografie ufficiali sono il Buddhacarita, Gesta del Buddha e di Aśvaghoşa, la Sākyamunibuddhacaritasamgraha dei Dharmaguptaka di cui è celebre la traduzione cinese di Jñānagupta, conosciuta solo per citazione ma di cui poco è giunto fino a noi, dal titolo di Fobenxingjijing. Testi successivi al 400 sono la Nidānakathā in Pāli e il Sūtra della grande uscita, il Mahāabhinişkramaṇasūtra, che fu d’ispirazione a Sir Edwin Arnold per la stesura del poema The light of Asia, che a fine ‘800 contribuì a favorire numerose conversioni nei paesi anglosassoni.

Le fonti delle biografie si basano sui testi più antichi solo per il periodo che va dal Sermone di Benares fino al Nirvāṇa mentre il periodo antecedente, di successiva stesura, è stato inserito enfatizzando i miti e le leggende strutturandosi in un archetipo che si ripete immutato per ogni Buddha, come insegnato direttamente dal Maestro e che variano soltanto nella collocazione in diverse epoche cosmiche, i Kalpa, e, a causa del deteriorarsi della morale mondana, nella diminuzione della durata della vita del Buddha e nel numero dei suoi seguaci, passando da Vipaścit vissuto ottantamila anni e con sette milioni di discepoli fino al nostro Siddhārta Gautama, vissuto soltanto ottant’anni circa e con soli milletrecentocinquanta discepoli; immancabili per ogni Buddha la coppia di discepoli prediletti e l’attendente che in questo caso sono Śārīputra e Maudgalyāyana e il fedele Ānanda. La serie di Buddha precedenti si accresce con il tempo fino a superare i cento in alcune biografie.

Le dodici fasi salienti della vita del Buddha rimangono immutabili come numero in ogni biografia ma subiscono variazioni sui contenuti e a volte alcuni fatti vengono sostituiti da altri a seconda delle particolarità della corrente filosofiche senza però mai stravolgere l’articolazione evocativa del racconto. L’esagerazione che talvolta è presente all’interno dei testi non deve però travisarne l’importanza; l’esposizione dei fatti è eseguita secondo canoni e criteri culturali Hindù e la loro coloritura non deve far passare in secondo piano il contenuto e l’importanza che ha per il fedele. Tutta la leggenda narrata è intrisa delle similitudini con il culto Hindù e con le sue tradizioni culturali che a loro volta affondano le millenarie radici nei Veda e nei suoi miti. Da un punto di vista occidentale potrebbe sembrare di leggere una delle favole delle Mille e una notte, ma in realtà stiamo leggendo un testo esattamente e strettamente parificabile alla Torah, al Vangelo o al Corano e molte sono le similitudini narrative e allegoriche.

Le dodici tappe dell’esistenza del Buddha ripercorrono l’intero tragitto dalla sua indeterminabile provenienza, evidenziandone così la sottomissione al Saṃsāra e la lunga e faticosa Via attraversata in innumerevoli esistenze a sottolineare la difficoltà nel raggiungere l’obiettivo, puntualizzando di volta in volta le peculiarità della sua storia come esempio di vita e di avvicinamento alla Via che sola mena al Nirvāṇa.

La dimora tra gli déi Tuşita. La biografia inizia però con l’avvento dell’ultima esistenza in vita, vite ed esperienze precedenti saranno svelate contestualmente ai momenti in cui, anch’egli vivente, tornerà a ricordarle, come invece solo in forma divina sarebbe possibile. Prima della sua ultima venuta in esistenza egli è un Bodhisattva e il suo nome è Sumedha. Il Buddha precedente, al momento della propria ultima venuta in esistenza, lo investe dell’onore e dell’onere di essere il Buddha che gli succederà.

La decisione di discendere sulla terra. In un tempo non determinato in cui Sumedha osserva le vicende mondane, questi prende la decisione di discendere sulla terra per salvarla dalle erronee dottrine per ristabilire il Dharma. Questa decisione non comporta l’immediata venuta in vita del Bodhisattva, prima devono essere compiuti i cinque esami per determinare la madre, la stirpe, la terra, il tempo e il clan. Queta scelta lo porta a scegliere come madre la casta e pura Māyā, sposa di Suddhodana, Rajà di Kapilavastu, del clan dei Gautama nel 580 a.c.. Individuati i cinque elementi, prima di discendere nella sua ultima esistenza designa come suo successore il Bodhisattva Maitreya che ancora dimora tra gli déi Tuşita, contemplando i mali del mondo in attesa di determinare per sé i cinque elementi che contraddistingueranno la sua ultima venuta in vita.

L’ingresso nell’utero e la nascita. La purezza e la castità della madre Māyā non vengono infrante, il concepimento non avviene con un atto sessuale ma Sumedha entra nella madre dal fianco destro in forma di elefante bianco a sei zanne, mentre ella stessa assopita, lo sogna e lo vede come è. L’evento prodigioso è festeggiato in ogni dove con miracoli e salutato con letizia dalle schiere divine. La gravidanza si protrae nella purezza casta di Māyā che può vedere il piccolo, come lui vede lei, come se fosse in uno scrigno di cristallo. Trascorse dieci lune il momento della nascita è annunciato dai trentadue segni auspiciosi dell’evento, come pianeti che fermano il loro corso, fiori che piovono, leoni mansueti e fuoco che non arde. Come vi è entrato il neonato esce dal fianco destro di Māyā lasciandola virginalmente intatta; fonti miracolose zampillano per le sue abluzioni e poi erto in piedi compie sette passi ed annuncia “Io sono il primo al mondo, Io sono il migliore al mondo, io sono il più venerabile al mondo, Io sono nato per la salvezza del mondo. Questa è la mia ultima nascita, né vi sarà una nuova venuta.”. Dopo sette giorni, Māyā muore e ascende nel cielo dei trentatré déi. È indubbio che possano essere ravvisate similitudini con la nascita di Gesù Cristo e la verginità di Maria, già nel 200 questi dubbi sono venuti perfino a Clemente d’Alessandria, filosofo, teologo e Santo.

Le prove d’abilità. Nella sua giovinezza l’ormai Siddhārta Gautama diciannovenne, dà prova delle sue capacità nella lotta, nel tiro con l’arco, nel padroneggiare le lingue e nell’eccellenza nelle arti. L’esibizione è per manifestare la propria grandezza ai suoi sudditi e per conquistare le grazie di Yaśodā che diverrà la di lui moglie.

La vita nel gineceo. All’età di trentanove anni Siddhārta è turbato nei pensieri dagli orrori di malattia, vecchiaia e morte, eventi esaltati dall’incontro con tre uomini che sottostanno a tali miserie della vita, che lo destabilizzano; un quarto incontro invece gli apre l’opportunità di scegliere una vita ascetica. Il sovrano preoccupato per le sorti del figlio lo riempie di agi, palazzi e concubine nel tentativo ti trattenerlo a sé, ma proprio la vista dei corpi di queste nelle pose scomposte del sonno gliele mostra alla mente come cadaveri accatastati e decide fermamente di abbandonare quel luogo e quella vita, nonostante sette, ancora una volta torna questo numero, giorni prima sia nato il suo primogenito Rāhula, il cui significato del nome guarda caso è catena. Di questa sua decisione padre e moglie ne hanno visione in sogno.

Il grande abbandono. In una notte di plenilunio, con la complicità dello stalliere Chanda, Siddhārta fugge a dorso del suo cavallo Kanthaka. Le porte di Kapilavastu si aprono miracolosamente e gli déi reggono gli zoccoli del cavallo per impedire che facciano rumore. Si volge un’ultima volta ma inutilmente perché anche la terra gira su sé stessa per evitargli l’umiliazione del rimpianto. Siddhārta fa voto di non far ritorno finché non avrà trovato la Via che sconfigga vecchiaia e morte, taglia con la spada la sua capigliatura che getta in aria insieme alla corona evocando un auspicio, se non ricadranno riuscirà ad attingere la conoscenza, nel cielo Indra le raccoglie per riporle in uno scrigno dove verranno venerate; l’auspicio è positivo. Scambia le sue vesti preziose con quelle consunte di un asceta che in realtà è una divinità manifestatasi a lui sotto mentite spoglie, e con quelle inizia la sua vita errante. Tra i Licchavi del Nepal diviene allievo del Maestro Ārāḍa Kālāma da cui apprende i quattro Dhyāna e tre Samāpatti, successivamente diviene seguace del Maestro Udraka Rāmaputra che lo porta all’attingimento della quarta Samāpatti. Rimasto però deluso dai risultati delle tecniche di meditazione abbandonerà entrambi i Maestri che al contrario lo avrebbero voluto come loro successore.

L’ascesi. Rifugiatosi nel parco di Uruvilivā sul fiume Nairañjanā si consuma per sei anni in più che estremi esercizi ascetici che lo riducono ad uno scheletro umano. La sua dedizione evoca l’ammirazione e la fedeltà di altri cinque asceti, il Brāhamano Ājñāta Kauṇḍinya, e quattro figli di Brāhamano Bhādrika, Aśvajit, Vāşpa e Mahānāma Kulika. Dopo quarantanove giorni di digiuno quasi sul punto di morire d’inedia sviene per poi rendersi conto che neppure quella è la via per l’illuminazione ma solo un inutile sacrificio a cui rinuncia accettando cibo in una ciotola d’oro portagli da una fanciulla. I suoi cinque discepoli inorriditi dall’atto compiuto lo abbandonano.

Lo stabilirsi sotto l’albero della Bhodi. In una notte di plenilunio il Maestro si reca sotto un albero di Ficus Religiosa per la sua ascesi definitiva, mentre si reca là fiori spuntano sotto i suoi piedi, gli alberi gli si chinano davanti e gli uccelli lo accompagnano. Nei cieli schiere divine esultano, nessuno più muore, la serenità pervade le menti ti tutte le genti; il Maestro si prepara un seggio con dieci mazzetti d’erba mietuti da Svāstika, compie sette volte il giro della pianta e vi si siede sotto, eretto e immobile, manifestando il voto di non rialzarsi fono all’attingimento della conoscenza.

La tentazione da parte di Māra. Durante l’ascesi gli si palesa il male assoluto, il Pāpman, il re dei Parinirmitavaśavartin, il Kāmadhātvīśvara, il nero Kṛṣṇa, Kāma, Māra colui che fa morire, che interviene per il timore che la nascita di un nuovo Buddha possa destabilizzare il suo dominio mondano tentando più volte il Maestro. Con la violenza, che dinanzi all’asceta si trasforma in fiori. Con la seduzione, attuata per il tramite delle tre figlie di Māra, Ārati, il diletto sessuale; Priti, l’amore e Tṛṣṇa, la sete, che si trasformano in tre vecchie quando appaiono davanti ai suoi occhi. Con l’offerta del dominio sulla terra dando il via alla ruota del dominio mondano il Cakravartin, una vita lunghissima, felice e colma di figli, a cui il maestro risponde “Io attingerò il mio Regno a poco a poco, io porterò il mondo alla letizia perfetta”. Con l’invito ad utilizzare i suoi poteri per scopi mondani, come trasformare in oro l’Himālaya per donare ricchezza a tutto il mondo, ricevendo come risposta che tutto l’oro del mondo non soddisferebbe una sola persona. Con il dubbio, verso di lui e i suoi discepoli, perché un semplice essere fatto di carne e soggetto ai mali del mondo non può competere con un dio come lui che è fatto di mente, vive in cerca della liberazione, si crede liberato ma stretti lacci lo legano al potere di Māra, le sue insinuazioni continuano insistentemente ma inutilmente verso il Buddha e si ripresenteranno poi anche ai suoi discepoli. Con l’argomentazione giuridica, affermando che tutto è del maligno per cui non può sfuggirgli, nemmeno la terra che ha sotto i piedi può appartenergli, al che il Maestro invoca la testimonianza della terra toccandola con le dita della mano sinistra e questa risponde che le sue virtù in innumerevoli vite, gli hanno assegnato il diritto di sedere su quel pezzo di terra. Quest’ultima parte si ritrova molto nelle tentazioni di Gesù digiunante nel deserto, non solo nelle azioni ma soprattutto nella dialettica e nel porsi del maligno che nel Vangelo appare più simile a quello Bauddha che non a quello della Torah nell’episodio di Giobbe, giustificando i dubbi di un’influenza Bauddha nella formazione della narrativa del Cristianesimo, qualcuno poi, ha osato anche dubbi più profondi.

La Bodhi. Annullate le tentazioni del maligno il Maestro entra in meditazione, attraversa gli stadi dei Dhyāna attinge fino alla quinta Abhijñā, mentre si inoltra nell’ascesi rivede le innumerevoli proprie vite precedenti vissute nell’arco di eoni cosmici e quelle di tutta l’umanità ricollegando i destini di ogni evento di nascita e morte alle azioni compiute prendendo piena comprensione delle leggi del Karman. Infine, prima dell’esaurirsi della notte attinge la Saṃyaksabodhi, l’Esperienza Liberatrice Plenaria rendendolo Saṃyaksambuddha, pienamente e perfettamente colmo della Conoscenza. Vengono meno gli Āsrava, impedendo di fatto una nuova rinascita, vi è piena comprensione delle Quattro Nobili Verità e della Pratītyasamutpāda che viene percorsa in modo ascendente e discendente per poi ascenderla di nuovo, i mondi tremano, gli déi gioiscono, fiori e frutti riempiono le piante, l’acqua del mare diviene dolce, i cechi vedono, le prigioni si aprono, cessano i disagi e la serenità pervade tutta l’umanità. Il Buddha esclama “Disseccata è la nascita, giunta a termine la condotta ascetica, fatto ciò che era da farsi, null’altro resta da fare d’ora innanzi”, entra nella sfera dell’Igneo fulgore conseguendo il Nirvāṇa in vita, il Sādhiśeşanirvāṇa, ora è il Buddha della sua era. Non v’è in cielo o in terra ente a lui superiore; perciò, del suo stato può solo rendere grazie al Dharma fonte della sua liberazione.

La messa in moto della Ruota del Dharma. Il Buddha rimane in ascesi nell’esperienza beatifica della Bhodi per poi ponderare le eventualità che gli si pongono adesso dinanzi, il disagio di una vita itinerante nel tentativo di insegnare il Dharma a un’umanità incapace di comprenderlo o cessare la propria esistenza in vita ed entrare nel Nirvāṇa in morte, il Parinirvāṇa. Māra torna così all’attacco cercando di liberarsi della sua scomoda presenza nel mondo e lo invita ad abbandonarlo, il Brahma Śampati invece lo esorta a rimanere anche solo per la salvezza di pochi e il Buddha accetta. Arrivano dall’Orissa una carovana di cinquecento carri, indirizzati sul luogo dall’apparizione di parenti morti, che divengono i primi discepoli laici e grazie alla potenza del verbo del Maestro appena divenuto Buddha questi guadagnano immediatamente il Nirvāṇa e ricevono in dono capelli e unghie del Buddha facendone già reliquie mentre questi è ancora in vita. Il Buddha si mette così in cerca dei suoi vecchi compagni di meditazione per comunicare loro quanto accaduto, per la via incontra l’asceta Upaka che lo vede sereno e gli chiede di chi sia discepolo, il Buddha risponde “Non ho Maestro, nessuno mi è pari, io sono il Buddha liberato dagli Āsrava”, ma l’altro scettico si allontana divenendo l’emblema dell’uditore incredulo. Il Buddha giunge infine a Benares dove nel Parco degli Antilopi, il Mṛgadāva, incontra gli antichi compagni a cui comunica le Quattro Nobili Verità mettendo in moto la Ruota del Dharma, Dharmacakra, la cui simbologia vede il Buddha nella classica posa con pollice e indice di entrambe le mani congiunti.

Il Nirvāṇa. All’età di ottanta anni dopo una grave infermità istruisce l’attendente Ānanda sulle proprie volontà dopo la morte ma allo stesso tempo lo invita per tre volte a sollecitargli l’indefinita permanenza in vita per continuare la sua azione salvifica, Ānanda, confuso da Māra non coglie le allusioni e Māra insiste invitando il Buddha ad abbandonarsi al Nirvāṇa e questi stremato acconsente liberandosi definitivamente dei Bhāvasaṃskāra. Ancora una volta la terra trema, Ānanda supplica il Maestro di non morire ma ormai è troppo tardi la decisione presa è irreversibile. Il Buddha si congeda dai discepoli e si reca a Kuśingara dove compie l’ultima conversione istruendo l’asceta Subhadra. Qui detta le sue ultime istruzioni avvertendo i discepoli di non tener conto dei precetti minori ma ancora una volta il povero Ānanda non compie il proprio dovere dimenticandosi di chiedergli quali siano, nel dubbio i discepoli decidono di attenersi comunque a tutti. Il Buddha entra in meditazione salendo tutti gli stadi seguito dal discepolo cieco Aniruddha, che è però dotato del terzo occhio con cui segue l’ascesi. Il Buddha attraversa tutti gli stadi di coscienza prima in senso ascendente verso la trance, per poi ridiscendere alla consapevolezza e risalire fina trovarsi fra lo stato della forma e quello dell’assenza di forma e qui tra le due sfere d’esistenza esce dal cosmo ed entra nel Nirvāṇa. mentre sulla terra prodigi e segni divini si moltiplicano. La cremazione si svolge a Makuṭabandhana, spenta da una pioggia miracolosa, lasciando solo ossa e ceneri che il Brāhmano Dhūpagotra si incarica di consegnare le reliquie del corpo del Buddha, conservanti la santità del corpo vivente, dividendole in otto scrigni da inviare ai popoli fedeli per la loro custodia nei tumuli regali, gli Stūpa. Nel 1958 viene rinvenuto a Vaiśālī quello destinato al popolo dei Licchavi con il contenuto ancora intatto. Un canino superiore viene donato Ājātaśatru re dei Magadha, questa reliquia passa più volte dall’India a Ceylon, donata o sottratta, nel 370 è a Ceylon nel cenobio di Abhayagiri, nel 1059 è nel grande Stūpa di Swe-zigon, nel 1283 ritorna in India, nel 1288 il dente va in Cina su richiesta del Kublai Khan e può ammirarlo anche Marco Polo, nel 1303 torna a Ceylon, nel 1590 trova sistemazione a Kandy dove nel 1782 verrà collocato nel Daladā Maligāwa, il Tempio del Dente, i portoghesi lo trafugano per darlo alle fiamme a Goa in quanto divenuto il simbolo dell’autorità regale di Kandy ma la reliquia supera l’autodafé. Anche gli inglesi ne tolgono il possesso ai fedeli e alle autorità locali ma infine nel 1847 lo riconsegnano definitivamente al culto nel Daladā Maligāwa. Il Dente è posto all’apice di una specie di corno d’oro, chiuso in una teca inondata di luce e incassata nel muro, una balaustra a due tre metri di distanza lo separa dalla folla dei fedeli singalesi e dei turisti curiosi e posso confermarvi che da lì, il dente non si vede. 

LO STŪPA DI SANCHI

LA PRATICA

L’illuminazione è la salvezza, la conoscenza che porta all’illuminazione è qualcosa che va al di là della comprensione razionale, oltre i limiti della ragione e dell’intelletto è la follia del sapere tutto e contemporaneamente non sapere più nulla. Pensate all’infinito, all’infinitamente grande e quando lo avete misurato, pensatelo ancora più grande e poi ancora, senza mai poter smettere, inconcepibile. Pensate all’infinito, all’infinitamente piccolo che forse è ancora più difficile e quando lo avete misurato, pensatelo ancora più piccolo e poi ancora, senza mai poter smettere, inconcepibile. L’illuminazione è come poter comprendere l’infinito, per farlo bisogna impazzire e subito dopo morire perché la vita non può avere più alcun senso, forse soltanto l’esserci arrivato da solo ha permesso a Siddhārta Gautama di continuare a vivere in carne mentre già era Buddha, conoscere e rimanere in carne è un ossimoro per tutte le religioni; chi Siamo, da dove veniamo, dove andiamo e soprattutto… perché? Sono domande senza risposta prima della conoscenza che arriva solo con la morte per tutte le religioni e secondo Buddha non hanno risposta neanche dopo in quanto è proprio dell’illuminazione non concepire più tali domande.

 

MAHĀSAṄGHA

Subito dopo la morte in vita di Siddhārta Gautama, il Maestro, l’Illuminato, il Buddha, nel 486 a.c., i suoi insegnamenti divengono, nel più consueto modo Hindù, da Canone a Teoria, su cui si può filosofeggiare, speculare, travisare, inventare, interpolare. Dalle prime dispute dei discepoli del Maestro sorgono numerosi Nikāya da cui, scisma dopo scisma ne nascono di nuovi. Subito si afferma in maniera preponderante il Mahāsaṅgha, la Grande Ecclesia, che segue le indicazioni del Buddha nella pratica ma che si rivela piuttosto lassista sulle modalità della via. Il Mahāsaṅgha si afferma in modo deciso durante il primo concilio tenutosi a Pāṭalīputra circa cento anni dopo il Parinirvāņa, che alcuni testi vorrebbero presieduto da Aśoka, non ancora nato e che diverrà re circa cento anni dopo, ma di cui invece ne sarebbe stato arbitro un sovrano della stirpe dei Magadha che a quel tempo deteneva il potere sulla regione; in realtà si dubita fortemente che si sia mai tenuto e che sia stato inventato proprio per dare lustro al Mahāsaṅgha. Durante questo leggendario concilio la Grande Ecclesia, guidata dal Maestro Mahādeva, avrebbe visto affermare la supremazia dei propri indirizzi consolidando cinque punti fondamentali che divergono da quelli che per altre sette sarebbero invece gli insegnamenti del Buddha. I primi quattro punti si incentrano sulla figura dell’Arhat, l’uomo Santo che facendo proprie le Quattro Nobili Verità e seguendo disciplinatamente l’Ottuplice Sentiero è ormai ad un passo dal Nirvāņa da cui lo separa soltanto la morte in vita. L’assunzione di carattere di religione del Bauddha, per il popolo analfabeta e pragmatico, porta a considerare alcune caratteristiche della filosofia in modo letterale e a travisare la santità filosofica, proveniente dall’impegno nel percorrere la Via con la santità della purezza dello spirito e a considerarla inconcepibile in vita, vedendola come inumana e razionalmente irraggiungibile, ci si trova così a dover giustificare alcuni aspetti dello stato di Arhat che urtano con la quotidiana vita reale sminuendo la sua devozione e la sua capacità di essere d’esempio. Vengono così affermati quattro assunti che rendono possibile la definizione di Arhat che risulterebbe santo nonostante il verificarsi di particolari eventi.

 

L’Arhat può essere soggetto a polluzioni notturne, definito in questo caso Paropahŗta, sottoposto alle insidie tentatrici inviate in sogno dal demone Māra, è ovvio che un novizio che avesse trovato il suo Maestro con una bella macchia sulla veste, magari simile alla sua, possa aver dubitato della di lui pienezza nel Dharma considerandola un chiaro segno di debolezza e di non controllo del proprio corpo, per cui era necessario asserire che tale evento non sminuiva la qualità di Arhat. Può inoltre verificarsi che nonostante la sua profonda conoscenza nel Dharma, l’Arhat non necessariamente abbia la stessa conoscenza delle cose del mondo e tale rimarrebbe anche se sbagliasse strada o non conoscesse il nome di un fiore, questo aspetto è correttamente giustificabile anche dal fatto che la Via non porta alla conoscenza del mondano ma proprio al suo completo disconoscimento. Il terzo assunto afferma che pur privo di ogni dubbio sul Dharma, l’Arhat possa nutrire alcune incertezze su determinate questioni, d’altra parte se non potesse essere considerato Arhat nel Saṅgha di appartenenza lo diverrebbe in quello che potrebbe fondare di conseguenza. L’ultimo assunto sullo stato di Arhat introduce la definizione di Paravitīrṇa, ovvero diventato tale non per propria consapevolezza ma perché così è stato riconosciuto dagli altri, in questo modo era possibile “nominare” Arhat a piacimento rifacendosi all’affermazione del Buddha che comunicò ai suoi discepoli Maudgalyāyana e Śārīputra di essere divenuti Arhat. Tutti queste affermazioni si erano rese necessarie per giustificare lo stato di santità di personaggi che il popolo disconosceva come tali perché tali ovviamente non apparivano e questo atteggiamento aveva portato a una generale denigrazione del titolo sminuendo la figura di Arhat, impoverendone il potere religioso e non solo. Il quinto assunto determinato nel concilio fantasma riguarda invece la ormai radicata usanza Hindù di predicare, pregare e meditare utilizzando il sistema del mantra, il ripetere ossessivamente una parola o una frase fino ad attuare una sorta di autoipnosi capace di far sprofondare l’orante in una assoluta concentrazione, viene pertanto accettato che questo possa verificarsi a spregio del Saṅgha avversario che riteneva che tale attività potesse ricollegare la nuova filosofia alle pratiche religiose Hindù da cui invece il Bauddha intendeva distaccarsi. Al termine di questo fantomatico concilio gli avversari però perdono il confronto, tra l’altro non si conosce neppure la natura specifica di questo rivale, vagamente individuato nel Theravāda, la dottrina degli antichi, indicante allora tutto il panorama di sette non Mahāsaṅgha, forse proprio perché questo voleva presentarsi come il vero nuovo. Si rifaranno poi a questo appellativo i Saṅgha del Theravāda e del Sarvāstivāda per affermarsi non come antichi nel senso di ormai passati ma come veri e propri restauratori del vero Bauddha originale del Maestro. Come sempre ognuno può tranquillamente affermare di essere lui il vero depositario della vera e originale filosofia.

Il Mahāsaṅgha si afferma già da prima del 400 a.c. nei territori nord-orientali dell’India per poi espandersi dall’Afghanistan all’Indonesia, diffondendo i propri Bhikşu ovunque, con la veste rivoltata sulla spalla sinistra, la cintola stretta in vita e l’immancabile ciotola per le elemosine che però non potevano esservi depositate dentro ma dovevano essere messe a terra dall’offerente e successivamente raccolte, cosa che discorda con gli insegnamenti del Buddha il quale asseriva di non appropriarsi della cosa trovata ma di accettare invece la cosa donata, questo gesto si manifesta quindi come una chiara presa di distanza da questa affermazione.

La filosofia del Mahāsaṅgha, che si presenta come vincitrice contro la dottrina degli antichi, nel senso di superati, si rifà in realtà a concezioni arcaiche che il Bauddha di Siddhārta Gautama aveva superato con una concezione metafisica e incorporea dell’esistenza. Ne è esempio la considerazione che si ha della Citta, la mente come fenomeno complessivo degli atti compiuti, che viene considerata come materialmente reale con proprie consistenze e dimensioni che pervadono tutto il corpo e si estendono addirittura per il tramite delle sensazioni anche all’oggetto, questo aspetto troverà poi la sua pienezza nella diffusione del Mahāyāna suo diretto discendente. Punto focale della filosofia del Mahāsaṅgha è l’apprendimento delle Quattro Nobili Verità concepito come intuizione unitaria che giunge al momento della Bhāvanā, il culmine del processo di rappresentazione mentale dei loro contenuti e non come lento processo di assimilazione, cogliendone d’improvviso tutti i profondi significati in un sol momento. A questo è legata la figura del Buddha capace di instillare la Bhāvanā nel meditante; Buddha che non è mai stato vero corpo mondano su questa terra ma Lokottara, una realtà sovramondana impersonale, che si manifesta in apparizione, il Nirmāṇakāya, per diffondere il Dharma tra gli inconsapevoli nescienti e gli afflitti dal Duḥkha, fino ad affermare che gli atti corporei compiuti dal Nirmāṇakāya, come mangiare o lavarsi, sono compiuti dal per pura convenienza, insomma per non apparire strano, e non per necessità. Il fine di questa affermazione sta nel rendere inutile la venerazione di reliquie di un corpo che in realtà non c’è mai stato, è un Lokottara, una divinità astratta al mondo.

Buddha diviene quindi un dio, è Anantarūpakāya, termine che letteralmente designerebbe un corpo formale composto di atomi e sottoposto a sensazioni, ma affermandolo qui infinito, lo trasforma in Dharmadhātu, trascendente sfera del Dharma, inteso sì come Legge ma di più come Assoluto Assunto Universale, tutto, il tutto. È Anantaprabhāva, infinita potenza in possesso del dono dell’ubiquità in questo e in qualsiasi altro mondo. È Amytāyus, infinita esistenza, eterno. Onnisciente, esente dagli Āsrava e perennemente in Samādhi, ogni sua parola fa girare la ruota del Dharma, ogni suo proferire esterna, manifesta ed espone il Dharmadhātu nella sua completezza, rendendo appunto capace l’uditore di divenire nel Bhāvanā al solo ascolto di un'unica parola proferita. Buddha diviene quindi un dio che al solo pronunciare il verbo instilla la conoscenza in colui al quale ha deciso di riferirsi.

Questo allontanarsi dal discorso al Parco dei Cervi dà il via libera definitivo alla deriva del Bauddha in mille e mille rivoli, come già accaduto alla filosofia Hindù, che si sperderanno e si ritroveranno nel corso dei secoli. L’idea del Lokottara diviene Nikāya Lokottaravāda nella dottrina del Buddha sovramondano. Il Bhāvanā ispira gli Ekavyāvahārika singalesi sostenitori addirittura del Vyāvahāra, l’enunciazione con la relativa comprensione in un'unica soluzione, in primis da parte del Buddha stesso e poi di tutti coloro che ne hanno ricevuto direttamente l’insegnamento più profondo che arriva ad affermare, udite udite, che fra il Saṃsāra e il Nirvāṇa non c’è mica poi tutta questa gran differenza! Andando a sgretolare le fondamenta essenziali della filosofia di Siddhārta Gautama.

E intanto mentre Aśoka si adopera per convertire il popolo Hindù e oltre, alla religione Bauddha del Mahāsaṅgha con editti e inviti alla corretta Via, mentre muta la filosofia atea di Siddhārta Gautama in una religione che arriva a santificare il Buddha se non a affermarne la sua divinità e trasformare la sua presenza in terra come Avatara, mentre presiede il secondo concilio, se il primo c’è mai stato, nel tentativo di imporre la visione del Mahāsaṅgha come la più autorevole, chiaro strumento politico di tentativo di unificazione e cementazione sovrannazionale, la Grande Ecclesia si scioglie colando Nikāya dei quali, in alcuni casi, neppure gli studiosi contemporanei riescono ad individuarne le differenze, ma il popolo Hindù è fatto così, e forse lo sono fatti tutti, in ogni religione poi ognuno si costruisce un propria intima versione con un Canone tutto suo, ma l’Hindù invece non riesce a contenersi, osserva un culto e se in questo trova un ostacolo, lo elimina, fonda una religione tutta sua e si investe della carica di Gurū, ah no ma questo l’ha fatto anche Enrico VIII.

E dal Mahāsaṅgha si diramano i Gokulika, quelli della cenere in cui i Dharma si riducono arsi dalla conoscenza. Quelli del Gallo, votati all’ascesi intima e all’elucubrazione teoretica. I Bahuśrutīya, gli eruditi, che hanno molto udito, fondati nel 280 da un discepolo diretto del Buddha, Yājñavalkya di ritorno da un lunghissimo, circa duecento anni, ritiro sull’Himālaya, dediti agli aspetti sovramondani, che soli possono condurre all’illuminazione, tralasciando invece quelli meramente mondani considerati come accessori. I Prajñaptivāda fondati da Mahākātyāyana, anch’egli discepolo diretto del Buddha, ibernato per due secoli in un lago himālayano, i quali ritengono che tutto ciò che può avere una designazione linguistica, la Prajñapti appunto, è destituito di realtà per la corretta Verità Assoluta che porta all’illuminazione ma conveniente per l’erronea verità relativa della vita quotidiana, il pane non porta all’illuminazione ma intanto mangiamolo perché per lo meno passa la fame. E poi gli Andhaka, i Caityaśaila, i Pūrvaśaila, gli Aparaśaila. Tutti spazzati via dall’India e molti dalla storia quando nel 700 l’Islam travolgerà il subcontinente e l’antica religione Hindù ritornerà ad essere l’unica forza unificatrice per l’intero popolo indiano.

L’esplosione dei Nikāya e la loro necessità di addurre radici il più vicino possibile al Buddha, rendono ancora oggi difficile conoscerne l’esatta cronologia tanto che diviene dubbia anche l’origine del Bodhhisattva elemento centrale del Mahāyāna che potrebbe essere invece derivato dal Lokottaravāda, depositario della leggenda in cui questa entità, sorge dagli inferi per portare aiuto agli esseri umani e nell’ultimo concepimento entra nel grembo materno come elefante bianco, appare come feto ed esce dal fianco destro senza recare danno alla madre; ma alcune fonti indicano il Lokottaravāda come originatosi dal Gokulika e quindi non più preesistente al Mahāyāna e suo ispiratore ma sorto proprio per contrastarne l’espansione adducendo a sé l’origine del Bodhhisattva, ma poi ancora e ancora.

SARVĀSTIVĀDA

Momento cardine per l’affermazione e la diffusione del Bauddha in India e oltre è, un po’ per tutti, il celeberrimo secondo, sempre che il primo si sia veramente tenuto, concilio presieduto dall’immancabile sovrano della dinastia Maurya, Aśoka nel 250 a.c.. La tradizione del Theravāda, l’autorevolmente antico, l’attuale Nikāya singalese che si fregia di essere il diretto discendente del vincitore della disputa tenuta in occasione del secondo concilio, afferma che in quell’occasione venne dichiarata quale filosofia ufficialmente riconosciuta il Vaibhajyavāda, patrocinata dal Maestro Tişya Maudgalīputra, sostenitrice della Dottrina delle distinzioni fra pro e contro divulgata direttamente dal Buddha, favorita anche dalla decapitazione ordinata dal sovrano di numerosi scomodi e irruenti sostenitori dell’ortodossia Bauddha. Questa vittoria filosofica viene corroborata da notizie che vedono il principe Maurya, Mahendra in persona, recarsi ad evangelizzare i sudditi, annotando centinaia di migliaia di conversioni laiche e di novizi per ogni dove. Il Theravāda rafforza la tesi della diretta discendenza grazie ad un iscrizione risalente al 200 circa rinvenuta a Nāgārjunakoṇḍa, nell’Andhra Pradesh, in cui si ascrivono al Saṅgha dell’isola di Ceylon, l’odierno Srī-Lanka, numerose conversioni dentro e fuori dai confini indiani, con la fondazione di molteplici cenobi popolati da numerosi Bhikşu e novizi, anche in questo caso il dubbio è che non sia altro che un tentativo del Theravāda di costituirsi discendente della filosofia di Tişya Maudgalīputra al fine di radicarsi indietro il più possibile nel tempo per acquisire un valore di vicinanza al Buddha. Il dubbio è ulteriormente rafforzato dal fatto che in realtà poco si conosce dell’originale tesi di Tişya Maudgalīputra e dei suoi seguaci e il poco giunto ai nostri giorni spesso contrasta con l’odierna filosofia Theravāda e sovente proviene proprio dai diretti contendenti della benedizione regale disputata nell’ormai famoso secondo concilio. Ecco, appunto, ma chi erano gli sconfitti? Il Saṅgha che subisce lo scisma tra le mani di Aśoka è quello dello Sthaviravāda che vede appunto ufficializzare la scuola del Vaibhajyavāda ed ereticizzare la dottrina dello Yuktavāda, la Dottrina conforme a logica, professata dai seguaci del Sarvāstivāda, che tutto esiste, affermazione che ad una prima inorridita occhiata sembrerebbe in netto contrasto con il Bauddha ma che invece di esso si nutre in quanto quel tutto si riferisce solo e soltanto ai Dharma perché il resto è solo pura illusione. Il Sarvāstivāda, negletto scarto del Saṅgha, silenziosamente e con determinazione si afferma cospicuamente in tutte le regioni panindiane e oltre, ufficialmente definite dedite al Vaibhajyavāda, senza editti, senza steli, senza iscrizioni ma con numerosi e ampi testi che geograficamente si ritrovano dall’Afghanistan al Turkestan, al Kāśmīr, al Gāndhāra, al Bengala, con fedeli, cenobi e Bhikşu con la sopravveste di seta rosso scuro dai lembi cadenti, chiusi nelle loro celle riservate o a elemosinare direttamente nella loro ciotola attenendosi in questo ai dettami di Siddhārta Gautama.

Il Sarvāstivāda conoscerà gloria e successi per circa un millennio fino all’invasione islamica che spazzando via il Bauddha dall’India, decreta la scomparsa di tutti i Nikāya autoctoni lasciando al futuro le sole scuole cinese e singalese marginalmente toccate dalla conquista militare e dalla nuova affascinante religione, finalmente una vera religione, con un Paradiso e un guiderdone, pensarono.

Il periodo d’oro si colloca intorno al 100, in cui si tiene un concilio, senza conseguente scisma, presieduto dal sovrano del Kāśmīr, Kuşāna Kanişa, durante il quale vengono confermati i fondamenti della filosofia Sarvāstivāda contenuti nel corposo testo dell’Abhidharmajñānaprasthānaśāstra, il Testo Autorevole sui Capisaldi della Conoscenza dell’Abhidharma, attribuito variamente al Maestro Kātyāyanīputra o al monaco e poeta Aşvaghoşa e della sua ancor più consistente glossa dell’Abhidharmamahāvibhāşāśastra, il Trattato del Gran Commento sull’Abhidharma, appellato più semplicemente Mahāvibhāşā, attribuito alla collaborazione di cinquecento Arhat sotto la supervisione del monaco Vasumitra. Il testo integrale ci è stato tramandato nella versione cinese redatta da Xuanzang nel 659 e composta da ben duecento volumi.

Questi testi, che in maniera eccezionale sono giunti fino ai giorni nostri, devono forse la loro fortuita conservazione al fatto di essere stati gelosamente custoditi nei cenobi del Kāśmīr, tanto quanto la sua filosofia. Questo ha dato vita a leggende contrastanti sulla diffusione della filosofia fuori dalla regione, la prima racconta del Bhikşu Vasubhadra che dopo aver memorizzato l’intero scritto si finge pazzo per fuggire e divulgarne la filosofia; la seconda invece vede il Bhikşu Vasubandhu nel vicino Gāndhāra, che intorno al 350 dopo anni di profondo studio della Mahāvibhāşā sotto la guida del Maestro Buddhamitra e della filosofia rivale dei Sautrāntika, seguito dal Maestro Manoratha, si reca in Kāśmīr approfondisce ulteriormente i suoi studi sotto un altro Maestro, Sañghabhadra che poi lo allontana per i suoi dissennati comportamenti. Tornato in patria redige il risultato dei suoi lunghi anni di studio raccogliendoli nel testo Abhidharmakoşaśastra, il Trattato del Lessico dell’Abhidharma, in cui riassume in seicento strofe i contenuti della Mahāvibhāşā e subito dopo, forse Sañghabhadra non aveva torto, redige un commentario alla sua opera criticandone i contenuti con una visione Sautrāntika.

L’espansione del Sarvāstivāda lo porta ad acquisire importanza a livello continentale, affermandosi appellando i propri seguaci con il termine Vaibhāşika, i seguaci della Vibhāşā, quelli dell’alternativa, l’alternativa degli sconfitti alla declinante filosofia Vaibhajyavāda. Ma mentre nel loro titolo denigrano la filosofia avversaria per affossarla ulteriormente, sono loro i primi a venir malamente titolati da quella branca del Mahāsaṅgha che oggi è il Nikāya Bauddha più numeroso, il Mahāyāna, quel Grande Veicolo che si premura di assegnargli l’indelebile e gretto soprannome, successivamente destinato a qualsiasi altra filosofia non Mahāyāna, di Piccolo Veicolo, Hīnayāna.

Il fondamento della filosofia Sarvāstivāda sta nella coesistenza di tutti i Dharma del reale, chiari, palesi e senza tempo, anzi oltre il tempo, anzi in ogni tempo contemporaneamente, anzi ogni tempo è contemporaneo. In questa realtà si compongono diverse entità, quelle non composte, gli Asaṃskṛta che sono tre: lo spazio, lo Ākāśa, considerato una zona neutra incapace di agire e di generare eventi; il cessare non pianificato, lo Apratisaṃhkyanirodha, di tutte le cose, essendo esse stesse impermanenti, quindi la morte per gli elementi organici e il deperimento, il disgregamento e la distruzioni per gli elementi inorganici, per tutti i quali non è possibile stabilire esattamente quando questi cesseranno di essere;  infine il cessare pianificato, il Pratisaṃhkyanirodha, che indica un solo ed unico evento, l’accesso al Nirvāna. Vi sono poi le entità composte, quelle reali, quelle che permettono di percorrere la Via e giungere al Nirvāna, i Saṃskrta, che comprendono settantacinque diversi Dharma; la mente, il Citta; undici Dharma corporei, quarantasei Dharma mentali e quattordici extramentali; l’enunciazione, la descrizione e l’elencazione delle diverse peculiarità di questi Dharma la troviamo nella ricca letteratura espressa dalla filosofia Sarvāstivāda.

I Saṃskrta sono a loro volta tripartiti nel tempo fra passati, futuri e presenti in quanto l’esistenza non è solo quella dell’attimo che stiamo vivendo ma i tre tempi coesistono contemporaneamente per cui gli Enti coinvolti agiscono su tutti e tre i tempi, annullandone le distanze materiali. Nel momento in cui un evento ha il suo svolgimento questo coinvolge un oggetto che evidenzia l’evento, un senso coinvolto dall’oggetto, un contatto attraverso uno dei sensi e una innumerevole serie di stati mentali conseguenti all’evento. Nella comune concezione il fatto è circoscritto in un istante fine a se stesso che prima non c’era, sento un rumore e di conseguenza sussulto e mi immagino che qualcuno possa farmi del male, il rumore cessa e io mi tranquillizzo; la filosofia Sarvāstivāda analizza invece l’evento in una serie di microeventi non contemporanei ma conseguenti l’uno all’altro, stabilendo che l’evento “ho sentito un rumore e ho sussultato” non esiste di per se stesso ma solo come interazione di una serie di microeventi combinati fra di loro che solo con il loro continuare a sussistere permettono all’evento di dispiegarsi nella sua completezza. La spiegazione che ne viene data è nella parabola dei tre assassini: “Uno, che è il futuro, stana la vittima dal suo nascondiglio; un altro, il presente, l’afferra immobilizzandola; il terzo, il passato, la uccide.” Devo dire che non è stato semplice comprendere questa parabola e ho dovuto tentare empiricamente elaborando molte e diverse circostanze per accettare il fatto che chi uccide la vittima sia il passato, poi finalmente e devo dire casualmente, mi è venuto in aiuto un fisico tale Isaac Newton.

Stanco del suo lavoro e desideroso di un attimo di relax, il povero Isaac passeggia nelle campagne vicino casa e decide ad un certo punto di sedersi sotto un melo per goderne della frescura in quella calda giornata. È assorto tra mille pensieri, cercando invano di godersi l’azzurro del cielo, la brezza sul volto e il riposo delle membra; mentre la sua mente è assediata dai quesiti sui massimi sistemi accade l’impensabile, una mela cade sulla testa dello sfortunato Isaac scatenando una serie di eventi che ancora oggi hanno ripercussioni. L’evento visto da noi è: “cade una mela sulla testa di Isaac Newton e questi elabora le leggi della gravità.” L’evento analizzato secondo la filosofia Sarvāstivāda è invece:

cade una mela sulla testa di Isaac Newton;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton e questi sente dolore, ma questa è un’altra storia, anche se avrebbe il medesimo iter di analisi filosofica;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton e questi si domanda il perché;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton, questi si domanda il perché e teorizza una spiegazione;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton, questi si domanda il perché, teorizza una spiegazione e compie degli esperimenti;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton, questi si domanda il perché, teorizza una spiegazione, compie degli esperimenti e infine elabora una teoria sulla forza di gravità;

cade una mela sulla testa di Isaac Newton, questi si domanda il perché, teorizza una spiegazione, compie degli esperimenti, infine elabora una teoria sulla forza di gravità e circa duecento anni dopo un altro fisico, tale Albert Einstein, la supera con l’elaborazione della teoria della relatività.

Ecco il passato, il terzo assassino che uccide la vittima. Arriva il terzo assassino, il passato, la mela che cade e uccide la vittima ed elabora la teoria della relatività. In ogni stringa l’evento “cade una mela” continua a sussistere per permettere all’evento e a tutti i conseguenti eventi di verificarsi e di sussistere a loro volta. Per cui il passato non esiste perché è sempre presente, sia metaforicamente che temporalmente e il futuro non esiste, perché nel futuro è ancora presente il passato che lo ha generato che si ripresenta e si ripresenterà all’infinito. Il Big Bang è accaduto adesso quattro miliardi di anni fa ed è presente perché se non fosse presente non sarebbe più e se non fosse più cosa ci sarebbe adesso? Il Big Bang è accaduto adesso quattro miliardi di anni fa e l’universo ancora si sta espandendo, più presente di così. Quante volte abbiamo sentito dire frasi come: “ho faticato tanto, ho studiato tanto, ho sofferto tanto ma grazie a tutti quegli sforzi oggi sono un manager affermato, il presidente della Repubblica, un grande pianista, il capocannoniere della serie A; ed è grazie a quegli sforzi che oggi posso dire di essere arrivato e anche se in quei momenti ho sofferto mi hanno permesso di arrivare fino a qui” o più semplicemente “se non mi fossi rotto una gamba non avrei mai conosciuto l’infermiera che oggi è mia moglie, ringrazio il cielo di essermi rotto la gamba”. Ecco il passato, il terzo assassino che uccide la vittima. Arriva il terzo assassino, il passato, la gamba che si rompe e uccide la vittima e si sposa con l’infermiera. L’evento “gamba che si rompe” continua a sussistere per permettere all’evento e a tutti i conseguenti eventi di verificarsi e di sussistere a loro volta; evviva gli sposi.

Peggio dello spazio che è quasi inutile nella sua accidia ma ancora evidente nella sua manifestazione, il tempo diventa irreale, una convenzione, il Prajñaptimātra, che racchiude gli Kṣaṇa, eventi istantanei ancor più immediati di quanto noi si possa considerare l’attimo, che sono passati, presenti e futuri ma solo convenzionalmente per cui non si può dire che un evento è passato in assoluto o presente in assoluto o futuro in assoluto ma solo in relazione agli altri, come affermava il Maestro Buddhadeva nell’Anyonyathātatvavāda, la Dottrina delle distinzioni inerenti alle relazioni reciproche; in fondo, due giorni fa ieri era domani e domani, oggi sarà ieri. I Maestri Dharmaşrī, Upaśānta e Dharmastrāta inseriscono nella tesi del Bhāvavāda il Dravyasat, un ente sostanza che cambia il suo stato temporale, il Bhāva, senza che questi venga alterato, il futuro diviene presente per poi destinarsi al passato, domani diventa oggi per poi essere ieri; per cui qual è il tempo temporale di quel domani che analizziamo oggi quando è già divenuto ieri?


Ovviamente la filosofia non è fatta per assunti definitivi per cui ancora successivamente il Maestro Ghoṣa elabora nell’Abhidharmāmṛtarāsa, il Succo del nettare dell’Abhidharma, la teoria del Lakṣaṇavāda, la Dottrina delle caratteristiche intrinseche, che deriva dall’affermazione di Buddha in cui asserisce che tutti i Dharma nascono, invecchiano e periscono, anche i microeventi di conseguenza sono assoggettati ai Lakṣaṇa, genesi, alterazione e impermanenza, ma collegati ad essi soltanto di volta in volta e non in assoluto. Successivamente a questi viene aggiunto la Sthiti, la durata, necessaria solo per permettere la distinzione del succedersi degli eventi e non intesa come trascorrere del tempo dall’inizio alla fine di una circostanza, in quanto la filosofia afferma che le cose periscono continuamente: vedo un fiore, quel vedo un fiore non c’è più, perisce ed è sostituito da un nuovo e immediato vedo un fiore e così via.

Ancora Vasumitra propone la filosofia dell’Avastāvāda, la Dottrina della Condizione, affrontando il tema del Dravyasat e confermando che l’ente conserva la propria essenza nei tre stati, lo Svabhāva, la fiamma in questo momento è una fiamma ma lo sarà anche fra un attimo come lo era un attimo fa, ma ciò che le differenzia è il potenziale di agire, il Kāritra, che è esclusivo del presente e che conferma la possibilità all’ente di agire solo in questo stato temporale superando il concetto di presenza inalterabile del Bhāva; è adesso che la fiamma illumina, quella del passato ha perduto il Bhāva è non illumina più, quella del futuro non l’ha ancora conseguito. Assegna così all’ente lo stato di Avasthā, termine mutuato dall’analisi dell’addormentamento, in cui si passa dalla veglia al sogno al sonno profondo, rendendolo capace di mutare il proprio stato senza interventi esterni ma grazie al potenziale all’azione del Kāritra, solo la fiamma del presente può illuminare. Essendo stati introdotti da poco i numeri arabi, Vasumitra si pavoneggia della padronanza della novità con un ulteriore similitudine, affermando che la cifra ha un proprio valore in qualsiasi modo venga incolonnata ma ha il potenziale di cambiare il valore indicato a seconda che sia nella colonna delle unità, delle decine, delle centinaia e così via ma non cambia il proprio valore; la fiamma è sempre fiamma in qualsiasi stato temporale ma solo nel presente illumina; la cifra ha sempre lo stesso valore ma è occupando una determinata colonna che dà valore al numero indicato. Nonostante l’affermarsi del concetto di istantaneità dell’evento il Sarvāstivāda continua a rifiutare la possibilità del Vyāvahāra, continuando a considerare il raggiungimento dell’illuminazione graduale e articolato, necessitante di comprensione e accettazione delle Quattro Nobili Verità attraverso il passaggio dell’Ottuplice Sentiero che più volte afferma la necessità di più di un’esistenza per essere percorso completamente. Sì, è nel presente che raggiungo l’illuminazione ma solo perché nel passato ho seguito il Sentiero e solo nel futuro attingerò il Nirvāṇa.

Anche il Sarvāstivāda non è immune da controversie interne che portano a nuovi scismi, intorno al 200 a.c. si stacca la corrente degli Haimavata, gli Himalāyani, con un allineamento alle meno severe teorie del Mahāyāna. Alla morte del severo Maestro Kātyāyanīputra, concentrato quasi esclusivamente sull’Abhidharma a scapito degli altri testi canonici, una folta comunità si allontana per potersi dedicare allo studio di altre fonti Bauddha genericamente indicate come Sūtra.

Allo stesso modo intorno al 100 a.c., un altro gruppo si separa dai fermi conservatori dell’Abhidharma, per dedicarsi allo studio dei Sūtra, generando così la corrente dei Sautrāntika, quelli per cui i Sūtra sono il mezzo per la conoscenza, la filosofia che più li allontana dal Sarvāstivāda sta nella concezione della trasmigrazione dei cinque Skandha oltre la morte in esistenza, all’esistenza successiva e solo dopo l’approdo al Nirvāṇa questi periscono, questa teoria li fa appellare con il termine Saṃkrāntika, la comunità si volge anche alla tradizione nel tentativo di ritornare agli insegnamenti del discepolo di Buddha, Ananda. Il Sautrāntika rileva anche la necessità di una presenza superiore agli Skandha, la mente sottile, il Sūkşmacitta, con la funzione di radice comune, il Mūla, non manifesta ma conservatrice degli eventi passati. Per dare potenza alla teoria ne viene dato come promulgatore misterico il Buddha stesso che considerandola un evento potente e profondo si era ben guardato dal divulgarne la presenza per non rischiare che questa potesse essere scambiata o peggio considerata come un Ātman trasmigrante di vita in vita fino al Nirvāṇa, in realtà si manifesta come una rivisitazione con termini diversi del Mūlavijñāna del Mahāsaṅgha.

Vasumitra e Vasubandhu identificano un’altra corrente quella del Daṛṣṭāntika, che si autodefinita nata da uno scisma del 400 a.c., di cui non si avrebbero ulteriori notizie, operato dal Maestro Kumāraṭa ma della quale non sapevano indicare differenziazioni dai Sautrāntika, dando quasi l’impressione di pia volontà di sola creazione di un proprio autonomo Nikāya. Allo stesso modo si registra nel 400 un ulteriore scisma che dà origine al Mūlasarvāstivāda, i radicali del Sarvāstivāda, per il quale non si notano particolari differenze dalla filosofia originale se non una maggiore attenzione alle teorie fondamentali che dettero vita allo scisma originale.

Haimavata e Sautrāntika espongono come evento cardine della loro separazione dal Sarvāstivāda la non accettazione dell’esistenza del tempo come agente operante, considerandolo invece come lo spazio, neutro e non insistente sugli eventi. L’unica realtà accettata è quella del tempo sottile, il Sūkşamakāla, che annienta la Sthiti, e dà vita al Kşaṇamātrāstitva, l’esserci che non è che un attimo, un attimo che non ha neppure una microdurata, il suo giungere, l’Ātmalabha, la presa di l’Ātman, la presa di coscienza letteralmente, e il suo partire, il Vināśa, non sono successivi l’uno all’altro ma addirittura simultanei, per cui va a scomparire il momento in cui l’oggetto manifesta il Kāritra. L’illusione del trascorrere del tempo è data dal perdurare simultaneo dell’evento causa e dell’evento effetto che creano l’illusione del trascorrere del tempo perché non ci si accorge della loro eterogeneità; se ci fissassimo a guardare i capelli che crescono ci sembrerebbero sempre uguali, ma è solo con un osservazione fatta dopo lungo tempo che ci accorgiamo nel raffronto della diversità della lunghezza; come i fotogrammi di una pellicola che l’uno accanto all’altro appaiono uguali ma se ne prendiamo un metro il primo è completamente diverso dall’ultimo in realtà ognuno è diverso dal precedente e dal seguente come il Kşaṇamātrāstitva attraverso il quale, scomparso l’evento causa, l’evento effetto appare dal nulla e la cronologia diviene più che una convenzione, addirittura un’invenzione se non un vero e proprio errore, il tempo non esiste. Anzi nulla esiste ma tutto è solo una proiezione positiva della mente degli Apoha, le corrispondenti negazioni, l’esplicazione viene trasmessa attraverso il termine vacca, vaccità, l’essere vacca, il Gotva, considerato la messa in positivo della negazione dell’esistenza della vacca; l’affermazione: “quella è una vacca”, in realtà sarebbe: “quella non è una non vacca”. Poveri noi occidentali che al contrario ci perdiamo dietro affermazioni semplicistiche come: “Se sembra un'anatra, nuota come un'anatra e starnazza come un'anatra allora è un anatra!”

PUDGALAVĀDA

Non dobbiamo certo meravigliarci dell’inarrestabile forza dello scisma che sempre più diviene lo scisma dello scisma e porta anche i neonati Haimavata ad una ulteriore suddivisione, ad opera del Maestro Vātsīputra. La sua origine Brāhmanica, di casta, di cultura e anche un po’ di fede, lo porta a rinverdire i fasti dell’antica filosofia del Buddha come divulgata dal suo Discepolo prediletto Sārīputra, basata sul Pugdala, l’individuo, non in carne ovviamente ma come entità. Presente sul territorio dal 200 a.c. al 1000 circa il Pugdalavāda tenta, come già altre correnti avevano fatto prima, di rendere concepibile l’idea della trasmigrazione in assenza di Ātman. Questa volta il Gandharva prende il nome di Pugdala, mutuando un termine, pare più volte utilizzato dallo stesso Buddha, e assume una veste più materiale divenendo conduttore in qualche modo della psiche individuale insieme agli immancabili cinque Skandha; insomma, queste cinque entità, composte di accadimenti, sensazioni, fenomeni e altre essenze immateriali, come possono passare da un individuo all’altro trasportandone la coscienza, senza effettivamente lasciarla in eredità se non lo sporco di una coscienza sporca, se non c’è un guizzo, un’energia, un impulso che transita? Psicopompo è appunto in questo caso il Pugdala, l’individuo, l’individualità, quella specifica e speciale individualità che tutta unita trasporta i retaggi del passato tutti, depositandoli in un ignaro e obliante nuovo individuo. Assicura inoltre la Sākşīkṛtaparamārthena, ossia il fatto che è possibile affermarne l’esistenza dal punto di vista della realtà assoluta in modo immediato e diretto allo stesso modo in cui avviene per la filosofia Brāhmanica e qui emerge chiaramente l’influenza Hindù, che mai demorde, e ancora una volta occorre per conciliare la metafisica Bauddha con il materialismo umano. In più viene fatto del Pugdala non solo il sorreggitore del pesante fardello dei cinque Skandha ma il conquistatore del Nirvāṇa; assimilabile agli Skandha ma da loro diverso, non un Dharma, che comunque perisce, deperisce, muore ma un’imperitura entità che si spenge solo al Nirvāṇa. Convive con gli Skandha ma non è tra essi, non si trova né in essi né fuori da essi, non si può affermarne l’unicità o la molteplicità né permanenza o impermanenza e questo non solo quando è ormai disciolto al Nirvāṇa ma neanche in precedenza, c’è ma non lo si può determinare, un Mistero che ancora una volta favorisce il passaggio da filosofia a religione di quella che in principio era l’idea di Siddhārta Gautama.

Il Pugdalavāda riesce anche a mediare fra gli apprendisti e gli istantaneisti dell’Illuminazione con un equilibrismo lessicale; è vero come afferma il Sarvāstivāda che l’apprendimento è graduale, anzi ne determina tre specifici passaggi per ognuna delle Quattro Nobili Verità, ma dona ad un tredicesimo passaggio la particolarità di afferrarle tutte assieme completamente; il bianco è diverso dal nero ma ricordiamoci sempre che non possono mai mancare cinquanta sfumature di grigio.

Da un’idea così innovativa non potevano certo non nascere nuove scismatiche correnti, le quali il più delle volte manifestavano minime o addirittura inesistenti differenze: i Dharmottarīya, dal nome del fondatore Dharmottara, redattori di un Abhidharma del Pugdalavāda; i Bhadrayanīya, dal fondatore Bhadra; gli Şaṇnagarika, delle sei città; i Sammatīya, quelli di Sammata, che divengono il gruppo più numeroso della filosofia del Pugdalavāda, rappresentato da decine di migliaia di Bhikṣu disseminati in centinaia di cenobi sparsi nelle regioni del nord, in Indonesia e in Indocina fino a sostituirsi spesso ai fedeli del Sarvāstivāda. Meno dimessi nella loro veste di foggia femminile, lasciata fluttuare liberamente senza alcuna cinta. Dai Sammatīya ancora nel 600 si separano le correnti dei Avantaka e dei Kaurkulla, è comprensibile che la dilagante espansione e la distanza fisica dai centri fulcro della filosofia originaria porti, al fine di dare importanza e lustro al Nikāya, a identificarlo con la ben più ridotta comunità locale senza, molto spesso, operare un vero e proprio scisma dogmatico.

THERAVĀDA

La filosofia Theravāda si sviluppa su tesi che più che essere affermative di un’idea originale sono enunciate in aperta reazione a quelle del Mahāsaṅgha, del Sarvāstivāda e del Pugdalavāda e con questo manifesta la propria autonomia verso tali correnti considerate troppo innovative; allo stesso tempo mutua da tutte e tre quanto possa essere assimilabile, senza entrare in contrasto con un’idea sostenibile anzi mediando fra le incompatibilità che hanno causato tutti gli scismi precedenti, denigrandole si elegge come erede diretto del Sarvāstivāda e prima di questa, della corrente più antica dello Sthaviravāda. L’opera è compiuta, abbiamo una filosofia diversa da tutte le altre, abbiamo una filosofia che è già rodata e assimilata dal popolo ma anche dai potenti, abbiamo un’origine antichissima, tutti i crismi Hindù sono rispettati, siamo la religione del futuro.

Non è facile per una mente occidentale riuscire a comprendere come tutto questo possa accadere normalmente e con una semplicità disarmante; baste scrivere un testo in cui si citano affermazioni imputate a Buddha e in cui si menzionano re o Maestri di tempi lontani che tramandano altre affermazioni per finire con il confermare che la corrente neonata risale a mille anni prima appropriandosi di teorie, ideologie e santità espressione di altri, nemmeno nella più contorta e camaleontica politica occidentale si arriva a questo, anche se a volte ci si arriva davvero vicino. Ma come è possibile tutto questo, com’è possibile trovare le radici di una filosofia nei Veda di tremila anni prima che professavano un’ideologia completamente diversa. I Veda, come le maggiori ideologie religiose e filosofiche si affermano intorno al 3000 a.c. nel momento topico dell’umanità in cui stranamente tutte le culture sparse nel mondo arrivano a delineare una forma di scrittura. Nella maggior parte di queste la nuova meravigliosa scoperta porta alla fissazione di regole, dogmi e leggi, civili e religiose che per alcune saranno una condanna e per altre saranno la svolta. In India no, nel momento in cui tutto quello che viene detto può finalmente essere scritto e rimanere “per sempre” la casta religiosa impone che nulla deve essere scritto ma tramandato a voce. “Verba volant, scripta manent” sentenziava Caio Tito al Senato Romano, ammonendolo di far attenzione a ciò che veniva scritto proprio perché sarebbe rimasto. La visione degli antichi religiosi Veda deve essere stata particolarmente sciocca o particolarmente lungimirante, non fissare un canone per scritto porta con il tempo e nello spazio a poter attuare qualsiasi variazione, fosse stata voluta o necessaria, stravolgendo spesso l’idea originale; ma è questo un male? La fissazione per iscritto di un canone porta alla creazione di un Dogma, che nel tempo e nello spazio rimane immutato fino a divenire anacronistico o paradossale, costringendo spesso ad effettuare mirabolanti equilibrismi per attualizzare le metafore e le allegorie interpretative di leggi vecchie di duemila anni, concepite non per il futuro ma in base alle esigenze urgenti del momento e impedendo di poter arginare le sempre più numerose defezioni e gli allontanamenti da una concezione religiosa della vita. È ovvio che sia molto difficile in un mondo di divorzi comprendere perché questo debba impedire di avere altri rapporti sentimentali e carnali se si vuole continuare a frequentare la propria comunità religiosa. È ovvio che la monogamia imposta dalle religioni non trovi negli antichi testi la stessa corrispondenza in esimi rappresentanti della fede. È ovvio che sia difficile criticare la violenza se si professa una fede che afferma che uccidere chi ne professa altre non è peccato. È ovvio che qui si estremizzano le particolarità ma allo stesso modo le problematiche di deriva ideologica che la mancanza di un canone fissato e scritto nell’antichità possa portare, sono altrettanto rischiose. Questo atteggiamento ha condotto la cultura Hindù all’accettazione incondizionata di ogni nuova affermazione, allo stesso modo di come si dà valore ai Veda, alle enunciazioni Brahmāniche, alle parole di Siddhārta Gautama, a quelle di lui come Buddha, lo si dà a quelle che da queste sono elaborate e rese sempre più semplici, comprensibili e soprattutto pratiche e attuali; basti pensare che il Bauddha nasce come filosofia atea ma che per essere accettata dalla massa deve essere trasformata in religione e fornita di una sorta di escatologia. Lustro è nella cultura Hindù l’originalità, l’antichità e la popolarità e quindi ogni volta che si verifica uno scisma o lo si provoca, magari opportuno, magari frutto di una maturazione, magari fonte di crescita spirituale gli si deve comunque trovare il primato nell’idea, una fonte che lo riconduca a tempi antichissimi e la palese risposta alla richiesta popolare, quasi come se ci fosse una sorta di vergogna nell’innovare, come se ci fosse il timore di incorrere nelle ire delle antiche divinità e di rompere l’equilibrio universale professato dai Veda che alla fine è l’unica vera religione di tutto il subcontinente indiano e oriente limitrofo. Se non si ha paura di questo non si accettano le Caste, se non si ha paura di questo non si accetta l’ascetismo estremo dei Gurū, se non si ha paura di questo non si accetta con deferenza la conquista islamica, quella portoghese e quella inglese, se non si ha paura di questo però non si può nemmeno riuscire a vincere gli invasori senza la violenza.

Non è facile per una mente occidentale riuscire a comprendere come tutto questo possa accadere, noi così fermi, decisi, ingessati nelle nostre leggi immutabili, noi che crediamo che un argine possa fermare la forza di un fiume per sempre, noi che abbiamo visto bruciare Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola il 23 maggio 1498 e Giordano Bruno il 17 febbraio 1600; abbiamo visto scomunicare Martin Luther il 3 gennaio 1521 e aborrire le idee di Jehan Cauvin nel 1534, abbiamo rischiato che facesse la stessa fine perfino Giovanni di Pietro di Bernardone che invece è diventato San Francesco d’Assisi, noi che abbiamo istituito Crociate in ogni dove contro i nemici Pagani, noi che abbiamo invaso promettendo un paradiso di vergini, noi che abbiamo invaso e sterminato in nome di un dio che in quel momento non stavamo ascoltando.

Non è facile per una mente occidentale riuscire a comprendere come tutto questo possa accadere, forse però possiamo imparare.

Lasciamo così al Theravāda la sua gloria e lasciamo che muti nel tempo e nello spazio imparando e insegnando.

Ricostruendo i fatti, dal primo concilio il Mahāsaṅgha ne esce come fede regale e viene diffusa in tutto il subcontinente e anche oltre mentre il Nikāya avversario, già sommariamente identificato come Theravāda sembra uscirne sconfitto e dimenticato. Ma il volere regale non è completamente accolto dal popolo come Aśoka avrebbe voluto e le correnti continuano a divedersi e suddividersi senza posa. Dal Mahāsaṅgha si sviluppano le correnti del Vaibhajyavāda, quella sponsorizzata dal potere, e del Sarvāstivāda, avversata politicamente ma ben accolta dal popolo che la porta a diffondersi fino a sostituirsi all’avversaria. Sembra però che ogni volta che una corrente stia per divenire l’assoluto culto del subcontinente subito se ne presenti una nuova che viene inspiegabilmente ben accolta. Avversando quindi la filosofia del Sarvāstivāda si afferma quella del Mahīśāska, i Grandi Maestri dominatori della vasta Terra, per la quale si attesta la fondazione per mano di un ex re Brāhmaṇico fattosi Bhikşu, per la vicinanza della filosofia a quella del Vaibhajyavāda, si presume che il sovrano a cui ci si riferisca sia in realtà lo stesso Aśoka. Questa vicinanza però non è poi così contigua tanto che l’appellativo con cui si riconoscerebbe è Sthaviravāda, che in realtà sarebbe stata una filosofia contraria al Mahāsaṅgha, per cui per confondere meglio le acque viene utilizzato per individuarla l’appellativo di Theravāda, che sarebbe la traduzione del sanscrito Hindù nella lingua formale e in parte artificiale del Pāli, una lingua che viene appositamente concepita per differenziare i testi del Theravāda da tutti gli altri e che ne diviene poi definitivamente il linguaggio ufficiale. Ma il Mahīśāska, ossia il Theravāda, si forma e si conforma all’interno di comunità già formate e conformate e soprattutto affermate sia del Mahāsaṅgha che del Sarvāstivāda e questo lo porta ad assimilare e con-fondere le due filosofie mediando nelle peculiarità che più le allontanano. L’istantaneismo Sarvāstivāda contrasta notevolmente con l’apprendimento graduale del Mahāsaṅgha e il Theravāda ne miscela le contrastanti teorie enunciandone una rivoluzionaria che riesce a mettere d’accordo i diversi fedeli che possono finalmente professare comunitariamente lo stesso nuovo culto. Ecco l’uovo di Colombo, l’apprendimento delle Quattro Nobili Verità è allo stesso tempo graduale e istantaneo, se fosse graduale allora sarebbe sufficiente la comprensione della sola quarta Verità mentre Buddha asserisce l’importanza fondamentale della comprensione di tutte e quattro, per far sì che questo dettame sia rispettato si enuncia che al momento della comprensione profonda del Duḥkha tutte e quattro le verità contemporaneamente appaiono simultaneamente chiare e apprese nella loro singolarità e totalità.

Ovviamente per tradizione anche il Theravāda non si esime dal continuare a scindersi e separarsi come un’ameba. Nel nord-ovest dell’India si palesano i dissidenti del Dharmaguptaka, i Custodi del Dharma, fedeli agli insegnamenti del discepolo di Buddha, Maudgalyāyana, i quali affermavano che i doni della comunità laica dovevano essere offerti al Buddha e non al Saṅgha, dato che Questi non ne faceva parte direttamente e allo stesso modo era consigliato il culto delle Sue reliquie. Questa innovazione andava a contrastare completamente con l’uso Theravāda di presentare le offerte direttamente al Saṅgha in quanto Buddha ne faceva parte a prescindere in quanto Asceta Illuminato e inoltre essendo ormai asceso all’asettico Nirvāṇa non poteva certo essere gratificato da niente di mondano.

Nella stessa zona si attesta un altro Nikāya, quello dei Kāśyapīya, dal nome del fondatore, la cui filosofia cerca di mediare fra Sarvāstivāda e Vaibhajyavāda sul tema temporale affermando che in fondo sì, il passato esiste ma soltanto nel residuo non ancora maturato del Karman. E sì, il passato esiste perché è da lì che proviene il Karman, ereditato da esistenza in esistenza, che ancora deve essere disciolto, questo è indubbiamente, universalmente e occidentalmente logico.

Il Theravāda si afferma in modo quasi spropositato nell’isola di Ceylon, l’odierno Srī-Lanka, portando alla costruzione del Mahāvihāra, il Gran Cenobio nella capitale Anurādhapura. Varie vicissitudini politiche e religiose vedono la caduta e la gloria del Mahāvihāra, addirittura raso al suolo per poi essere ricostruito quale forte riaffermazione del Theravāda, le dispute interne alla comunità portano finalmente nel 20 a.c. alla redazione di un Canone in lingua Pāli, ordinata dal re Vaṭṭagāmaṇi Abhaya che in questo modo definisce e ufficializza sia il culto che la sua lingua ufficiale. Invasioni e riconquiste si sono susseguite nel corso dei secoli, addirittura dal Mahāvihāra parte, nel 109 a.c., una crociata contro le popolazioni del Tamilnāṭu governate dalla dinastia Coḷa, che mai avevano concretamente accettato la filosofia Bauddha ma che invece, pervase dall’incipiente Vedanta e dalla rinascita dell’identità Hindù erano pienamente convertite ai culti Śivaiti e Viṣṇuiti. Invasioni e riconquiste si sono susseguite nel corso dei secoli e nel completo silenzio mondiale sono continuate fino ad oggi generando e fomentando nello Srī-Lanka una sanguinosa guerra civile, parificabile al conflitto israelo-palestinese, che si consuma nel disinteresse di tutti e che divide in due il paese nella cui parte settentrionale ci sono ancora zono così pericolose in cui è assolutamente proibito andare, se lo si vede dalla parte dello Srī-Lanka e nel quale è proibito entrare se lo si vede dalla parte degli indipendentisti Tamil.

L’espandersi del Bauddha in India non aveva però modificato quella che era l’impostazione statale e religiosa del paese, d’altra parte la filosofia si disinteressava completamente dei fatti mondani, per cui le attività dei templi Hindù erano continuate pressoché normalmente ma a Ceylon invece prende sempre più campo lo svolgimento per mano dei Bhikşu, delle attività religiose rivolte al popolo provocando un considerevole aumento del numero dei monaci e un sempre più forte allontanamento della popolazione dalle tradizioni prettamente Hindù, trasponendo le divinità tra i Santi Bauddha fino alla creazione di veri e propri templi, i Devāla, in cui adorarli, fra questi Viṣṇu, Skanda e Gaṇeśa che vengono reinterpretati in forma di Bodhisattva; nessuno di loro può però essere invocato per favorire l’Illuminazione, esclusivo appannaggio del Buddha, ma solo per la soddisfazione di bisogni mondani e sempre dopo aver domandato il permesso al Buddha stesso.

La difficile vita del Theravāda a Ceylon vede un attimo di tregua nel 1160 quando Parakkamabāhi I riconquista l’isola e dopo aver riconvertito tutti i Bhikşu alla filosofia Theravāda ridando gloria al Mahāvihāra anche grazie alla nomina del Maestro Mahākassapa a Saṅgharāja, re del Saṅgha. La gloria dura fino al 1505, anno in cui le forze portoghesi invadono e conquistano tutte le zone costiere, convertendo sovrani e autorità alla religione Cattolica, fiammeggia in un barlume di identità nazionale nel 1753 con l’importazione di Bhikşu dal Siam, dato che non ve n’erano più di autoctoni, e la nomina a Saṅgharāja del primo singalese ordinato, Vāliviṭa Saraṇaṃkara, e declina nel 1795 con l’invasione inglese fino all’indipendenza conquistata nel 1948.

È proprio però grazie alla presenza inglese, al contrasto del Theravāda e alla conversione al Cristianesimo della popolazione singalese che il Bauddha avvia la propria espansione a livello mondiale. La conversione di Helena Petrovna Blavatsky e del compagno Henry Steel Olcott nel 1880 porta alla fondazione della Theosophic Society che sarà il trampolino di lancio della filosofia Bauddha in tutto l’occidente, seguita nel 1891 dalla fondazione a Kolkata della Mahābodhi Society da parte David Hewavitarne, emblema del modernismo missionario Theravāda che nel 1956 rimette piede nel continente con la conversione del leader degli “Intoccabili” Bhīmrao Rāmjī Ambedkār.

La filosofia Theravāda nasce sostanzialmente formulando teorie in aperta contrapposizione con le maggiori filosofie diffuse nel subcontinente: Mahāsaṅgha, Sarvāstivāda e Pugdalavāda; la spiritualità che aveva attraversato il paese con le aulenti teorie del proto-Sāṃkhya e la profondità Jaina, riporta la centralità del culto nello Arhat della cui purezza e santità non v’è alcun dubbio. L’Arhat ha di per sé abbandonato ogni impurità, è compenetrato nelle e dalle Quattro Nobili Verità e non può più decadere dalla raggiunta sublime condizione. È indenne al Kāma, non cede alle tentazioni, neppure quelle oniriche, liberato pertanto dalle polluzioni notturne; né dubbi né ignoranza lo possono assalire, tutto conosce e dal primo Dhyāna ha cessato di proferire suono; nessun merito gli si può ancora aggiungere come nessun demerito può portargli detrimento avendo ormai raggiunto la perfezione, nemmeno al momento della morte in vita. Nessun laico può divenire Arhat, né può rinascerlo, senza essere stato Bhikşu. La sua condizione spirituale niente ha a che vedere con il corpo materiale mondano che continuerà ad essere materia organica destinata al deperimento. Anche grazie alla sua condizione di santità si può dedurre che il passato non esiste, se esistesse l’Arhat non sarebbe tale perché continuerebbe ad avere gli attaccamenti che ha invece ormai abbandonato.

Il passato non esiste, perché se esistesse ci sarebbero quindici Skandha, i cinque del passato, quelli del presente e quelli del futuro, evento che non risulta mai proferito da alcuno.

I doni dei laici possono essere destinati indifferentemente al Saṅgha o al Buddha, realmente esistito, sublime e impareggiabile, il che comporta anche l’impossibilità della presenza di più Buddha contemporaneamente. Maestro infallibile, onnisciente e onniveggente, conosce le innumerevoli sue vite passate senza limiti di eventi e di tempo, conosce e vede ogni cosa grazie ai suoi poteri paranormali, conosce il possibile come possibile e l’impossibile come impossibile, gli eventi per come sono stati causati e come matureranno in base ai Karman passati, gli esiti dell’esercizio dei diversi stati di coscienza.

Infine, pur mantenendo la figura del Bodhisattva il Theravāda gli nega però la possibilità di decisione della propria rinascita al fine di operare il bene nelle circostanze più opportune, saranno le circostanze ad andargli incontro.

IL MAGRO BUDDHA INDIANO

MAHĀYĀNA

Diversamente dalle altre correnti Bauddha il Mahāyāna non nasce da uno scisma come gli altri Nikāya ma si forma e si conforma in modo spontaneo dagli scambi e dalle interazioni e integrazioni delle varie teorie filosofiche, tanto che contrariamente alle consuetudini Hindù, se un’idea ha rischiato di essere tacciata di eresia questa è proprio quella del Mahāyāna. Lungo le carovaniere del nord-ovest insieme alle merci viaggiano anche conoscenza, Bhikşu e idee e proprio su questo lungo tratto che si espande e si sviluppa il pensiero del Mahāyāna, dal Bangladesh lungo il Gange attraverso Mathurā fino a Lahore e perfino a Kabul, è questo il territorio lungo il quale la nuova religione va formandosi. I Bhikşu dei vari culti, ancorché rivali, si scambiano fattivamente le loro credenze e le loro conoscenze e un po’ da una e un po’ da un’altra, prende vita piano piano una nuova ideologia, come un amalgama dei vari pensieri; la fine attenzione al Buddha e al Bodhisattva del Mahāsaṅgha si contamina con l’istantaneismo e con la terminologia Sarvāstivāda e con i dubbi sulla sussistenza del Nirvāṇa originaria del Sūtrāntavāda, completandosi poi con il monismo Bahuśrutīya che affranca la nascente filosofia da questa stessa definizione integrandola a pieno titolo fra le religioni. La sua stessa costituzione porta facilmente a pensare che il nuovo culto abbia una sorgente popolare e laica, l’esaltazione del Bodhisattva e delle sue potenzialità salvifiche, taumaturgiche e miracolose è quanto di meglio un povero e ignorante laico potesse chiedere in sostituzione di uno statico Arhat dedito solo ed esclusivamente alla ricerca della propria e personalissima illuminazione; allo stesso tempo l’invito pedante dei Bhikşu agli stessi Bodhisattva a non entrare nel Nirvāṇa e continuare a insegnare il Dharma è essa stessa richiesta di aiuto salvifica; l’estensione ai laici del Praṇidhi, il voto a divenire Bodhisattva è il massimo dell’espressione popolare di una religione ma il corso della sua formazione indica invece che anche questa estensione popolare ha invece le solite origine Brahmāniche. Le caratteristiche della letteratura, gli ambiti monastici in cui i testi si sono formati e diffusi fino al carattere elitario dei destinatari del nuovo culto evangelizzato con modalità tanto misteriche che ad un certo punto lo portarono quasi a scomparire ne identificano indubbiamente uno sviluppo tutt’altro che laico, gli uditori, Śrāvaka, centrali nella diffusione Bauddha divengo, agli albori del Mahāyāna degli inopportuni approfittatori da escludere dalla conoscenza.

La diffusione si concretizza nella redazione di testi che ne diventano fondamentalmente il Canone nascente, i primi Sūtra cominciano a circolare intorno al 100 a.c. fino a circa il 400 per essere poi tradotti fra il 500 e il 700, dalla lingua artificiale del Sanscrito Bauddha, creata per uniformare le varie provenienze testuali, alla lingua comune e in modo particolare al cinese grazie all’esponenziale espansione che la religione avrà in tutta la Cina. L’esagerato uso di iperboli, il continuo richiamo a cori celesti, infiorate, lampi e terremoti, il pesante ricorso a prodigi ad ogni passo del Buddha fanno mettere questi testi all’indice dai puristi Bauddha, tacciandoli di corruzione delle menti e di infiltrazioni malefiche contro i seguaci Bauddha con dottrine erronee, la sempre più numerosa schiera di Buddha sovramondani, di Bodhisattva di enti mai pervenuti al Nirvāṇa e mai visti in terra come invece era accaduto per Siddhārta Gautama, il sistematico ricorso alla vacuità del tutto, la Śūnyatā e infine la celebrazione della Pratimokşa, la confessione comunitaria, praticata da soli dinanzi a trentacinque più che indulgenti Buddha senza la comminazione di alcuna delle sanzioni previste, l’affermazione che il Buddha sette anni dopo la prima volta torna a far girare la ruota del Dharma rivelando a pochi eletti il Mahāyāna contro l’affermazione purista che il Buddha “Nulla ha tenuto stretto nel pugno”, ne fanno infine dinanzi al mondo Bauddha una vera e propria eresia. E non possiamo certo dargli torto.

Il Mahāyāna oltre il misterico e finalmente accessibile a tutti, come in effetti professa, viene portato a conoscenza attraverso un corpus di testi che integrano la religione con la filosofia Bauddha.

I Prajñāpāramitāsūtra, i Sūtra della perfezione della Conoscenza, una serie di dialoghi fra il Buddha e Śarīputra o con il discepolo Subhūti, tenuti sullo storico Picco dell’Avvoltoio a Rājagṛha, tramite il quale, in modo didattico, viene esposto il pensiero del Mahāyāna in stile Abhidharmico. Nel testo sono contenute varie raccolte, contraddistinte dalla quantità di Sūtra che indicano la Via per la Conoscenza: lo Aṣṭasāhasrikāprajñāpāramitāsūtra, il Sūtra della Perfezione della Gnosi in otto migliaia di commi; il Daśasāhasrikāpāramitāsūtra, in dieci migliaia di commi; il Pañcaviṃśatisāhasrikāpāramitāsūtra, in venticinque migliaia; il Śatasāhasrikāpāramitāsūtra, in cento migliaia; il Saptaśatikāpāramitāsūtra, in sette centinaia; lo Adhyardhaatikāpāramitāsūtra, in un centinaio e mezzo; il Vajracchedikāpāramitāsūtra, il Sūtra del Diamante, il Sūtra della Perfezione della Gnosi ridotta ad una taglierina di Diamante, che sarà la fonte di un nuovo ulteriore Nikāya; il popolarissimo Prajñāpāramitāhṛdayasūtra, il Sūtra del Cuore, al cui interno si trova il Mantra alleviatore di ogni Duḥkha “Gate gate pāragate pārasaṃgate bodhi svāhā” “Oh andata, andata, andata all’altra riva, perfettamente andata all’altra riva, Bodhi! Benedizione”.

Il Saddharmapuṇḍarīkasūtra, il Sūtra del Loto, che sarà lo strumento prediletto per la diffusione del Mahāyāna in estremo oriente, ancora sul Picco dell’Avvoltoio il Buddha predica ai suoi discepoli a e al Bodhisattva Mañjuśrī lo Ekayāna, il veicolo unico per la liberazione valido per tutti gli esseri che sono suoi figli e di cui ha estrema cura.

Il Buddhāvataṃsakamahāvaipulyasūtra, il Gran Sūtra esteso della Ghirlanda del Buddha, in cui alcuni Bodhisattva istruiscono sui vari stadi del percorso per il raggiungimento della condizione di Bodhisattva, criticando lo stesso Śarīputra di non aver compreso i veri insegnamenti sul Dharma che afferma l’essenza del Buddha, quella realtà Assoluta che tutti gli esseri, ancorché inconsci di tale condizione, hanno presente in sé, i fenomeni sono solo e soltanto mentali e la realtà e la Gnosi le si attingeranno per il tramite della meditazione.

La Sukhāvati, dotata d’agio, il Sūtra della Terra Pura, esteso in due stesure classificate per la loro lunghezza a cui si aggiunge lo Amitāyurbuddhaadhyānasūtra meramente tecnico che introduce il culto devozionale ad Amitāba. In uno dei testi il Buddha Lokeśvararāja istruisce il Bhikşu Dharmākāra fino alla Bodhi, raggiunta la quale con l’occhio divino vede ventuno miliardi di Campi di Buddha, i Buddhakşetra, e forse ritenendo non fossero sufficienti ne produce uno tutto suo grazie ai meriti accumulati in innumerevoli vite, formula quarantotto voti e diviene il Buddha Amitābha, dall’infinito fulgore, mettendo a disposizione la sua neonata Terra Pura a coloro che lo mediteranno con il mantra “Namo Amitābha Buddhāya” “Prosternazione ad Amitābha Buddha” che successivamente si tradurranno in cinese con “Nanwu Omituo Fo” e in giapponese “Namu Amida Butsu”. In questi luoghi Amitābha è assistito dal Bodhisattva Avalokiteśvara, il Signore che guarda con la coda dell’occhio gli esseri pieno di pietà per loro, invocato contro l’infermità, negli incendi, nei naufragi e nei momenti di estremo pericolo, aiutando tutta l’umanità avendo fatto voto di non divenire al Nirvāṇa finché alcun essere sia più soggetto al Duḥka.

Il Mahāratnakūṭadharmaparyāyaśatasāhasrikāgrantha, Gran Libro in un centinaio di migliaia di commi della ordinata esposizione del Dharma del Picco di Gemme, una raccolta di quarantanove testi in centoventi volumi.

La Mahāvaipulyasūtra, i Sūtra della Gran Raccolta, contenente una raccolta dei testi meno antichi risalenti al 400 circa.

Il Vimalakīrtinirdeśasūtra, il Sūtra della dimostrazione di Vimalkīrti, una raccolta di testi fondamentale per la formazione dei laici.

Il Laṅkāvatārasūtra, il Sūtra della discesa a Ceylon del Buddha, influenzato dalla filosofia del Vijñānavāda.

I Sūtra di Kşitigarbha, all’interno del quale è presente la profezia della distruzione del Dharma dopo mille anni che si realizza con la distruzione dei cenobi della zona iranica a seguito dell’invasione degli Unni capeggiati da Mihirakula; nei Sūtra il Bodhisattva Kşitigarbha manifesta inoltre una preponderante influenza mediorientale sorta dalla venerazione ad opera del culto dei Manichei, il cui fondatore Mani asseriva di aver tra i suoi predecessori nella divulgazione della vera fede sia Cristo che Buddha.

Attraverso questi testi il Mahāyāna si pone come terzo veicolo dottrinale ma soprattutto, superiore agli altri, in primo luogo all’Hinayana, ossia tutte le filosofie ortodosse dal Mahāsaṅgha in poi, che evidenziano l’estrema difficolta per l’umanità tutta di giungere all’Illuminazione, la filosofia degli uditori, gli Śrāvaka; e in special modo ai Pratyekabuddha, quelli del Buddha per uno soltanto, che una volta giunti alla conoscenza, vuoi per incapacità vuoi per negligenza, non evangelizzano nessun altro, disperdendo inutilmente il loro sapere. A queste figure egoiste, che non si curano del popolo tutto affinché ognuno abbia la possibilità di elevarsi al Nirvāṇa, il Mahāyāna contrappone la centralissima struttura del Bodhisattva, nella sua elevazione a Bodhisattva, colui che ha la mente indirizzata alla Conoscenza, Mahāsattva, Grande Essere Generoso. Il Bodhisattva Mahāsattva ha come fine principale quello di rinascere un giorno in una figura eccelsa come lo stesso Siddhārta Gautama, predisposta a divenire Buddha e giunge a questo attraverso una serie incalcolabile di buone azioni che manifestano le sue virtù e gli fanno acquisire le trentasette membra della Bodhi, le Bodhyaṅga, necessarie per l’attingimento definitivo della Gnosi, simbolo dell’assoluto abbandono dell’Io e della completa dedizione e disponibilità verso gli altri.

Anche per l’essenza semidivina del Bodhisattva l’ottenimento delle piene capacità per divenire quello che il Cristianesimo potrebbe identificare con un Santo, con la differenza che il Santo è già in Paradiso e ha il solo potere di intercessione mentre il Bodhisattva rinuncia al Nirvāṇa fino alla completa salvezza dell’umanità operata direttamente da lui e solo dopo questa sente di meritarsi un Paradiso, comunque esso sia; deriva da un percorso di crescita ben preciso, inizialmente enumerato in sei diverse tappe denominate Terre, le Bodhisattvabhūmi, che successivamente, ritenute un po’ troppo poche sono divenute tredici.

La Pramuditā, la Rallegrata, in questa terra il Bodhisattva comprende la vacuità di tutti i Dharma, considerati privi di Svabhavā ossia della capacità di perpetuazione delle essenze peculiari dell’ente e pertanto illusori.

La Vimalā, l’Immacolata, qui accetta l’indistruttibilità del Karman operando di conseguenza al Śīlapāramitā, la Perfezione della Buona Condotta del codice, oserei dire deontologico, Bauddha.

La Prabhākarī, l’Illuminatrice, rinasce qui nella sfera del desiderio, il Kāmadāthu, dedicandosi alla meditazione esercitando la Perfezione della Pazienza, la Kşāntipāramitā.

La Arcişmati, la Fulgurea, qui ottiene le trentasette Bodhyaṅga, un po’ presto ma in origine questa era la Terra che apriva alle comprensioni e quindi forse rappresentava il momento in cui questo traguardo doveva essere raggiunto, rappresentate dalle sette Ali della Bodhi e dalle otto membra del Nobile Sentiero arrivando ad esercitare la Vīryapāramitā, la Perfezione della Virile Energia.

La Sudurjayā, l’Invicta, ottenute le capacità si prodiga nel prestare soccorso agli esseri umani, materialmente e per il tramite della redazione di testi; penetrando a fondo le Quattro Nobili Verità accede alla Dhyānapāramitā, la Perfezione della Meditazione.

La Abhimukhībodhisattvabhūmi, la Terra del Bodhisattva che fa fronte, qui raggiunge la piena comprensione della Pratītyasamutpāda, della cui celata oscuratezza già il Buddha ammoniva Ānanda e pratica la Prajñāpāramitā, la Perfezione della Saggezza.

Secondo il Mahāyāna la crescita spirituale del Bodhisattva per Śrāvaka e Pratyekabuddha termina a questo stadio e per manifestare e ostentare la propria grandezza ne aggiunge prima altre quattro e successivamente altre tre nelle quali il Bodhisattva arriva a padroneggiare gli aspetti più sottili, reconditi, del Dharma.

La Dūraṃgamā, che arriva da lontano, dove il Bodhisattva abbandona i punti di vista convenzionali Bauddha, per far proprio quello della Realtà Suprema, il Paramārtha, dove scompare la convenzione di causalità vanificata dall’onnipresente e indissolubile vacuità. Qui pratica la Upāyakauśalyapāramitā, la perfezione nella destrezza dell’uso degli espedienti, che mi piacerebbe sintetizzare con “opportunismo”, in quanto il fine sempre giustifica i mezzi grazie alla vacuità delle cose, ovvero siccome tutto è vacuità e illusione, quindi finzione, quindi non vero, quindi finto, quindi non esiste, qualsiasi mezzo è giustificato contro ciò che non esiste per giungere alla salvezza anche di un solo individuo; poi chiedetevi come mai i cinesi non concepiscono determinate limitazioni legali prettamente occidentali e nel contempo potete comprendere perché per un Cinese copiare, anche nel modo più sfacciato e spudorato sia una virtù mentre da noi è un reato. La Upāyakauśalyapāramitā concede al Bodhisattva la più ampia libertà d’azione se votata alla Bodhi, trasgredendo qualsiasi norma di condotta morale, prerogativa di Kşitigarbha, che ha per Utero la Terra, il Bodhisattva degli inferi, che per portare il proprio aiuto ai dannati infernali compie i crimini più orrendi in modo da rinascere tra di loro.

La Acalā, l’Inamovibile, ormai attinta l’assoluta impassibilità, domina l’Universo percependo ogni processo causale nei minimi particolari e conoscendone ogni singolo atomo; qui pratica la Praṇidhānapāramitā, la Perfezione del Voto, manifestandosi fantasmaticamente per aiutare l’umanità e purifica il Buddhakşetra che diverrà il suo proprio futuro personale paradiso, in cui accoglierà i suoi devoti.

La Sādhumatī, che possiede il bene, qui contempla le vicissitudini umane e la maturazione del loro Karman. La Conoscenza acquisita gli permette di padroneggiare le quattro Pratisaṃvit, consapevolezze relative ai Dharma e ai Nāman, gli identificativi, come contenuti esteriori dell’agire; le Cose, Artha, come contenuti interiori; la Nirukti, il loro collegamento; il Pratibhāna, il risplender di contro, che li mette in evidenza. Il suo stato lo porta a poter praticare la Balaparamitā, la Perfezione della Forza.

La Dharmameghabodhisattvabhūmi, la Terra del Bodhisattva della Nube del Dharma, appellativo Yoga con cui si indica il più alto stato di coscienza raggiungibile nella più elevata delle Samādhi, il massimo della concentrazione possibile. La Nube, già ripresa in diversi Sūtra, si rifà al monsone, il vento della fertilità, per un occidentale solo causa di disastri e inondazione, ma per un Hindù portatore di gioia, di refrigero, dissetante per ogni essere e per la terra, donando abbondanza e ricchezza, allo stesso modo in cui era considerata l’inondazione del Nilo nell’antico Egitto, che noi invece vedremmo soltanto come una dannosa esondazione. Ogni ostacolo alla conoscenza è abbattuto e il Bodhisattva arriva a praticare la Jñānapāramita, la Perfezione della Gnosi ricevendo l’Abhişeka, la consacrazione a Buddha che gli dona la possibilità di abitare il proprio Buddhakşetra amorevolmente preparato.

Nonostante già qui si manifesti l’apoteosi della Gnosi con feste e acclamazioni divine in ogni cielo, l’evolversi del Mahāyāna impone l’aggiunta di ulteriori tre terre.

La Samantaprabhā, l’Onnisplendente, in cui si materializza lo stato di Buddha.

La Nirupamā, senza paragone, in cui si esalta lo stato eccelso del Buddha.

La Jñānavatī, che possiede la Gnosi, in questo ultimo stadio si raggiunge la consapevolezza dell’illusorietà universale, nulla era ed è, nulla aveva sostanza né la ha, la Realtà già era tale prima dei tempi e in realtà nulla è accaduto e nulla è cambiato realmente. Tutto è vacuità, Śūnyatā, tutto viene deconcettualizzato in vacuità, i Dharma, gli Skandha, gli oggetti, le essenze, lo spazio, il tempo, gli enti fino a stordirsi vorticando inesorabilmente nella vacuità della vacuità, la Śūnyatāśūnyatā, che tanto ci ricorda la Vanitas Vanitatum, la Vanità delle Vanità del Qohelet Biblico. La Śūnyatā porta ad ordinare ogni elemento ed ogni pensiero nella vacuità, la Paramārthaśūnyatā, la realtà Assoluta è anch’essa vacuità; l’Abhāvaśūnyatā, anche il nulla è vacuità; fino al Nirvāṇaśūnyatā asserendo che “Non è che tu ti spenga con il Nirvāṇa: è in te che il Nirvāṇa è saldamente fondato, destituito di Buddha e di ciò che possa essere soggetto di Bodhi, assolutamente libero dai punti di vista di Sat e non-Sat”, siamo già quello che possiamo diventare, possiamo utilizzare ogni mezzo, senza obbligo di santificazione e di sacrificio, è il nostro fare che libererà il Nirvāṇa che siamo, scegliamo il Bodhisattva che preferiamo perché il suo Paradiso ci sta già aspettando. Beh, così è più facile vivere, mi piace; vaglielo a dire te ora alla mia ormai radicata coscienza Cristiana che nulla è peccato.

ŚŪNYAVĀDA

Con il nuovo stile inaugurato dal Mahāyāna, non nato da uno scisma, si vanno a formare nuovi indirizzi filosofici e religiosi che si presentano non in conflitto ma come semplici scuole di pensiero, espressione estrema di alcune delle tesi della nuova religione. Fra queste, estremizzando in modo paradossale i suggestivi misticismi della Jñānavatī, prende forma nel 200, per mano del Brāhmano Nāgārjuna, lo Śūnyvadā, la Dottrina del Vuoto, poi definita dai discepoli Madhyamaka, il Cammino Mediano, fra la negazione e l’affermazione, rifacendosi all’approccio silenzioso del Buddha nei confronti dei quesiti che gli venivano posti per i quali non era possibile una spiegazione razionale, o semplicemente in contraddizione con la filosofia; come quando gli viene posto il quesito sull’esistenza degli déi a cui non dette risposta. La filosofia non si basa sull’affermazione di una tesi, il suo unico intento è quello di smontare le tesi altrui, anche non Bauddha, in modo particolare sul tema dal Paramārtha e preferibilmente verso le tesi Sarvāstivāda; questa posizione rende ovviamente impossibile contestare la filosofia Śūnyvadā in quanto non v’è un Dogma da smontare o criticare ma la sola e onnipresente vacuità, bene o male comune a tutte le filosofie Bauddha.

Il fondatore Nāgārjuna, il cui nome non è conosciuto, deve il proprio appellativo alla leggenda che narra del suo viaggio nel regno subacqueo dei Nāga, i cobra divini depositari dei Sūtra del Mahāyāna, che gliene fanno dono. Il testo fondamentale del Śūnyvadā, ascritto a lui direttamente, è il Mūlamadhyamikakārikā, le Strofe radicali del Cammino Mediano; qui espone in maniera magistrale la Parīkşā, un esame particolarmente critico, demolendo sistematicamente tutte le tesi conosciute, accanendosi sull’Abhidharma e smontando la Pratītyasamutpāda rendendola emblema della vacuità, sradicando il sistema di causalità del concatenamento e interpretandolo come sussistenza dei Dharma, intesi come enti, eventi in dipendenza da altro, privandoli in questo modo di una loro propria essenza, lo Svābhāva. Con questa alienazione demolisce in modo essenziale i concetti di Io e Mio, causa primaria delle imperterrite rinascite, la Realtà diventa astrazione, non determinata, non condizionata, non costruita né riconducibile a nessun ente; nessuno, neanche Buddha influenza la Realtà in quanto “Non ha insegnato mai dovechessia un qualche Dharma a chicchessia”. Viene creato un modello interpretativo che esso stesso è destinato ad essere negato, il Catuşkoṭi, quadrangolo, espresso in quattro affermazioni di negazione; tutte le cose sono: così, non così, altresì così e insieme non così, né così né non così; sillogismi che ci ricordano gli insegnamenti di Socrate, Platone e Aristotele. Tutto è vacuità, che nella meditazione diventa allo stesso tempo lo strumento perfetto per la conoscenza e il rischio supremo dell’illusione.

Seguaci e discepoli provengono da ogni parte del subcontinente ma la filosofia si radica nel nord, oltre i confini, i testi sono tutti in tibetano o in cinese, subendo probabilmente la ripresa Hindù che lentamente riconquista fedeli fra le file Bauddha. Il primo discepolo diretto è Āryadeva, l’appellativo Ārya, nobili, viene adottato dai seguaci dal Śūnyvadā per autodefinirsi, non tanto a indicare una nobiltà feudale quanto una spirituale, a lui si devono i commenti alle opere di Nāgārjuna ma non è il più famoso. Tra i seguaci di Nāgārjuna si mettono in evidenza intorno al 470, Buddhapālita, ritenuto Avatāra del Bodhisattva Vimalakīrti e fondatore di una ulteriore scuola di pensiero, la Prāsaṅgika, la riduzione all’assurdo della teoria avversaria, e Bhāvaviveka suo contemporaneo e fondatore dell’avversa scuola del Svātantrika, che entra nella fattispecie. Mantenendo il quieto vivere della filosofia Mahāyāna, le due scuole convivono tranquillamente avversandosi senza contrastarsi fino a far convivere i diversi seguaci all’interno degli stessi Cenobi. La Prāsaṅgika di Buddhapālita si sviluppa semplicemente nello smantellare le altrui teorie senza approfondire lo specifico tema, divergendo dalle consuetudini della comune logica indiana; la Svātantrika di Bhāvaviveka esplicita invece sillogismi specifici sul tema, come è l’uso Hindù, ritenendo di compiere l’azione con un metodo razionale inconfutabile.

Il discepolo di Buddhapālita, Candrakīrti, nel commento Prasannapāda, dalle Parole Chiare, ribadisce la supremazia della Prāsaṅgika affermando che non è necessario esplicitare, perché se l’avversario non è in grado di formalizzare l’implicito sillogismo nella disputa, non sarà allo stesso modo in grado di comprendere e accettare qualsiasi esplicitazione gli sia fatta, come dico sempre io “Chi non capisce, non capirà mai”. Addirittura, si arriva a contestare la contestazione in quanto per controbattere una posizione se ne dovrebbe prendere una contraria, e il Śūnyvadā non ha posizioni proprie; solo in casi eccezionali è concesso, alla condizione, subito dopo, di confutare anche la tesi utilizzata per confutare la tesi avversa, in pratica ciò a cui assistiamo quotidianamente in politica, specialmente in Italia.

Nella Svātantrika si arriva con il tempo ad accettare la possibilità di eventi esterni alla mente, il Citta, divenendo Sautrātntika-Svātantrika, questo porta ad una ennesima scissione che porta i seguaci più vicini alle filosofie Mahāyāna della scuola Yogācāra a dar vita ad una nuova scuola di pensiero, gli Yogācāri-Svātantrika, che rifiutano invece questa tesi.

VIJÑĀNAVĀDA

Conosciuta comunemente come Yogācāra, il Vijñānavāda, la Dottrina dell’esser solo mente, conoscenza; rappresenta la seconda scuola, non scismatica, del Mahāyāna. L’ideologia arriva a negare l’esistenza di eventi esteriori alla mente e alle sue proprie dinamiche e sviluppando l’istantaneismo di derivazione Sautrātntika inserisce nella filosofia il concetto del Vijñāna deposito, un deposito della mente, definito Ālayavijñāna, come centro di raccolta dei microeventi coscienti che si susseguono indipendenti e universali, è qui, in questa sorta di subconscio comune a tutta l’umanità, che metaforicamente maturano i semi del Karman, pronti a sbocciare nel susseguirsi cronostorico del Pratītyasamutpāda. A fargli da contrapposto ci sono le esperienze individuali in singoli attimi indipendenti e personali che manifestano l’attaccamento insensato all’io e al sé nella personale manifestazione dell’egocentrismo. A separare questi due stagni di melma o meglio a congiungerli quale diaframma osmotico si trova il Manovijñāna, pronto a far defluire le rispettive cattive influenze, universali e personali per innescare la catena Karmica della Pratītyasamutpāda. L’ineluttabilità di questo eterno ripetersi può essere definitivamente bloccata attraverso l’intensa ricerca della Gnosi per il tramite di un vigoroso ricorso alla meditazione. La dedizione alla pratica genera come risultato la conoscenza capace di torrefare i semi del Karman impedendo la loro maturazione, rendendo infine la mente pura quanto la Realtà. Questo porta al capovolgimento dell’Ālayavijñāna che da ricettacolo del Duḥkha arriva a manifestare il suo aspetto originario, il volto impassibile del Buddha. Tutto questo accade nell’intimità del Citta mentre il mondo fuori continua imperturbabile ma ininfluente sulla profonda meditazione del pio praticante.

Le origini filosofiche si determinano intorno al 360 con la pubblicazione di una serie di testi, fra i quali l’Abhisamayālaṃkārakarikā, le Strofe dell’Ornamento della Super Comprensione, attribuiti al Bodhisattva Maitreya, che li avrebbe dettati, ogni notte per quattro mesi, al Maestro Asaṅga, recatosi a lui alla ricerca dell’insegnamento. Questi testi sono espressi in stile completamente diverso dai successivi testi ascrivibili direttamente ad Asaṅga, il Mahāyānasaṃgraha, il compendio del Mahāyāna, palesando una diversa fonte autorale che comunque viene divinamente attribuita ad un non meglio identificato Maitreyanātha, il Signore Maitreya. La fama e la gloria per la diffusione della filosofia Vijñānavāda sono però dovute al fratellastro Vasubandhu, inizialmente scettico e irrispettoso nei confronti di Asaṅga deriso per la quantità enorme di testi redatti, per i quali ci sarebbe voluto un elefante per trasportarli tutti. Vasubandhu, infine si converte divenendo lui stesso autore di commenti e testi e per la sua influenza presso la nobiltà della dinastia Gupta, in grado di diffondere il Vijñānavāda. La sua biografia racconta che ormai vecchio, intorno al 400, si sia lasciato morire dopo aver visto un Bhikşu arare i campi, atto da lui considerato un tragico segno della decadenza dei tempi; un monaco non dovrebbe certo consumare il proprio tempo al sostentamento che dovrebbe essere invece garantito dalle elemosine dei devoti che solo grazie al sacrificio di Bhikşu, Arhat e Bodhisattva possono sperare di giungere semmai un giorno a divenire nella Realtà.

VAJRAYĀNA

Intorno al 550 si sviluppa, soprattutto sull’altopiano tibetano, l’ultima scuola derivante dal Mahāyāna, comunemente conosciuto come Tantra Bauddha, il Vajrayāna, il Veicolo di Diamante, che manifesta subito le sue peculiarità esoteriche e misteriche, con l’intento di innalzarla ad un livello superiore a quello della Dottrina originaria del Mahāyāna, facendone la rivelazione di una terza nuova ruota del Dharma. L’evoluzione di questa filosofia è considerato un inevitabile adeguamento delle origini alla sempre più frequente diffusione di nuove figure di Buddha e Bodhisattva, sempre più divinità vere e proprie che Maestri, all’intenso ricorso ai mantra, aborriti dal Bauddha, al continuo scambio con altre culture e altre religioni, all’influenza delle scuole Śivaite e Vişnuite Hindù dedite alla ritualizzazione della fede, tanto che viene dato un valore particolare al Coito Rituale trasfigurato in atto sacro, pubblico e di estrema purezza. Nella sua mistificazione del Vangelo Dan Brown lo fa adottare come Hieros Gamos, matrimonio o meglio sesso sacro, ai componenti del Priorato di Sion, depositari del vero Santo Graal, proprio perché questo atto manifesta l’assoluta misterità ed estrema riservatezza della fede praticata.

La filosofia si diffonde fra il Bihar in India e il Bangladesh grazie alla dinastia Pāla dal 700 fino al 1200 circa, quando gli invasori Islamici distrussero i Cenobi con tale violenza da smantellarli pietra dopo pietra e gettarle nel fiume. Nel frattempo i Maestri Vajrayāna erano emigrati in luoghi più sicuri alle pendici dell’Himalāya e sui picchi più alti, dove già si era consolidata la fede grazie all’evangelizzazione e ai testi di Indrabhūti, autore della Jñānasiddhi, la Prova della Gnosi, e della sorella Laksmiṃkarā, autrice della Advayasiddhi, la Prova del Senza Dualità; da notare che i nomi con cui i due si presentano sono, forse, non quelli di battesimo ma sicuramente non appellativi Bauddha, a ulteriore manifestazione del sempre più evidente allontanamento dalla filosofia di Siddhārta Gautama; Indra e Laksmi sono divinità Hindù.

Testo importante per le disposizioni tecniche in esso contenute è l’impronunciabile Mahāvairocanābhisambodhiviruktādhiṣṭhānavaipulyasūtrendrarājanāmadharmaparyāya, risalente al 550 circa, abbreviato opportunamente in Mahāvairocanasūtra, l’esposizione ordinata del Dharma chiamata re degli Indra tra i Sūtra estesi, relativa alla Sede Illuminata della suprema perfetta Bodhi del Gran Vairocana. Nel testo vengono classificati dettagliatamente i Mantra e le centosessanta conformazioni mentali dei meditanti, viene inoltre descritta l’iconografia e gli attributi propri del Buddha Primordiale, l’Ādhibuddha, il Mahāvairocana, dal grande splendore, raffigurato da mille Buddha volti verso ogni direzione a indicare le forme proiettate in ogni mondo, simbolo da emulare per la sua trascendenza e allo stesso tempo immanenza, attinto all’apice della Gnosi, nel momento in cui il meditante se ne compenetra attingendo, allo stadio finale, la Bodhicitta. Nel testo vengono elencate tutte le sue manifestazioni a indicazione e conformazione di quello che poi diverrà il Pantheon del Mahāyāna, i guardiani dei punti cardinali, poi variamente appellati nelle varie trasposizioni, con al loro interno quattro dee, trentasette entità di diamante, acqua, aria, terra, fuoco, Ākāsa, l’etere; i cinque Skandha, la Gnosi e vari altri elementi, simboleggianti la Bodhi Primordiale, che tutti assieme costituiscono il corpo del Mahāvairocana. Questo disegno circolare si svilupperà col tempo e nello spazio nella realizzazione di nuovi cerchi con simbolismi sempre più estesi, semplici o complessi e che oggi sono conosciuti, disegnati e colorati da tutti senza conoscerne il misterico, esoterico ed evocativo significato, affermando semplicemente di aver fatto un Mandala.

Intorno al 700 il Maestro Nāghabodhi, originario di Ceylon ma Bhikşu al cenobio di Nālandā nel Bihar, redige un testo, dall’altrettanto lunghissimo e impronunciabile titolo, dal complesso significato di Sūtra Regale della Grande Era della Super Dottrina del Mahāyāna, sintesi della Realtà di tutti i Buddha enunciata sul Picco di Diamante, Vajraşekharasarvatathāgatattvasaṃgrahamahāyānābhisamayamahākalparājasūtra, che introduce il culto del Buddha Ākāśagarbha, di cui lo spazio è l’utero, in cui il Vinaya, la disciplina, è inteso come controllo dei sei Vijñāna, la coscienza, in cui il praticante fa voto assoluto di non creare più forme mentali né esteriori, annullandosi nella meditazione rituale. Si dà inoltre enfasi alla figura di Avalokiteśvara, con chiari richiami a Viṣṇu e Śiva della rinascita Hindù, e al suo Mantra “Oṁ maṇipadme hūṃ”, riferito alla conoscenza liberatrice, al suo fianco la divinità Mañjuśrī, patrono della Gnosi, invocato all’inizio di ogni testo Mahāyāna volto alla speculazione, al fine di eseguirla con la retta conoscenza.

Con l’evolversi della filosofia si arriva ad ammettere e negare ogni Dottrina già espressa e a commistionarla sempre più con le filosofie Hindù e Yoga, a portare all’esasperazione l’esoterismo e il misterico e infine l’intimo con il Śrīkālacakramūlatantra, il Libro Radicale del Venerando Kālacakra, ruota del tempo ovvero il Buddha Supremo. Il testo porta alla sacralizzazione del corpo come microcosmo dei sei Buddhadhātu, la natura del Buddha già presente in noi, posti nell’inguine, nell’ombelico, nel cuore, nella gola, nella fronte, al vertice della testa, da espletare con la respirazione che nelle varie fasi porta a rivivere le varie suddivisioni del tempo.

Nel Bengala, centro originario dello sviluppo della filosofia Vajrayāna, ancora nel 1000 circa si evolve l’ideologia con la scuola del Sahajiyā, Veicolo dell’esperienza spontanea del Reale, la quale rinnega la Dottrina del passato e afferma l’unità con l’Assoluto attraverso le sole pratiche Yoga e del Coito Rituale. Attraverso queste semplici procedure si può arrivare a comprendere che il mondo è Māyā e il Karman sarà arrestato ed eliminato. Questa illuminazione porta a comprendere che tutto è vacuità, per cui nulla può ancora essere legato dal Karman se non esiste, non v’è Ātman né non Ātman, il Nirvāņa è già in noi.

La leggenda vuole che il pellegrino Dharmasvāmin giunto a Nālandā vi trovò il novantenne Bhikşu Rāhulaśrībhadra dedito all’insegnamento della grammatica e non della fede, e sostentato dalle donazioni d’un allievo che avvisa il pellegrino dell’imminente arrivo degli invasori islamici. Dharmasvāmin decide così di salvare il vecchio e l’ultima luce del Vajrayāna, caricandoselo sulle spalle e portandolo in salvo. Abbandonava in questo modo l’India l’ultimo relitto del passato Bauddha.

SRĪ-LANKA

In Srī-Lanka il Bauddha, nella corrente Theravāda, arriva intorno al 250 durante il regno di Devānampiyatissa grazie all’iniziativa del re indiano Aśoka che invia immissari, per tutto il regno e oltre, a evangelizzare i propri sudditi e tutto il mondo Hindù, nell’isola di Ceylon invia il figlio, il monaco Mahinda. Per i singalesi, che ben accolgono la nuova filosofia, comincia però la lotta per la sua conservazione; circa cento anni dopo si verificano le prime ingerenze Tamil con l’invasione dell’isola, ingerenza che a tutt’oggi non è stata ancora risolta ed è fonte di scontri sanguinosi ed attentati, reintroducendo i riti Hindù Śivaiti e Viṣṇuiti avversati dalla popolazione indigena. Con la scomparsa del Bauddha dall’India, dal 1300 circa, insieme ai paesi dell’estremo oriente lo Srī-Lanka diviene depositario dell’originaria Dottrina di Siddhārta Gautama. Respinte le influenze Tamil comincia per l’isola un periodo di invasioni che mette a dura prova la fede ma che ogni volta ha visto rinascere il culto manifestando la profondità della fede e l’attaccamento alla filosofia. Nel 1505 arrivano i Portoghesi, che da bravi commercianti si accontentano di occupare le zone litoranee senza andarsi a cercare inutili conflitti di conquista, in fondo in un’isola il controllo militare dei porti rappresenta il controllo economico dell’intero paese. Sulla costa però la repressione è dura e la fede Bauddha viene bandita e perseguita, gli abitanti sono costretti alla conversione al cristianesimo nella versione Cattolica, intanto all’interno, sulle alture di Kandy e Anuradhapura, il Bauddha sopravvive e matura indisturbato. Nel 1656 i Portoghesi vengono sostituiti dagli Olandesi e si ripete la storia con l’aggravante del fatto che i Singalesi sono costretti ad una nuova conversione di massa al Protestantesimo. Poco prima che a loro volta fossero sostituiti dagli Inglesi nel 1796, gli Olandesi concessero la libertà religiosa che produsse in brevissimo tempo il totale ritorno alla confessione Bauddha di tutta la popolazione.

Durante tutto questo periodo lo Srī-Lanka vede l’evolversi sociale e politico del Saṅgha, indipendentemente da quale fosse la potenza ingerente di turno, mantenendo intatta e invariata la filosofia Theravāda. Vi sono lungo il cammino delle scissioni formali, che vedono formarsi tre principali correnti, Mahāvihāravāsin, Abhayagirivāsin e Jetavanavāsin non divergenti però sull’ideologia ma soltanto su questioni gerarchiche e politiche, è infatti la politica che, con Parākramabāhu I, nel 1170 riunifica coattamente tutte le correnti sotto la tradizione Mahāvihāravāsin. Sarà poi Parākramabāhu II circa cento anni dopo a consolidare l’ingerenza dello stato nella fede Bauddha. All’ordine viene data una conformazione gerarchica ben precisa suddividendolo in due sezioni i Gāmavāsin, i Monaci del Villaggio, e i Vanavāsin, i Monaci della Foresta. Al vertice di ognuna delle due sezioni presiedeva un Mahāthera, liberamente eletto dall’assemblea dei più apprezzati anziani Maestri, la libertà però aveva termine nel fatto che tali elezioni dovevano essere ratificate direttamente dal Sovrano, che in tal modo ovviamente gestiva completamente le sorti degli ordini. La differenza fra le due correnti era un po’ più che logistica, come si potrebbe evincere dall’appellativo ma prettamente spirituale, i Vanavāsin erano infatti Monaci, che potremmo considerare ortodossi, i quali ricercavano l’originaria meditazione, privata e intima, lontana dalle città senza la forzata condivisione della Via con i fedeli laici. La tradizione si è perpetrata fino ai giorni nostri nell’odierna corrente Syāmanikāya con i due rami del Malvatta e dell’Asgiri ai cui vertici allo stesso modo vengono eletti due Mahānāyakathera, nel corso del tempo alcuni re hanno nominato un capo supremo dell’ordine nella figura di Saṅgharāja, senza però dare una forma definitiva e continua a questa carica.

Il Theravāda singalese è ovviamente strettamente legato a quello di tutto l’estremo oriente in cui si è prima diffuso e poi ripetutamente confrontato, affermando la Dottrina originale del Buddha senza operare alcun cambiamento e ripugnando fermamente le ideologie Mahāyana ritenute più che un’eresia una vera e propria falsificazione. Allo stesso modo si è affermato il Canone Pāli, confermando tale idioma come eletto alla redazione e alla divulgazione della Dottrina, come i molti commentari che sono stati scritti nel tempo da vari Maestri, fra cui si evidenzia quello di Bhuddaghoşa che intorno al 500 espone in modo sistematico le Dottrine relative alla Via della Liberazione nel Visuddhimagga, il Sentiero verso la Purezza.

Pur nel tentativo imperterrito di mantenere il Bauddha una filosofia atea, nulla si è potuto però contro l’umano desiderio di devozione verso un Ente che, al momento della conversione di massa, la ha trasformata in una religione a tutti gli effetti e, anche se fra i precetti imprescindibili del Bauddha si annovera il bando a riti e cerimonie considerati impedimento alla Liberazione, quelli inizialmente introdotti, quasi a fini esclusivamente promozionale, si sono poi trasformati in tradizioni religiose di adorazione e venerazione non più estirpabili dagli usi dei fedeli. Si sono così sviluppati fra gli altri i riti di pellegrinaggio a cui è stato associato il conseguimento di un merito che però deve essere condiviso con l’universo tutto attraverso l’ulteriore rito del Pattānumodanā, l’adesione gioiosa all’acquisizione dei meriti, considerata a sua volta un merito, per cui il donante che disperde i meriti acquisiti ne acquista a sua volta di nuovi per l’ulteriore buona azione di condivisione compiuta. La Via della Liberazione viene tranquillamente lasciata ai pochi asceti che la intraprendono completamente e sentitamente mentre il popolo si appaga di condurre un’esistenza moralmente retta e di venerare religiosamente i propri idoli tra cui si annoverano anche i templi tanto che addirittura si arriva a formulare per uno di questi che “Se uno pratica l’adorazione nel tempio di Kelaniya, anche una sola volta, tutto il male che ha compiuto dal giorno della sua nascita gli viene perdonato”, facile così, piace anche a me, sarà perché in questa affermazione non si può fare a meno di notare una chiara influenza prettamente Cristiana. I pellegrini non si esimevano certo dall’avere mete predilette, in passato come oggi, come il Bodh Goya, luogo dove Siddhārta raggiunge l’illuminazione e Lumbini suo paese natale. I luoghi santi per eccellenza sono però oggi in Srī-Lanka e sono rappresentati dall’Albero della Bodhi ad Anuradhapura, dove venne innestata parte dell’albero originale sotto cui Siddhārta divenne il Buddha e Kandy dove è conservato un suo dente. Il Bauddha si è trovato altresì costretto ad assimilare i culti popolari preesistenti e le loro divinità accettandone la devozione e la venerazione, tanto da istituire un apposito preposto, il Kapurāla, Sacerdote degli déi, e permetterne la venerazione all’interno dei templi. Le antiche abitudini sono dure da sradicare anche per una filosofia così spirituale e profonda come il Bauddha, è sempre opportuno avere a portata di mano una divinità a cui rivolgersi direttamente ogni volta che noi non ci bastiamo.

LA TECA CON IL DENTE DI BUDDHA A KANDY

Il rapporto fra i praticanti e i Laici si conforma nella cura spirituale della comunità con esortazioni, prediche e benedizioni, ovviamente in Pāli che per il Theravāda è ancora oggi ciò che rappresentava il latino per il Cattolicesimo fino al Concilio Vaticano II, e nei riti presieduti dai Monaci e praticati dal popolo nei giorni canonici stabiliti, gli Uposatha; fra i riti non periodici è di particolare importanza il Paritta, una sorta di benedizione praticata in occasioni pubbliche sociali, per eventi locali ma anche per eventi familiari privati contro malattie e calamità varie. Nella pratica ascetica rimane però estremamente fondamentale la meditazione come unico strumento che manifesta l’accoglimento della Dottrina e unica vera Via per la Liberazione, per il Theravāda diviene quindi essenziale il testo del Satipaṭṭhānasutta, l’Insegnamento per tener desta l’Attenzione, contenuto anche nel Visuddhimagga e ancora oggi insegnato dai Maestri della meditazione, in cui si esplica la modalità per una completa e profonda meditazione con il mantenimento dell’attenzione all’oggetto senza distrazioni esterne, né interne. Tra le modalità con cui si affronta questa fase essenziale c’è il Dahammakāya, il Corpo della Dottrina, evento in cui si materializza misticamente una sfera di cristallo che magnetizza l’attenzione del meditante, questa pratica, di chiare origini Tantra, è stata assimilata durante i molteplici scambi che si sono susseguiti nei secoli con i seguaci Theravāda del continente che hanno subito maggiori influenze dalle altre correnti Bauddha.

Nonostante lo stesso Siddhārta Gautama, pur di origine aristocratiche, fosse avulso da ogni interesse politico e proprio grazie a questo il Bauddha si sia potuto diffondere universalmente in un paese invece drasticamente suddiviso in classi invalicabili, dal momento in cui il sovrano Aśoka, per spiritualità o per interesse politico, si converte al Bauddha, il Saṅgha e il potere non smetteranno più di intromettersi l’uno nell’altro alternando la supremazia dell’uno sull’altro anche se alla fine sarà sempre il Saṅgha ad ottenere una posizione dominante. A volte però l’ingerenza politica è stata salvifica come nell’istituzione del Sāsana, una riforma più volte affrontata nei secoli, che ha permesso di dare un ordinamento istituzionale al Saṅgha contrastando la degenerazione e la diffusione di Monaci espulsi che rientrano a praticare in altri cenobi o che addirittura arrivano ad ordinare altri monaci creando così una linea invalidata nella sua origine, questa pratica dissacrante portò nel 1770 il re Kīrti Śrī Rājasiṃha a invalidare l’ordine in essere e ad inviare una missione in Siam, ossia la Thailandia, per ripristinare la validità delle ordinazioni direttamente da Maestri considerati appartenenti ad una linea di ordinazioni valide che risalivano fino al Buddha, nasce così la corrente Syāmanikāya, gruppo Siamese, da cui nel 1800 si allontaneranno alcuni gruppi che si rivolgeranno alla linea di ordinazione della Birmania formando le correnti dell’Amarapuranikāya e del Rāmaññanikāya. Il sovrano si pone alla sommità del Saṅgha ma allo stesso tempo ne diviene difensore in quanto unico detentore di quel potere secolare capace di mettere in atto le punizioni comminate ai monaci. Il Sāsana ha portato anche più volte alla costituzione di Concili, oltre ai tre leggendari, tenuti nei vari paesi di diffusione del Theravāda, che hanno contribuito al mantenimento e alla trasmissione fedele delle scritture. Le numerose prescrizioni statali sono state raccolte dai monaci in ordinamenti religiosi chiamati Katikāvata in cui sono delineati anche gli assetti gerarchici dell’Ordine. Questa commistione ha portato il Theravāda a divenire in Birmania Religione di Stato, fino alla conquista Inglese, mentre in Thailandia lo è ancora oggi, ma soprattutto alla nascita di partiti politici di esplicita derivazione Bauddha che molta influenza hanno avuto e hanno in tutto l’estremo oriente.

Nonostante la forza e la spiritualità della filosofia ma anche del suo aspetto religioso, le numerose occupazioni, conversioni e riconversioni, le ordinazioni non valide, l’ingerenza politica nel Saṅgha portano ad un decadimento tale del Bauddha da temerne quasi l’estinzione, fu a questo punto che si rese necessaria una riforma che rendesse il Bauddha attuale, contemporaneo, contestuale all’evolversi del progresso tutto attorno e ispirandosi a quel progresso sorge una corrente di Modernismo Bauddha che in quanto Religione della Ragione, la contrappone elevandola all’opprimente Cristianesimo degli invasori basato su una fede cieca senza alcun fondamento razionale. Gli ideali morali patrocinati dal Cristianesimo non erano sua specifica peculiarità ma si potevano raggiungere e concretizzare anche senza dover concepire un Dio o un anima, i due temi che ognuna delle due fedi con due diverse tesi antitetiche affermavano di essere motivo di concreta consistenza della propria a scapito dell’altra; l’inesistenza di Dio e dell’anima affermavano la concretezza del Bauddha allo stesso modo in cui l’imprescindibile esistenza di Dio e dell’anima affermavano la concretezza del Cristianesimo.

L’evoluzione compiuta dal Bauddha ne dà una svolta sociale, non più una fuga dal mondo, come indubbiamente appare nel suo fondamento nella meditazione, ma strumento per trasformarlo e migliorarlo, non più introspezione, non più “io” ma “altro da me”, giustizia sociale, che favorisce i fedeli nel ritrovare una coscienza di sé stessi e che in più di un’occasione porterà ad una deriva socialista della filosofia. È proprio la contrapposizione con gli invasori che favorisce la nascita di questo nuovo sentimento, in fondo, nazionalista, proprio in Srī-Lanka, partendo dalla riforma della tradizione delle ordinazioni attraverso le successioni certificate dei monaci del Siam e dalla rifondazione delle scuole con due importanti sedi che successivamente saranno elevate al rango di università, il Vydyodaya-piriveṇa a Colombo e il Vidyālankāra-piriveṇa a Kelanya. Nella città di Matara si concentra invece il risveglio letterario, critico e speculativo Bauddha, fino ad arrivare a istituire delle vere e proprie dispute fra monaci Bauddha e Cristiani, una di queste, tenuta nel 1873, diverrà particolarmente famosa. La disputa di Panadura si tiene fra Mohoṭṭivattē Guṇānanda Thera e due monaci Cristiani, esponendo polemicamente entrambe le parti promuovono gli aspetti positivi della propria filosofia e quelli negativi dell’avversario; non è una disputa che porta esiti particolari ma il testo viene tradotto e pubblicato negli Stati Uniti da James Martin Peebles ma ancor più viene letto da Henry Steel Olcott che ne rimane affascinato e visita Ceylon con la compagna Helena Petrovna Blavatsky, la loro conversione porta alla fondazione della Buddhist Theosophical Society che farà conoscere il Bauddha al mondo intero.

Un altro importate passo nella universalizzazione del Bauddha lo compie questa volta un singalese Don David Hewavitarne, la cui esperienza del Cristianesimo Anglicano lo porta a una decisa e decisiva conversione al Bauddha con il nome di Anagarika Dharmapala, sentitamente avverso al Cristianesimo, che critica aspramente nei propri scritti divulgati a livello mondiale, collabora con Olcott con cui fa un viaggio in Giappone stabilendo per la prima volta i contatti fra i fedeli Bauddha dei due paesi nell’era moderna. Nel 1891 visita il Bodh Gaya, il luogo dove Siddhārta Gautama divenne il Buddha, trovandolo in estrema decadenza, nelle mani di un fedele Hindù, fonda così la Mahabodhi Society con lo scopo di renderlo al culto Bauddha. ciò avverrà solo nel 1949 e grazie ad una legge federale dello stato del Bihar, ma nel frattempo la Mahabodhi Society ha definitivamente reso il Bauddha una filosofia alla portata di tutti; non esattamente quanto si era prefisso Siddhārta Gautama.

I BUDDHA NELLE GROTTE TEMPIO DI DAMBULLA

L’odierno monachesimo Bauddha dello Srī-Lanka ricalca lo stile medioevale della tripartizione delle scuole, la Syāmanikāya che è rimasta fedele a sé stessa e fermamente conservatrice anche a causa del fatto che gli allievi vengono scelti e selezionati fra le caste più elevate; l’Amarapuranikāya e il Rāmaññanikāya accolgono tutti i fedeli indiscriminatamente e questo le ha portate ad essere più progressiste e tendenzialmente socialiste. La differenza fra le tre scuole è comunque prettamente nelle diverse organizzazioni gerarchiche. Le norme che regolano le varie scuole derivano sia da fonti canoniche che da leggi dello stato e non solo, ovviamente in primis il Vinaya del Theravāda ma anche il Diritto Romano, ebbene sì è arrivato pure lì, importato e integrato nel Bauddha con le leggi olandesi è appunto conosciuto come Roman Dutch Law. Lo stato ha più volte tentato di insinuarsi nelle decisioni religiose a volte ben accolto, come nel caso delle successioni dei superiori dei monasteri, i Vihārādhipati, che seguono l’anzianità di ordinazione, ma la maggior parte delle volte le leggi, britanniche ma anche singalesi, pur promulgate hanno difficilmente trovato applicazione. Ci ha provato senza successo Sir Arthur Gordon nel 1889, tentando di regolare le proprietà dei monasteri, che sulla costa sono limitate al Cenobio ma nell’interno si estendono in enormi proprietà terriere che portano ingenti introiti e pertanto potere. Nel 1956 è invece lo stesso Ordine che in parte riesce ad effettuare una riforma del Sāsana con conseguente riassetto del Sāṅgha, favorita dagli intenti sociali, dagli interventi a favore delle scuole, dall’apertura alla politica e soprattutto dalla richiesta di risarcimento, sfruttando il momento catartico della celebrazione del giubileo dei duemilacinquecento anni dalla morte in vita del Buddha e ovviamente della sua contestuale Illuminazione, secondo il calendario Theravāda. Una riforma che apre ad una nuova autocoscienza nazionalista, che già dal 1946 era propugnata dalle ideologie del Monaco Walpola Rahula attraverso il suo manifesto L’eredità del Monaco, Bhikşuvagē Urumaya e che sollecita l’ingresso del Bauddha nella vita politica del paese.

Nasce nel 1956 lo Srī-Lanka Freedom Party fondato da Solomon West Ridgeway Dias Bandaranaike, che guiderà la coalizione vincitrice delle elezioni, vengono avviate le riforme della scuola e il singalese diviene lingua nazionale, le scuole Bauddha più rinomate divengono università e viene istituita la Buddha Sāsana Commission per le riforme dell’ordine, le cui risultanze saranno però completamente disattese dalla ferma opposizione dell’ordine stesso che manifesta ancora una volta il proprio potere temporale. Nel 1960 Bandaranaike viene ucciso, pare per motivi non religiosi ma privati, dal Monaco Talduvē Somārāma con la complicità di altri due Monaci, fra cui un Vihārādhipati. Questo empio atto riduce l’ingerenza religiosa nella politica e favorisce l’ascesa al potere della consorte dell’assassinato, Sirimavo Ratwatte Dias Bandaranaike che porta avanti ideali socialisti in contrasto con il nazionalismo religioso, questo porta alla nascita del partito clandestino del Vimukti Peramuna, Fronte di Liberazione Nazionale, appoggiato da un gran numero di monaci, le cui manifestazioni estremiste furono aspramente represse nel sangue nel 1971 grazie al sostegno di potenze straniere. Nel 1974 Walpola Rahula dedicherà la traduzione in inglese del proprio scritto alle migliaia di monaci e degli altri rivoluzionari morti durante la dura repressione.

Nel 1983 ancora una volta nel tempo e nello spazio si apre una guerra religiosa fra la maggioranza Bauddha e la minoranza Hindù, con ripetuti atti terroristici che ancora oggi tormentano l’isola. La culla della spiritualità, dell’elevatezza, della filosofia di vita, dell’estraniarsi dal mondo, dell’aborrire il modo, della negazione del mondo, nulla ha potuto contro l’umana necessità di prevaricazione delle proprie pur sante ideologie su quelle pur sante degli altri.

BIRMANIA - MYANMAR

Anche in Birmania il Bauddha si diffonde, nelle sue varie coloriture, grazie all’evangelizzazione del sovrano indiano Aśoka. A occidente prende campo l’ideologia Mahāyāna e quella Tantra, mentre al sud nelle terre del popolo Mon, si afferma il Theravāda che intorno all’anno 1000, grazie ai favori del re Anuruddha proveniente dal nord, che dopo aver sconfitto i Mon ne assume in toto le scritture elevando il Theravāda a religione di stato su tutto il regno. Anche in questo caso gli déi originali non sono stati soppiantati dal culto Bauddha ma si sono inseriti fra le divinità complementari, Di notevole importanza sono i Nat, spesso personaggi storici morti di morte cruenta ma lo diventano tutti coloro che non muoiono di morte naturale, i loro spiriti si trovano ad inabitare gli elementi naturali, alberi, rocce, fiumi, vento e devono essere venerati al fine di non incorrere in incresciosi incidenti, da sempre presenti nelle case hanno trovato posto anche nei templi Bauddha; gli viene offerta una mezza noce di cocco verde ricolma d’acqua che al suo esaurirsi, ovvero quando il Nat ha bevuto, deve essere prontamente sostituita con nuova acqua fresca. Per quanto riguarda l’ordinamento dei Bhikşu una pratica diffusa in Birmania e nell’estremo oriente è quella del monachesimo temporale, i giovani fedeli possono entrare nell’ordine come novizi, Sāmaṇera, anche solo per un breve periodo, nel tempo questa usanza è divenuta sempre più comune e ritualizzata alla stregua di un cerimoniale di iniziazione e pochi rimangono nel Cenobio fino all’ordinazione definitiva di Upasampadā.

A conclusione delle conquiste le successive dinastie Pagan edificheranno nella capitale templi maestosi meta di numerosi pellegrinaggi, che saranno completamente distrutti nel 1287 nel corso dell’invasione mongola guidata da Kubilai Khan ma il Theravāda pur se non più tutelato da alcun sovrano rimane comunque il culto più diffuso, anche dopo l’invasione britannica conclusasi nel 1885. La conquista della Birmani fu lunga e cruenta, comincia nel 1826 durante il regno del dispotico Pagan Min cui succedette il mite Mindolin Min, il quale tentò di instaurare un regno Bauddha convocando nel 1871 il quinto Concilio Bauddha durante il quale fu rielaborato il Canone Pāli che il re fece incidere su settecentoventinove tavole di pietra esposte nella capitale Mandalay. Nel 1878 il successore Thibaw Min si dedicò più alla lotta contro gli Inglesi che alla religione e venne deposto nel 1885. Monaci e fedeli tentarono in ogni modo ma invano di opporsi all’invasione e la gerarchia dell’ordine venne lentamente smantellata fino alla morte dell’ultimo capo supremo, il Thathanabaing, nel 1895. Successivamente non vi fu più una direzione unificata che porto alla formazione di numerosi Nikāya indipendenti e fuori da ogni controllo centrale. Nel 1902 tale latitanza ha costretto i laici a portare avanti da soli una riforma del culto con la fondazione della Young Men’s Buddhist Association con fini nazionalistici e politici volti soprattutto alla liberazione del paese ottenuta solo nel 1949.

Mentre durante le dinastie regnanti l’ingerenza religiosa nella politica era proibita, al momento della conquista inglese si rese sempre più impellente un intervento dei monaci contro gli invasori, in questo caso però non fu il nazionalismo la leva di spinta ma, finalmente, ogni tanto, un motivo cultuale, agli occhi occidentali forse sciocco ma fondamentale in tante culture, quello del rispetto per il suolo calpestato; così importante da far scrivere al Monaco Ledy Saydaw un trattato “Sull’insolenza del portare le scarpe nei recinti delle Pagode”. La mancanza di rispetto patita era tale da far insorgere alcuni Monaci nel 1919, aggredendo degli occidentali che si erano introdotti, senza togliersi le scarpe, nella Pagoda Eindawya. I monaci vennero condannati ma il nazionalismo era alle porte e nel 1920 Monaci e laici fondarono il Geneeral Council of Bourmese Associations che da associazione religiosa si trasformò in men che non si dica in un movimento indipendentista che dette il via ad azioni anche particolarmente violente le cui repressioni elessero a martiri del Movimento Birmano di Liberazione due monaci morti in carcere, U Ottama e U Wizaya. La cecità nazionalista arrivò addirittura, nel 1938, a far compiere cruenti attentati contro le minoranze Hindù e nel 1948, dopo una breve occupazione giapponese l’Antifascist People’s Freedom League guido il paese verso l’indipendenza.

Nel 1949 il Presidente del Consiglio U Nusi ritrova un paese distrutto e tenta di risollevarne le sorti partendo da una congiunzione politico religiosa con l’emanazione di leggi sulla giurisdizione del Sāṅgha e sull’attività dei Cenobi. La più importante azione intrapresa fu però la convocazione del Sesto Concilio Bauddha, Chaṭṭa Saṅgāyāna, nel 1956 in commemorazione del giubileo dei duemilacinquecento anni dalla morte in vita del Buddha e ovviamente della sua contestuale Illuminazione, secondo il calendario Theravāda. In una grotta artificiale appositamente costruita nei pressi della pagoda Kaba-Aye, della Pace Universale, a Rangoon si incontrarono monaci di ogni parte del mondo Bauddha Theravāda. L’evento ebbe però anche risultati contrastanti in quanto celava l’intento del governo centrale di creare un’organizzazione unitaria di tutti i monaci sottostante al controllo governativo ma il contrasto a questo tentativo portò anche il fallimento del tentativo di confermare il Bauddha quale religione di stato proprio perché le manifestazioni contro il controllo rievocarono le violenze compiute trent’anni prima proprio dai religiosi. In questa incertezza politica nel 1962 ebbe la meglio il Generale Ne Win che assunse il potere con un colpo di stato instaurando un regime socialista, con l’intento di mediare fra tradizione e politica, fra la cosmologia Bauddha e il marxismo creando una nuova filosofia che trovava nel marxismo le giustificazioni del fatto che sia il regno decaduto che la nascente dittatura avevano il monopolio di quasi tutto il commercio, un modo sofisticato per tramandare un’usanza aristocratica nel socialismo. Nel 1979 anche Ne Win cerca di riorganizzare il Sāṅgha; supportato da sessantasei Saydaw, monaci anziani, convocò una conferenza generale nella grotta di Kaba-Aye a cui presero parte ben milleeduecentotrentacinque monaci. Il risultato fu l’unificazione di tutti i Nikāya esistenti in un unico organismo sottoposto al controllo del Governo Spirituale Centrale, unico organismo in grado di ordinare o estromettere i monaci, alla fine solo una dittatura poteva sottomettere il Sāṅgha. La dittatura socialista crolla sotto la spinta dell’insurrezione popolare che nel 1988 porta Aung San Suu Kyi a capo del governo dopo le libere elezioni del 1990 indette dalla nuova giunta militare, con a capo Saw Maung, insediatasi nel settembre del 1988 dopo la rivolta 8888, ma non ci arriverà perché le elezioni vengono annullate e Aung San Suu Kyi viene messa agli arresti domiciliari a prescindere e dalla propria abitazione guida la democratica rivolta che le vale il premio Nobel nel 1991. Nel frattempo la Birmania cambia il proprio nome in Myanmar, nel 2009 l’intromissione di uno statunitense in casa fa condannare Aung San Suu Kyi per violazione degli arresti domiciliari e l’avvio ai lavori forzati, nel 2010 approda in parlamento, nel 2015 vere elezioni portano la Lega Nazionale per la Democrazia al potere concedendole vari ministeri fino a nominarla de facto premier fino al nuovo arresto del 2021 a seguito di un nuovo colpo di stato che la condanna nuovamente per vari reati, inventati, presunti e assurdi fino ad accusarla di violazione delle leggi sull’emergenza Coronavirus, probabilmente l’hanno trovata senza mascherina. In tutto questo i monaci sono stati moderatamente attivi come ormai da oltre ottant’anni fatto salvo per alcuni casi sporadici cruentemente repressi, un’ombra poi si aggiunge a tutto questo dopo i misteri della repressione delle rivolte islamiche Rohingya del 2019, con la grave accusa di genocidio mossa Aung San Suu Kyi; anche se non palesi le radici Bauddha manifestano anche qui l’avversione verso quell’islam invasore mai integratosi nell’estremo oriente.

THAILANDIA

Intorno al 1300, il popolo Tai raggiunge l’indipendenza dalla dinastia Khmer imperante in Indocina e con il regno di Rāma Khamheng, il Bauddha Theravāda diviene la religione ufficiale del Siam, da cui la corrente Syāmanikāya dello Srī-Lanka. Il Bauddha come religione di stato e la buona amministrazione tenuta dalle dinastie regnanti dei Chakkri portarono la Thailandia ad essere l’unica nazione dell’estremo oriente non invasa né dai Britannici né dai Francesi. Durante il regno di Rāma III, Mongkut anziano monaco appellatosi Makuṭa, nota il decadimento a cui l’ordine si sta lentamente avviando e dopo aver incontrato alcuni monaci del popolo Mon, molto ligi alle norme monastiche, decide di assumere da loro la tradizione delle ordinazioni, fondando in questo modo una nuova scuola all’interno del Sāṅgha, il Dhammayuttikanikāya. La riforma, appoggiata dal sovrano diviene parte integrante dell’ecclesia siamese e Mongkut diviene re Rāma IV. Durante il suo regno si consolida il rapporto fra la politica e il Bauddha e anche la parte non riformata subisce un rinnovamento, pur rimanendo nella propria tradizione di ordinazioni, creando la corrente di maggior diffusione del Mahānikāya. La tradizione continua con il figlio Chulalongkorn, re Rāma V, conciliando la tradizione spirituale Bauddha con la modernità dei tempi e con la nomina del fratello Vajirañāṇa Varorasa a Saṅgharāja cementa definitivamente il rapporto fra stato e religione, anche perché questi si dimostrerà colta e lungimirante guida del Sāṅgha. Nel 1893 fonda la prima università Bauddha, la Mahamakut a Bangkok e nel 1913 pubblica il Vinayamukha, l’Ingresso nella Disciplina, che diviene la fonte di ispirazione per la modernizzazione del diritto monastico. Sotto la guida dei due fratelli si rinnova l’intero apparato gerarchico del Sāṅgha al cui vertice presiede istituzionalmente il re tramite la direzione operata dal Department of Religious Affair ma alla guida vi è il Saṅgharāja, figura già presente dal 1577, nominato e destituito dallo stesso re fra i quattro Samtec Braḥ Rāja Gaṇaḥ, i consiglieri, a loro volta eletti fra i Rāja Gaṇaḥ, i Superiori dei monasteri reali. Ogni Rāja Gaṇaḥ è affiancato da un monaco anziano con cui dirige una delle quattro diramazioni del Sāṅgha siamese: la regione a nord di Bangkok della scuola Mahānikāya; la regione a sud sempre della scuola Mahānikāya, come era appunto suddivisa già dal 1577; i Monaci Eremiti, Vipássanādhuraḥ, dediti alla meditazione e avulsi dall’insegnamento e infine il Dhammayuttikā, la scuola riformata. Nel 1902 l’ordine religioso si affranca parzialmente dagli influssi dell’amministrazione politica attraverso la creazione del Mahātherasamāgama, un organismo autonomo del Sāṅgha per la propria autodisciplina.

Dopo la morte di Chulalongkorn e nonostante la caduta della monarchia assoluta nel 1932 l’evoluzione moderna del Sāṅgha in Thailandia è proseguita modernizzando ancora l’ordinamento con l’avanzare del progresso, delle nuove possibilità e delle necessità che si andavano presentando, acquistando sempre più autonomia anche con un proprio tribunale ecclesiastico, fino al 1962 quando i poteri vengono riaccentrati nelle gerarchie centrali di nuovo sotto il controllo dello stato. Le possibilità di comunicazione date al Bauddha thailandese lo hanno reso il moderno punto di riferimento per il culto Theravāda capace di dar luogo a particolari espressioni religiose manifestate e divulgate da Monaci di alto spessore spirituale e teologico, facendo sempre più ricorso a tutti i mezzi di comunicazione più moderni con l’evolversi delle tecnologie sempre all’interno dell’ordinamento congiunto stato-Bauddha. Fra questi si sono distinti Phra Phuttathat, Buddhadāsa, monaco di grande cultura capace però di esporre il Dharma in forme semplici e attuali contestualizzate anche in ambito sociale e normativo; Phra Rajavaramuni, appellato Phrayud Payutto e Phra Thepwethi,, più tradizionalista ma, grazie ai suoi viaggi all’estero, anche nell’occidente, più esperto conoscitore delle esigenze del mondo tutto e Phra Mongkolthepmuni fondatore della corrente Thammakay dedita alle antiche pratiche di meditazione che, come in occidente, acquisisce sempre più adepti alla ricerca di quella pace interiore a cui il moderno mondano non lascia scampo. Essere tacciata quasi di eresia è invece la sorte toccata alla corrente di Phra Pothirak che impone severi e rigidi ordini di astinenze e regimi vegetariani; più di questi precetti ha contribuito però l’opposizione al controllo centrale a portare alla laicizzazione del leader e far sì che l’ordine venisse sciolto. Chissà se anche questa volta la lungimiranza del potere politico ha adottato il corretto criterio o abbia impedito un’evoluzione spirituale del Theravāda.

CAMBOGIA

In Cambogia il Bauddha Mahāyāna si affianca al culto Hindù già dal 800 con l’inizio della dinastia Khmer, che si fondava sul culto del re divino, e solo dal 1200 con Jayavarman VII, che si considerava incarnazione del Bodhisattva Avalokiteśvara, il Mahāyāna diviene la religione predominante ma solo per circa un secolo fino alla caduta dei Khmer. Successivamente e senza una forzatura autoritaria, il Theravāda si diffonde nelle classi inferiori, più bisognose come sempre e ovunque di speranze e di escatologia, oppresse dalle politiche statali e fedeli ai primi monaci Theravāda anch’essi di origine popolare, chiari nella fede e di modeste pretese, l’apostasia al culto del re divino mina l’autorità centrale, riducendone il potere e portando l’intero paese alla conversione. Il Sāṅgha si struttura sulla falsariga di quello thailandese senza una propria particolare evoluzione. La dominazione francese è una scelta politica operata da Ang Voddey, re Norodom, che si offre di passare sotto il protettorato di Francia per far sì che il proprio paese possa essere al sicuro dalle mire espansionistiche di Laos e Vietnam, ed è una dominazione indiretta che lascia comunque il potere nelle mani del re. Dal 1955 il regno del Principe Sihanuk favorisce un rinnovamento nel Bauddha con la fondazione dell’Università Bauddha Preah Sihanuk e la nascita dell’Institut Bouddhique. La deriva socialista intrapresa da Sihanuk porta però al malcontento del popolo e alla sua deposizione nel 1970 con la proclamazione della repubblica. La neonata amministrazione precipita però nel malgoverno e nella corruzione favorendo il successo della rivolta dei Khmer Rossi che a loro volta furono ancora peggiori, la dittatura comunista di Pol Pot, sostenuta dalla Cina, causa direttamente o per inedia più di tre milioni di morti e la scomparsa del Bauddha. L’invasione da parte del Vietnam pone fine all’eccidio e l’intervento delle Nazioni Unite riporta a una normalità che non sarà mai più tale. Il culto, praticato in esilio dai profughi, stenta a riaffermarsi e ancor più di prima si affida alla corrente thailandese per la propria rinascita spirituale ma anche culturale.

IL TEMPIO DI ANGKOR WAT IN CAMBOGIA

LAOS

Come naturale espansione di ogni cultura il Theravāda arriva in Laos intorno al 1300 dopo le influenze della maturazione thailandese e per il tramite delle migrazioni Thai e successivamente alla diffusione in Cambogia. Da sempre costantemente influenzato dalle mutazioni e dalle modernizzazioni che sono continuate nei secoli, con la Thailandia forma spiritualmente insieme anche alla Cambogia un unicum spirituale e teologico nutrito oggi dagli scambi culturali tra i tre paesi. La non opprimente dominazione francese e il regime comunista instaurato nel 1975 non hanno avuto particolari attenzioni negative verso il Sāṅgha che ancora oggi viene tollerato anche se tenuto costantemente sotto controllo al fine di individuare il benché minimo segnale di potenziale ingerenza politica.

VIETNAM

Come ulteriore e ultima diramazione il Theravāda thailandese arriva in Vietnam intorno al 1300 grazie ai domini delle dinastie cambogiane, trovandovi già diffuso il Mahāyāna cinese e addirittura lo Ju e il Dao, le prime conquiste degli occidentali portarono anche gran parte della popolazione alla conversione al Cristianesimo. Più volte invaso, conquistato, indipendente, conteso, luogo di una cruenta e inutile guerra farsa. Il monaco Thich Quang Duc si dà fuoco a Saigon per protesta contro il governo del cattolico Ngô Đình Diệm e la protesta vede proprio nei monaci Bauddha i rivoluzionari nonviolenti che insorgeranno contro il regime dittatoriale del Vietnam del Sud nel 1963, saranno i primi a pagarne le conseguenze insieme ad altre centinaia di migliaia di innocenti. Oggi nel Vietnam risorto si pratica prevalentemente il Bauddha Mahāyāna cinese.

INDONESIA

In Indonesia le culture indiane arrivano già trasformate e miscelate tra di loro in un sincretismo che si concreta in una pratica frammista fra Hindù e Bauddha che ancora lascia traccia di sé in una corrente definita Bauddha Śiva proprio a manifestare entrambe le religioni. Le invasioni islamiche portano in Indonesia il loro bagaglio religioso monoteista e questa nuova religione si diffonde velocemente in tutto il paese fino a divenire il culto ufficiale. Successivamente ad an tentativo di colpo di stato nel 1965 viene proibito il comunismo e per ostacolarlo, essendo fonte di ateismo, i cittadini indonesiani devono obbligatoriamente credere un dio e professare una delle sei religioni permesse: Islam, Cattolicesimo, Protestantesimo, Hindù, Bauddha e Ju. Ovviamente il Bauddha, primo non sarebbe una religione e sicuramente non crede in un dio, la presenza della fede nelle isole ha costretto però il governo ad includerlo nella lista e i fedeli ad inventarsi una soluzione che fu trovata nel 1970 da Jinarakkhita, trovando tra le pieghe dei testi più antichi un Buddha primordiale che in qualche modo poteva essere considerato una sorta di creatore e che espresse nella manifestazione dell’Adi Buddha. È grazie a Jinarakkhita se il Bauddha, riunito in associazioni comunitarie di tutte le correnti, lentamente si sta riproponendo come alternativa moderna per il ritorno al passato.

L’OCCIDENTE

La diffusione del Bauddha nel mondo occidentale industrializzato, in cui possiamo ricomprendere anche Sudafrica e Australia, avviene inizialmente soprattutto grazie ai numerosi immigrati provenienti dal Sudest Asiatico e successivamente alle migrazioni dalla Cina, solo nel secondo dopoguerra si diffondono anche le scuole Zen dal Giapppne e il Vajrayāna dal Tibet. Le prime conoscenze si hanno soltanto a livello intellettuale e prendono l’avvio nel 1710 grazie all’edizione della Teodicea del filosofo Gottrfried Wilhelm Leibniz in cui definisce il Bauddha come “La Dottrina secondo la quale tutta la realtà sarebbe da ricondursi al nulla come primo principio di tutte le cose”, la visione è ovviamente del tutto critica e completamente estranea all’ambiente indiano ma la curiosità comincia ad insinuarsi nei salotti europei. L’ingresso ufficiale avviene qualche decina di anni dopo per opera dell’orientalista filosofo Arthur Schopenauer che farà propria l’errata visione pessimista del Bauddha, con la sua rassegnazione nell’attesa di una morte in vita, di cui però tralascia l’attesa ad una nuova e migliore futura esistenza. Negli Stati Uniti circa centocinquant’anni dopo, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau lo presentano come la fonte di una nuova religiosità genuina mentre in Francia Eugène Burnouf nel 1844 pubblica la “Introduction à l’histoire du Bouddhisme indien” in cui elenca e ordina sistematicamente le conoscenze occidentali della filosofia indiana. Saranno poi Petrovna Blavatsky e il compagno Henry Steel Olcott nel 1880 con la costituzione della Theosophic Society a dare il definitivo lancio del Bauddha in tutto l’occidente. Allo stesso modo di come veniva presentata, la nuova filosofia si diffonde nell’alta borghesia come una nuova moda e talvolta viene vista e praticata come un hobby. Solo nella seconda metà del 1800 il Bauddha Theravāda muove i primi veri passi religiosi, soprattutto in Germania e Francia, meno in Gran Bretagna nonostante il plurimo rapporto diretto, grazie ai possedimenti coloniali, che probabilmente favorisce invece un distacco razzista con il mondo indiano.

A diffondere la filosofia orientale furono in modo maggiore quelle figure che già si muovevano in un mondo parallelo alla cristianità occidentale, appartenendo a gruppi occultisti, spiritisti se non addirittura anticristiani, che vedevano nell’esoticità del Bauddha uno strumento per la ricerca di una nuova religione non dogmatica e presentata come superiore dal punto di vista etico. Contribuì a questo anche l’opera del Maestro cingalese Anagārika Dharmapāla con la sua rivisitazione moderna del Bauddha a cui dà un’impronta sociale e politica arrivando ad includere i laici nel governo del Saṅgha. Parallelamente negli Stati Uniti decine di migliaia di immigrati cinesi fondavano numerosi templi sulla costa occidentale insieme ai loro omologhi giapponesi che per primi introducono il concetto di “setta” che tende a specificare il particolare ramo della religione il quale a volte mostra leggere differenze con gli altri ma spesso li distingue in modo marcato. In ogni caso, eccezion fatta per i nativi Bauddha, la diffusione avviene per il fascino che suscita sui nuovi adepti che la vedono come una religione della ragione, in cui la conoscenza si fonde con l’intelligenza e con le scienze naturali e con la natura tutta, con al fondo comunque sempre la visione di antitesi con la religione professata fino alla conversione, evidenziando il raggiungimento della salvezza non per una “Grazia” ma per l’azione morale individuale, i movimenti europei vedevano infatti nel Bauddha la possibilità di una rigenerazione morale del continente, che ovviamente non ci sarà.

Il primo dopoguerra vede l’aumento degli immigrati in Australia e negli Stati Uniti che conseguentemente porta ad una sempre maggior visibilità del culto e in Europa alla fondazione delle prime vere e proprie comunità di cui è esempio quella di Georg Grimm, presentata e ritenuta come comunità religiosa fermamente fondata sulla triplice Via di rifugio in Buddha, nel Dharma e nel Saṅgha alla stregua di un vero e proprio Nikāya. Fa storia a sé la Russia, in cui il Bauddha era diffuso in svariati territori limitrofi al subcontinente indiano e al Tibet ma era serenamente giunto fino alla capitale San Pietroburgo. La rivoluzione comunista porta all’annullamento di ogni tipo di religione, perfino quella atea Bauddha, con la distruzione o la chiusura di Templi, come per ogni altra fede, e alla terribile persecuzione stalinista. Solo con la fine del comunismo questa come tutte le altre fedi, sono potute uscire allo scoperto dopo decenni di resistenza nascosta.

Nel secondo dopoguerra si moltiplicano le sette e soprattutto negli Stati Uniti si diffonde la visione Zen giapponese introdotta dal Maestro Zen Suzuki che porta alla diffusione del metodo della meditazione e ancora una volta affascina le menti occidentali con il suo lato esotico, influenzando artisti e intellettuali della Beat Generation ed esportando lo Zen in Europa in cui introduce le varie sette e le ideologie di Suzuki che con la celeberrima opera di Eugen Herrigel “Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco” conferma la sua affermazione. In Germania arriva infine anche il Bauddha tibetano con la fondazione della sede europea della Ārya Maitreya Maṇḍala con la nomina a Lama di Ernst Lothar Hoffmann con il nome di Anagārika Govinda.

Dopo due secoli di conoscenza e vicissitudini, fra il 1960 e il 1970 la diffusione del Bauddha fra gli occidentali assume finalmente una forma non di simpatizzazione intellettuale ma di vero interesse religioso e spirituale anche grazie alla diffusione della setta giapponese della Sōka Gakkai che propone una filosofia laica alla portata delle chiuse menti occidentali. Prende sempre più campo anche la pratica della meditazione vista come fuga dalla quotidianità e si ripresenta attuale l’opera del 1922 di Herman Hesse “Siddharta” che vive una nuova fulgida fama.

Il ramo tibetano riprende vigore dal 1980 grazie alle visite ripetute di emissari e del Dalai Lama, operate per l’evangelizzazione ma più che altro per presentare il pressante problema dell’invasione cinese del Tibet, i seguaci e le sette sono prolificate, fino a diventare il culto Bauddha più diffuso in occidente ma nessuno ovviamente ha avanzato rimostranze politiche ufficiali nei confronti della Cina.

Allo stato dei fatti però le varie comunità rimangono comunque isolate fra di loro, pochi sono i contatti fra i paesi di origine e le comunità formatesi nei paesi in cui si sono recati i migranti, anche perché fondamentalmente a parte il culto tibetano tutte le altre scuole di pensiero non hanno alcun interesse alla diffusione e alla conversione e l’attaccamento al culto spesso è sviluppato solo per motivi nazionalistici in un paese straniero, questo porta anche a limitati contatti fra le varie comunità in occidente spesso molto diverse fra loro. In ogni caso la diffusione fra gli occidentali è quasi sempre dovuta ad una ricerca di spiritualità e di ritualità profonde e alla presenza preponderante di elementi mistici, questo ha portato alla scomparsa del Theravāda e all’affermazione dello Zen giapponese e della meditazione Tibetana, sempre nell’illusorio tentativo di riuscire a risvegliare moralmente una società spiritualmente votata al solo ed unico dio tangibile, uno e trino, Denaro, Potere e Sesso.

Il moderno Bauddha Theravāda ha provato nuove vie mischiandosi con le più svariate ideologia, dal Marxismo alla cultura occidentale. Soprattutto in Birmania e in Srī-Lanka sono stati fatti tentativi di trasformare il Bauddha in una religione di stato Marxista, attingendo alle concezioni in comune alle due filosofie, la disaffezione del Marxismo contro le religioni non aveva colpito il Bauddha, che infatti tale non è, e la contrarietà alla proprietà privata rendeva in fondo più semplice il sentiero per l’illuminazione, sottraendo all’individuo gli attaccamenti e le preoccupazioni che il “mio” lega alla mondanità, dando così la libertà di potersi seriamente occupare delle sole cose spirituali; la lotta per la sopravvivenza, la sete di ricchezza, l’accaparramento sono solo ostacoli alla pratica della meditazione. Marxismo e Bauddha in fondo mirano entrambi a ridurre la sofferenza nel mondo, la sofferenza del mondo. Questa commistione vede però il sovrastare del Comunismo sul Bauddha e la costante affermazione del primo a regolare il secondo, ben presto solo in Cina questa unificazione è rimasta, con le problematiche che sempre più si sono fatte notare nelle differenze emerse fra accettare e sottostare a una dittatura e la ricerca della beatitudine del Nirvāņa, è chiaro che il non occuparsi del mondo e delle sue calamità per affondarsi nell’intima meditazione è un buon strumento di potere per chi invece il mondo lo vuole dominare; se fossimo tutti buoni saremmo tutti felici, ma ne basta soltanto uno a rendere la vita degli altri un inferno. In occidente invece il Bauddha arriva con un aura di favola, mitizzato dal filosofo Arthur Shopenauer, un pessimista cosmico idolo di Giacomo Leopardi e del compositore Richard Wagner, che ritrova nell’ideologia Bauddha di infinita ricerca a abbandonare questo mondo indegno, tutti i suoi principi; niente da soddisfazione e ciò che dona effimera soddisfazione appena trovata annoia e spinge a trovare nuova effimera soddisfazione una sete che mai verrà placata, quella sete che Siddhārta Gautama ha spento dentro di se divenendo Buddha. Le pratiche Olistiche, lo Yoga, i corsi di meditazione sono le modalità con cui il frettoloso, crudele e ingordo occidente cerca vanamente di trovare il dio che crede di celare in sé stesso e un senso a questo mondo, con la pace, la calma e la tranquillità di una filosofia che in realtà afferma che questo mondo un senso non ce l’ha e che dio non esiste. Un ossimoro filosofico-religioso alla massima potenza.

GLOSSARIO

I REGNI CELESTI DEL DHYĀNA

Nel modello Cosmologico Bauddha sono parificati ai quattro stati meditativi del Dhyāna a cui il meditante diviene in grado di giungere, i diversi Regni Celesti in cui lo stesso perverrebbe qualora sopraggiungesse la morte.

Ai livelli del primo Dhyāna corrispondono i tre livelli del mondo di Brahmā, quello degli esseri della corte di Brahmā, i Brahmaparişadya; quello dei Brahmapurohita i sacerdoti intercessori Hindù e quello di Brahmā stesso circondato dalle divinità della sua sfera i Mahābrahma.

Ai livelli del secondo Dhyāna corrispondono le tre gerarchie divine: quella degli déi dal fulgore circoscritto, i Parītābha; quella degli déi dal fulgore incommensurabile, gli Apramāṇābha e quella degli déi dal fulgore possente, gli Ābhāsvara.

Ai livelli del terzo Dhyāna corrispondono altre tre gerarchie divine: quella degli déi dalla gloria circoscritta, i Parītaśubha; quella degli déi dalla gloria incommensurabile, gli Apramāṇasubha e quella degli déi tutta gloria, gli Śubhakṛtsna.

Ai livelli del quarto Dhyāna corrispondono sette cori di Beati: quello dei fruitori del Gran Frutto della loro Pratica, i Bṛhatphala; quello degli immobili Non Esperienti, gli Asaṃjñīn; quello dei Senza Sforzo, gli Avṛha; quello dei Senza Ardore Tormentoso, gli Atapa; quelli dotati di Corretta Vista, i Sudarśa; quello dei Bene Veggenti, i Sudarśin; quello dei Non Minimi, gli Akaṇişṭha;

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Ahimsā: l’astensione dalla violenza.

Arhat: chi ha raggiunto il quarto grado della perfezione ed è divenuto Santo, colui che ormai solo la morte in vita separa dal Nirvāņa.

Artha: il potere giustamente esercitato.

An-Ātman: il non io, l’accettazione del fatto che in realtà non esistiamo, siamo solo il semplice, inutile, gretto supporto del Karman.

Ātman: l’io umano, l’anima.

Avatāra: manifestazione materiale divina, i più famosi sono Kŗşņa e Rāma. Matsya, il pesce, ammonisce l’umanità al tempo del diluvio; Kūrma, la tartaruga, salva i tesori dal diluvio; Varāha, il cinghiale, solleva la terra dal diluvio; Narasimha, l’uomo leone, sconfigge i demoni; Vāmana, il nano, anche lui sconfigge i demoni; Paruśarāma, Rāma con l’ascia, sconfigge gli Ksatriya che minacciano il mondo; Rāma-Chandra, la virtù personificata, combatte il male; Kŗşņa, Avatāra/dio, il più popolare, la vera devozione; Buddha, l’illuminato, nella persona del Gautama Buddha; Kalki, il salvatore, giunge al termine del Kalyuga per ripristinare il Dharma.

Bhikşu: monaco, più precisamente il Questuante, l’asceta itinerante che si nutre solo del cibo questuato con la ciotola, la bhikşā.

Bráhman: l’essenza primaria originaria, il tutto, la realtà assoluta antecedente ad ogni altra entità; l’origine, la causa e il fine di ogni esistenza.

Brāhmaņo: sacerdote, appartenente alla classe sacerdotale, che ha studiato e vissuto per divenirlo.

Buddha: l’illuminato, il risvegliato, colui che ha compreso e raggiunto il Nirvāņa.

Cakra: la ruota simbolo del Samsāra, spesso raffigurata sotto le palme dei piedi di Buddha.

Dāna: l’elemosina.

Dharma: la regola di vita, la salvezza, l’equilibrio universale, il dovere del fedele.

Dhvaja: lo stendardo a forma di ombrello circolare, simbolo della vittoria della dottrina Bauddha.

Guru: sacerdote domestico ossia al servizio pubblico grazie al riconoscimento popolare della sua importanza.

Karman: l’agire, le azioni che a seconda che si attengano o meno al Dharma influenzano il destino dell’uomo portandolo al Pitŗyana o al Devayāna.

Lakşaņa: le peculiarità sovrumane ascritte a Siddhārta Gautama una volta divenuto Buddha, trentadue principali e ottanta secondarie. Vigile, controllato nei gesti e nelle parole, inviolato dall’ira e dallo sconforto, beatamente imperturbabile, assente al mondo. Le caratteristiche che spersonalizzano e disumanizzano Siddhārta per esaltarne la sua trasfigurazione in Buddha, Buddha esaurito nel Nirvāņa. Il corpo di Buddha sprigiona attorno a sé la Ketumālā, una ghirlanda di raggi luminosi fino a divenire un cerchio di luce intorno alla sua persona, il Prabhāmaṇḍala, un’aureola che rappresenta la ruota Bauddha, lo Śiraścakra, gli circonda la testa e al suo apice c’è una fiammella a una o tre cuspidi, la Jivālā. Il Buddha trasfigurato emana raggi di luce in ogni direzione che partono dall’Ūrṇā, il ciuffo lanoso che ha al centro delle sopracciglia.

Maṇḍala: contenere l’essenza, ciò che contiene l’essenza. Più conosciuto ciclo o cerchio, rappresentazione grafica colorata, con disegni particolari che rappresentano l’essenza in esso contenuta.

Mokşa: liberazione dal ciclo delle rinascite.

Pāśha: il cappio della compassione, attributo di Amoghapāśha con il quale cattura i credenti per il loro bene.

Sādhu: i buoni, i Santi, coloro che sono sulla via del Nirvāņa.

Saṃsāra: il ciclo di morti e rinascite, il lento e ciclico fluire e rifluire attraverso numerose vite.

Śīladhāna: il Tesoro della Condotta, i cinque precetti del Dharma dedicati ai fedeli laici che seguono la Dottrina senza intraprendere la via monacale; la non violenza, non appropriarsi di ciò che non viene dato, non indulgere in forme illecite di gratificazione sessuale, non mentire, non consumare bevande o sostanze inebrianti. A questi si aggiungono altri tre precetti: non mangiare in eccesso o al di fuori dalla consuetudine dei pasti, non lasciarsi andare in canti e balli e non assistervi, non incedere nella cura dell’aspetto e nella comodità. Una serie di comandamenti universali di bontà e umiltà attenendosi ai quali anche i laici possono avvicinarsi al Dharma da cui magari lasciarsi invadere nelle successive vite.

Śmŗti: la memoria, l’insieme dei testi e delle tradizioni che non appartengono alla Śruti ma che a questa comunque si attengono. Tutte le elaborazioni teologiche che non sono di origine divina ma che sono state affidate alla memoria perché ritenute degne di essere ricordate.

Śramaņa: asceti laici ma anche indovini, maghi e falsi Guru.

Śruti: l’ascolto, l’ascoltato e l’ascoltare. L’ascolto della parola, la parola ascoltata e l’ascoltare la parola. Questa parola è il Veda, dunque le scritture nella totalità della sua originaria origine verbale tramandata dai Rishis che hanno compartecipato in prima persona alla rivelazione fatta direttamente da Dio. L’espressione sonora del Dharma, il Verbo.

Stūpa: i templi Bauddha.

Theravāda: filosofia ortodossa Bauddha che avoca a sé l’originarietà dell’ideologia di Siddhārta, si contrappone all’evoluzione filosofica del Mahāyāna. Viene professata in Srī-Lanka, Birmania, Thailandia e Cambogia come Religione di Stato.

Upanişad: speculazione sui Veda, letteralmente raffigura l‘atto dell’insegnamento, sedere in basso vicino al maestro.

Upāsaka: i fedeli Bauddha, gli accoliti auditori, i laici che seguono il Dharma.

Upāya: mezzi di redenzione attuati dai Bodhisattva per favorire il raggiungimento dell’illuminazione a tutta l’umanità.

Vajra: la spada dei protettori della dottrina Bauddha, forgiata dal fulmine nella pietra di meteora.

Vaŗna: colore, la suddivisione in caste della società Hindù. All’apice i Brāhmaņi, i sacerdoti, il Sacro della tripartizione dell’orientalista Dumezil; seguono gli Kşatriya, l’esercito e la forza politica, il Militare; infine, i Vaiśya, i commercianti e gli artigiani, l’Economico. Si aggiungono poi i Sūdra, i servi e i fuori casta, gli intoccabili eredi degli indigeni Indiani conquistati e assoggettati.

Yoga: insieme delle modalità atte all’introspezione, alla ricerca di sé. Dalla radice Yuj, mettere al giogo. Il metodo per mettere al giogo, tutti i desideri e le mondanità per raggiungere la Mokşa.

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ACALA: protettore della dottrina Bauddha, la sua immagine digrignante i denti, con sei braccia e tre occhi è posta davanti al tempio per respingere i nemici della dottrina Bauddha, armato di cappio, scure e di spada, la Vajra, forgiata dal fulmine nella pietra di meteora.

ĀDIBUDDHA: il Buddha primigenio, l’idea di un Buddha esistente da sempre, attraverso lo sviluppo contemplativo di sé stesso crea i cinque Dhyāni-Buddha, i Buddha della contemplazione. A loro volta essi creano i cinque Dhyāni-Bodhisattva i quali con creazioni successive creano l’universo. Il creatore originario, Vajradhara, che porta la pietra del fulmine, identificato anche con Vairocana e con Vajrasattva. Alcune dottrine lo considerano Kālacakra, ruota del tempo, in cui si riconosce che non esiste mondo reale al di fuori del Tutto-Uno, e si trova la compassione che conduce alla salvezza.

ĀKĀSHAGARBHA: la cui origine è l’etere, divinità celeste, Bodhisattva il cui appellativo è Khagarbha, il cui grembo è il cielo. Nelle raffigurazioni seduto tiene in mano un loto è un piccolo sole la cui luce pervade l’etere, in quelle in piedi tiene nella sinistra un invisibile gioiello magico che esaudisce i desideri.

AKŞHOBHYA: l’incrollabile, sua Vāhana una coppia di elefanti, uno dei cinque Dhyāni-Buddha, ipostasi del Gautama Buddha prodottasi quando questi resiste alle tentazioni diaboliche. Rappresentato in abiti monacali nell’atto di toccare la terra, veglia l’est, suo attributo la pietra Vajra. La sua immagine più comune è quella in cui è ritratto nell’atto di unione con la sua compagna, lo Yab-Yum, a simbolo della fusione dei contrari nell’Assoluto.

AMITĀBHA: luce infinita, suo Vāhana una coppia di pavoni, il più popolare e antico Dhyāni-Buddha, il Redentore, veglia l’ovest, rappresentato di colore rosso come il tramonto in posizione meditativa a mani aperte. Il suo trono è in cielo nel Sukhāvati dove accoglie tutti coloro che hanno fede in lui. suoi attributi il loto e la ciotola delle elemosine da cui escono frutti a simbolo della fertilità spirituale. Probabile ipostasi del Gautama Buddha prodottasi al momento della completa illuminazione. Nella dottrina dei Tre corpi di un Buddha il Dharmakara Bodhisattva è il corpo fenomenico, modo di essere terreno; Amitābha Buddha è il corpo del piacere, modo di essere ideale per divenire inevitabilmente infine Dharmakaya, il corpo della legge, modo di essere non più essere sovraindividuale. Questa trasformazione afferma che Amitābha Buddha è un Redentore temporaneo, un mezzo creato dal Dharma sovrapersonale in base alle capacità di ricezione degli umani perduti di ogni tempo e che svanisce dopo aver compiuto il suo servizio.

AMOGHAPĀŚHA: il cappio infallibile, forma del Mahāyāna di Avalokiteshvara, ha otto braccia e sta a piedi uniti sulla luna. Suo attributo il cappio della compassione con cui cattura i credenti per il loro bene, in mano tiene un recipiente con l’Amrita, la bevanda dell’immortalità, nella sua qualità di liberatore dal ciclo delle vite, simbolo del Nirvāna.

AMOGHASIDDHI: la perfezione senza difetti, uno dei cinque Dhyāni-Buddha, veglia il nord, suo Vāhana una coppia di Garudas, uccelli mitologici simili ad aquile, il suo attributo è una doppia pietra del fulmine, la Vishvavajra. Rappresentato con la mano destra nell’atto dell’incoraggiamento, invitando all’essere intrepidi,

APASMĀRA PURUSHA: demone nano della disattenzione e della smemoratezza che rendono cieca la spiritualità umana. Shiva gli spezza la spina dorsale.

ARAPACANA: Bodhisattva con un solo volto, siede su un loto doppio in meditazione, nella destra una spada, la sinistra preme un libro sul petto. Sul suo volto il sorriso dell’Amore.

ARHAT: degno di venerazione, il santo che ha raggiunto il massimo stadio terreno di perfezione. Nell’Hīnayāna è il praticante ideale che ha raggiunto l’autoredenzione tramite l’ascesi e la meditazione, nel Mahāyāna diviene un Bodhisattva che non solo indica la via della salvezza ma si sacrifica per loro. L’Arhat detiene l’occhio divino con cui piò vedere il ciclo delle vite nei diversi mondi.

ASHTAMANGALEDVĪ: la dea delle otto felicità, protettrice degli otto segni della felicità che la circondano nelle raffigurazioni: la ruota della dottrina, Dharma-Cakra; la conchiglia della benedizione, Shanka; la brocca recante l’acqua dell’immortalità, Kalasha; la coppia di pesci della fertilità, Matsyayugma; l’ombrello bianco dell’alto lignaggio, Sitapatra; il loto della purezza dei desideri, Padma; il nodo dell’infinita ricchezza, Granthi; lo stendardo a forma di ombrello circolare, simbolo della vittoria della dottrina Bauddha, Dhvaja.

ASURA: gruppo di dèi primordiali a cui inizialmente appartengono anche Varuņa e Mitra. Con l’evolversi teologico questi vengono a indicare solamente i demoni. Nel buddhismo divengono un gruppo di demoni celesti gettati nell’oceano dagli dèi, la stessa fine di Lucifero.

AVALOKITEŚVARA: il più popolare dei Bodhisattva, emanazione di Amitābha il Dhyāni- Bodhisattva dell’era corrente. Il Signore che discende, quello capace di raggiungere la massima conoscenza, maestro della luce interiore dell’illuminazione, incarnazione della compassione. Per compassione discende negli inferi per riscattare i dannati. Suo attributo il rosario. Spesso raffigurato con dieci o undici volti a simbolo della sua poliedricità. Suo appellativo è Padamapāni, colui che tiene il loto in mano, a simbolo dell’Assoluto nella coincidenza del passato, presente e futuro che convergono nella vacuità, la mancanza di un valido contenuto, senza tempo.

BHAISHAJYAGURU: maestro di medicina, il Buddha della guarigione, deificazione del Gautama Buddha nella sua attività medica spirituale, il suo Paradiso è a oriente ed è lastricato di lapislazzuli. Nelle rappresentazioni tiene nella mano destra il Mirolabano, amaro frutto medicinale e nella sinistra il mortaio del farmacista.

BHŪTADĀMARA: signore dei demoni. Di colore nero ma brilla come mille soli, ha quattro braccia e gli occhi rabbiosi venati di rosso, porta in testa una corona di cinque teschi ed è ornato da otto serpenti. Soggioga tutti i demoni.

BODHISATTVA: essere, Sattva, che procede verso l’illuminazione, Bodhi. Un potenziale Buddha che rinuncia temporaneamente alla propria meta per salvare l’umanità. Inizialmente attributo del solo Buddha storico viene poi attribuito a Santi viventi o mitologici ai quali ci si rivolge nelle preghiere. Le varie dottrine identificano otto grandi Bodhisattva, i Mahābodhisattva o i cinque Dhyāni-Bodhisattva; sono tutti rappresentati in abiti principeschi coronati da cinque foglie tranne Kshitigarbha che è vestito da monaco ed ha la testa rasata.

BUDDHA: risvegliato, illuminato, colui che ha raggiunto il sapere liberatorio la Bodhi, l’illuminazione. Signore spirituale dell’universo identificabile da trentadue segni fisici i Lakshana, tra i quali: l’Ushnīsha, protuberanza rotonda sul capo da cui emana la luce della saggezza che illumina l’intera umanità; l’Ūrnā, ciocche di capelli fra le sopracciglia; i lunghi lobi delle orecchie a simbolo della rinuncia ad adornarsi dei pesanti orecchini portati dall’aristocrazie dell’epoca, braccia che arrivano fino alle ginocchia e una ruota a mille raggi sotto ogni pianta dei piedi oltre ad altri ottanta segni distintivi minori. Rappresentato spesso seduto su un loto a simbolo di illuminazione e sovranità sull’universo. I più antichi Buddha sono nell’ordine: Vipashyn, Shikhin, Vishvabhu, Kracuc-chanda, Kanaka-muni, Kāshyapa e poi il Buddha storico Gautama Buddha; un’altra tradizione considera il più antico Dīpamkara, colui che luce. Dopo Gautama Buddha, che è il Buddha dell’era attuale e altri cinquantaquattro Buddha ma anche invece un numero infinito, verrà in futuro il Buddha della fine dei tempi, Maitreya. Un particolare gruppo è rappresentato dai cinque Dhyāni-Buddha, il Buddha che medita, i riflessi spirituali dell’Ādibuddha in meditazione su sé stesso. Questi a loro volta, attraverso la meditazione, danno vita ai Bodhisattva, gli esseri della Bodhi, il risveglio.

BUDDHAKAPALA: il cranio di Buddha, divinità del Tantra, con quattro braccia e adorno di ossa. I suoi attributi sono il coltello, il tamburo, la clava e una calotta cranica, rappresentato abbracciato alla sua compagna, Prajñā, la conoscenza.

CANDAROSANA: l’irato e passionale, divinità selvaggia, è strabico e ha una grande bocca munita di zanne. Ha un abito di pelle di tigre cinto da un serpente bianco. Nella corona tiene un’immagine di Akşhobhya, nella mano destra una spada e con la sinistra stretta al petto tiene il Pāśha, il cappio della compassione. A volte è assimilato ad Acala.

CATURMAHĀRĀJAS: i quattro grandi Re guerrieri a guardia del mondo, Vaishravana a nord, Virūpāksha ad ovest, Virūdhaka a sud e Dhrtarāshtra a est. I loro troni sono situati sul monte invisibile Meru, da qui proteggono il Dharma. Le loro teste sono cinte dalla Jvālamālā, un’aureola di fiamme simbolo della loro potenza di guerrieri.

CUNDĀ: emanazione femminile del Buddha Vajrasattva di cui porta l’immagine nella corona. Divinizzazione della letteratura. Ha quattro mani, la destra è posta nell’atto della donazione, la sinistra tiene il loto su cui è adagiato un libro e le altre due tengono la ciotola delle elemosine.

DĀKINĪ: esseri soprannaturali con poteri magici che introducono al Tantra e aiutano gli Yogin nel raggiungimento della spiritualità. Dall’aspetto di fanciulle malvestite a volte con testa di animali. Se nude simboleggiano la conoscenza della verità. Fra questi ci sono i cinque Dākinīs che hanno già abbandonato il mondo, i quali sono in connessione con i cinque Dhyanī-Buddha e con le cinque regioni del mondo: Buddha-Dākinī al centro con Vairocana, Vajra-Dākinī ad est con Akshobya, Ratna-Dākinī a sud con Ratnasambhava, Padma-Dākinī a ovest con Amitābha, Vishva-Dākinī a nord con Amoghasiddhi.

DEVA: denominazione degli dèi, diviene l’appellativo degli dèi minori oscurati dalla Trimurti Hindù. Vi appartengono gli insiemi dei celesti Ādityas, dei terreni Rudras e degli aerei Vasus oltre a molti altri per un totale di tremilatrecentotrentatre, ridotto successivamente a trentatre. Nascono immortali ma poi successivamente perduta la loro importanza teologica divengono creature mortali. Il disprezzo per queste divinità porta il Mazdeismo a trasformare il loro appellativo da dèi, Deva in demoni.

DEVAPUTRA: appellativo sminuitore, figlio degli dèi, così sono chiamati gli dèi senza nome o in maniera spregiativa le divinità Hindù.

DHARMADHĀTUVĀGISHVARA: manifestazione del Bodhisattva Mañjugosha, con otto braccia siede nella posizione della grazia su di un doppio loto. Dharmadhātuvāgishvara ha nel proprio nome i suoi attributi, Dharmadhātu, la radice della Legge e Vāgishvara il signore della parola, sua compagna e Sarasvatī.

DHARMAPĀLA: i protettori della dottrina, anche i Caturmahārājas possono essere chiamati con questo appellativo, proteggono i credenti dai demoni malvagi. I Dharmapāla canonici sono: Yamāntaka, Shrīdevī, Sitabrahman, Beg-tse, Yama, Kubera, Mahākāla e Hayagrīva.

DHRTARĀSHTRA: uno dei quattro Caturmahārājas, sorveglia l’oriente e il suo colore è il bianco. Ha in mano un mandolino in quanto signore dei Gandharvas, i musicanti divini.

DHVAJĀGRAKEῩRĀ: dea che rappresenta la vittoria della dottrina Bauddha come anello sulla punta della bandiera. Viene rappresentata di colore giallo con quattro teste o blu con tre teste e tutti gli attributi della dottrina nelle quattro mani: una spada, il Pāśha, la Vajra, il Cakra.

DHYĀNI-BODHISATTVA: le cinque potenze meditative creatrici del mondo, Samantabhadra, interamente benefico; Vajrapāni, che porta la pietra di fulmine; Ratnapāni, che porta il gioiello; Avalokiteshvara, capace di raggiungere la massima conoscenza e Vishvapāni, nelle cui mani è tutto. Figli dei cinque Dhyanī-Buddha. Il loro nome significa meditazione, Dhyāna e illuminazione, Bodhi ma altri loro attributi sono la saggezza, Prajñā, e la compassione, Karunā.

DHYĀNI-BUDDHA: i cinque Buddha meditanti nati da Ādibuddha: Vairocana, Akşhobhya, Ratnasambhava, Amitābha e Amoghasiddhi. Buddha celesti che rappresentano il corpo del Dharma i cinque Buddha umani della nostra era ne rappresentano la manifestazione fenomenica. Nelle fonti originali sono però chiamati Tathāgata, perfetti. Nel Bardo Thödol, il Libro dei Morti Tibetano, la loro dottrina porta alla purificazione della coscienza nella vita terrena e nello stadio intermedio successivo alla morte corporale.

DĪPAMKARA: che accende i lumi. Buddha terreno precedente a Gautama ovvero Shākyamuni.

DVĀRAPĀLA: Heng e Ha, i guardiani della porta, divinità a guardia degli ingressi dei templi rappresentati come demoni Yaksha o guerrieri in imponenti armature. Considerati un unico essere rappresentanti le due metà dell’Assoluto, Ha il mondo degli elementi Heng quello dello spirito.

EKAJATĀ: con un solo ciuffo di capelli, Ugra-Tārā, la terribile Tārā; terrificante dea con tre occhi blu. Raffigurata con due braccia tiene in mano un cranio e una lama seghettata, quando ne ha quattro tiene una freccia e una spada a destra e un arco e un cranio a sinistra. Nonostante il suo aspetto dona felicità ai suoi devoti.

GAUTAMA BUDDHA: Siddharta Gautama, Sākyamuni, il saggio della stirpe dei Sākyas. Dopo aver resistito a tutte le tentazioni di Māra diviene il Buddha, l’illuminato, entrando nel Nirvāna dove non avrà più legami con il mondo e non potrà essere raggiunto nemmeno dalle preghiere. L’evoluzione della filosofia Bauddha arriva però a deificarlo elevandolo addirittura a prototipo di Buddha su cui vengono modellati i Buddha precedenti e successivi. I Bodhisattva e i Dhyāni-Buddha sono sue ipostasi. Il simbolismo lo raffigura con elementi che lo rappresentano: le impronte dei piedi, la sua presenza fisica; l’albero della Bodhi è l’illuminazione; la ruota per le prediche della dottrina; lo Stupa, l’ingresso al Nirvāna. Sue peculiarità come Buddha sono l’Ushnīsha, l’Ūrnā, la mano destra alzata a manifestare l’intrepidezza ma anche come gesto di protezione, Abhaya Mudrā. Spesso rappresentato mentre addormentato entra al Nirvāna, una dolce morte sotto un albero fiorito.

GUHYAKA-VAJRA: traccia segreta – eroe adamantino; un doppio nome per il protettore di Buddha. Manifestazione di Vajrapāni, muscoloso personaggio rappresentato a torso nudo con gli occhi colmi di ira e la Vajra in mano a fianco di Buddha. A volte identificato anche con Nārāyana una manifestazione di Vişņu

HARITI: divoratrice di bambini, sotto l’influenza di Buddha diviene protettrice dei bambini e dea della fertilità. Demone prebauddha che nel corso del tempo viene trasformato in divinità benevola.

HAYAGRĪVA: collo di cavallo, uno dei Krodhadevatās. Demone protettore ippocefalo, nano e con il ventre prominente, già Avatāra di Vişņu diviene emanazione di Amitābha altre volte di Akshobya.

ISHTADEVĀTAS: divinità invocata, nume tutelare di cui si porta con sé un simbolo per avere protezione.

JAMBHALA: dio della ricchezza, già demone Yaksha, porta in mano un limone simbolo di fertilità. Si appoggia con il piede destro ad una conchiglia, la benedizione, e nella mano sinistra tiene una mangusta che sputa perle sul piatto dove il dio giace.

KĀSHYAPA: Buddha preistorico partorito nello stesso giardino dove Gautama terrà la sua prima predicazione.

KHASARPANA: che scivola nell’aria, manifestazione del Bodhisattva Avalokiteśvara. Siede su di un doppio loto adagiato sulla luna, con un loto nella sinistra e la destra nella posizione dell’esaudimento dei desideri.

KRODHADEVATĀS: divinità irate, terrificanti dèi con tre occhi, capelli di fiamme per ornamento serpenti e teschi. Respingono i nemici della Dottrina, fra questi anche Acala, Sumbarājā e i Dharmapāla.

KSITIGARBHA: ha origine dalla terra, Bodhisattva. Patrono dei monaci itineranti diviene dio dei morti e giudice nell’oltretomba.

KURUKULLĀ: popolare dea, incanta i fedeli per farne suoi servi. Dea dell’amore invocata dagli innamorati è munita di arco e frecce al pari dell’occidentale Cupido. Seduta su di un loto sopra le raffigurazioni di Kama e la sua compagna Tarkhan des Huns.

LALITA TRIPURASUNDARI: signora segreta dell’universo, la Shakti Hindù, la forza del femminino, dalla sua unione con Śiva si crea il mondo dell’illusione, la Māyā.

MAHĀBODHISATTVAS: gli otto grandi Bodhisattva, nel Bardo Thödol rivestono l’importante funzione di mutare l’animo degli uomini aiutandoli ad attraversare la condizione intermedia fra la morte e la successiva fase permettendo loro di trovare il cammino verso l’illuminazione che li porti al Nirvāna o a una rinascita capace di donare loro l’illuminazione. Essi sono: Kshitigarbha, bianco, l’est e la vista; Maitreya, colore delle nubi, sud-est, l’udito; Samantabhadra, giallo topazio, nord ovest, l’odorato; Ākāshagarbha, giallo, il sud, il gusto; Avalokiteśvara l’ovest, la coscienza del corpo; Mañjushrī, giallo zafferano, nord est, la coscienza della mente; Nivaranavishkambhin, arancione, sud ovest, la coscienza universale; Vajrapāni, verde tormalina, il nord, la coscienza complessiva.

MAHĀKĀLA: il grande nero, dio della ricchezza, con tre occhi, indossa la pelle di tigre cinta da otto serpenti. Feroce divinità che combatte e annienta i nemici della Dharma. Raffigurato mentre calpesta un Preta, lo spirito del trapassato rinato in una condizione inferiore a quella umana a causa del Karma negativo della vita precedente o il dio Hindù Ganesha. Nume tutelare a guardia delle abitazioni.

MAITREYA: il benigno, il Buddha che verrà, attualmente ancora in forma di Bodhisattva, il quinto, che mostrerà nuovamente la via per il Nirvāna. Gautama Buddha tesse per lui un abito d’oro da indossare dopo l’illuminazione. Suoi attributi sono un fiore bianco dell’albero della Bodhi, e uno Stupa che adorna la sua capigliatura. I suoi piedi toccano direttamente il suolo a manifestazione della sua disponibilità a calpestare il suolo mondano per aiutare i fedeli che seguiranno i suoi insegnamenti alla redenzione che li porta all’illuminazione.

MAŇJUSHRĪ: l’amabile principe, il Bodhisattva patrono della saggezza, dona il sapere ai propri seguaci a lui è consacrato il primo giorno dell’anno. L’architetto celeste che detta le istruzioni per la costruzione dei templi. Suoi attributi la spada del sapere, il fiore di loto e il Prajñā Paramitā il Sutra della conoscenza trascendente in cui sono elencate le vacuità dell’esistenza.

MĀRA: morte, annientamento, il principio del male, demone tentatore di Gautama Buddha. Raffigurato come un re con cento braccia a manifestazione della sua immensa potenza. Sovrano di Kāmaloka, la concupiscenza, simbolo delle passioni umane che sottomettono e annientano impedendo di abbandonare l’esistenza mondana.

NĀGA: serpenti demoniaci, alcuni di loro divengono esseri immortali. I ceti popolari li adorano come portatori di fertilità. Corpo di uomo su fusto di rettile o serpenti con sette teste, sono presenti nella mitologia con svariate funzioni: Shesha regge la terra, Ananta rappresenta l’infinito

PADMANARTESHVARA: il signore della danza con il loto. Manifestazione del Bodhisattva Avalokiteshvara, raffigurato anche con diciotto braccia se ne ha due la destra è nella posa del gesto della danza.

PARAMĀSHVA: supremo cavallo, con arco, freccia, loto e spada, quattro volti otto braccia e quattro gambe con cui calpesta gli dèi Hindù.

PRAJŇĀ: nel cammino spirituale verso l’illuminazione è la forza, femminile, che completa la tecnica, maschile, della meditazione. La comprensione delle quattro verità enunciate da Śākyamuni, la verità del dolore, Duḥkha-satya; la verità dell’origine del dolore, Samudaya-satya; la verità della cessazione del dolore, Nirodha-satya; la verità della via che porta alla cessazione del dolore, Mārga-satya. La Prajñā è il completamento della polarità nella divinità e viene raffigurata di dimensioni ridotte, lo Yab-Yum è la rappresentazione del completamento perfettamente riuscito.

PRAJŇĀPĀRAMITĀ: la perfezione della saggezza, la saggezza che è andata oltre dello scritto di Gautama Buddha andando oltre i confini logici della comprensione. La sua adorazione dona saggezza e contemplarla indica la saggezza giunta all’altra riva della comprensione.

PRETA: spiriti dannati dei morti dall’orribile aspetto, vivono nello Yamaloka il regno di Yama, simboleggiano l’ignoranza del Ka. Raffigurati sotto i piedi delle divinità a simbolo della loro sconfitta da parte della Dottrina.

RĀHU: demone dell’eclissi. Su di un carro trainato da otto cavalli neri rincorre, con le fauci spalancate, sole e luna, quando riesce ad ingoiarne uno avviene l’eclissi.

RATNAPĀNI: che tiene il gioiello, il Dhyāni-Bodhisattva verde che reca in mano la Pietra Cintāmani capace di esaudire ogni desiderio.

RATNASAMBHAVA: nato dal gioiello, Dhyāni-Bodhisattva giallo, suo Vāhana una coppia di leoni tiene in grembo la mano sinistra su cui è posata Pietra Cintāmani.

REMANTA: re degli dèi cavalli, signore dell’oriente del mondo ha una cavalcatura rossa e brandisce una bandiera rossa.

SĀDHITA: nel Tantra evoluzione degli Ishtadevātas, divinità inesistenti evocate attraverso la Sādhana, realizzazione compiuta con il desiderio meditativo. Vengono resi evidenti dèi capaci di realizzare le peculiari preghiere del fedele.

SĀGARA: dominatore di tutti i mari. Bodhisattva in forma di drago. Custodisce le perle, la purezza, ed è detentore di tutti i tesori della conoscenza anche magica.

SAMANTABHADRA: pienamente felice, perfettamente buono. Bodhisattva emanazione di Vairocana. Signore della meditazione, la sua dottrina predica la purificazione dei sei sensi, la coscienza si aggiunge a quelli corporei; suo simbolo il Vāhana, un elefante con sei zanne per superare l’attaccamento mondano ai sei sensi.

SAMJAYA: generale celeste alla guida degli Yakshas, figlio di re dei draghi Takshaka e di Hariti quando ancora era considerata un demone.

SAMVARA: colui che ferma la ruota, il Cakra, della reincarnazione, il Samsāra. Divinità dell’iniziazione al Tantra, ha quattro volti e dodici braccia, un serpente per cintura e una corona di cinque teschi. La sua unione con Vajravārāhi è il simbolo del termine delle tensioni dovute all’esistenza mondana.

SAPTĀKSHARA: dalle sette sillabe, ha sei braccia e tre teste con tre occhi cadauna, una corona di trecce ornata da una doppia Vajra e da una falce di luna. La sua Prajñā gli siede in grembo e intorno ha il suo Mandala costituito da sei dee.

SARASVATĪ: dea fluviale, incarna la parola per divenire dea dell’eloquenza e del linguaggio.

SHAKRA: trasposizione Bauddha dell’Indra Hindù, re degli dèi che guida nella guerra contro i demoni. Protettore della dottrina.

SUMBHARĀJA: uno dei Krodhadevatās, protettore dei Mandalas. Ha tre occhi, sei braccia e la raffigurazione di Akşhobhya nella corona.

TĀRĀ: stella, salvatrice, la più importante dea. Nasce da una lacrima di Avalokiteśvara. Dea assoluta il cui nome diventa appellativo delle altre divinità femminili, in alcune dottrine le altre dee divengono soltanto sue manifestazioni. Rappresentata in ventuno forme diverse, colorate o bianche che recano un loto in mano. Quella verde è la più importante, adorata come protettrice contro ogni pericolo. La mano destra è rivolta in basso nel segno dell’esaudimento dei desideri la sinistra nel gesto della protezione concessa.

TATHĀGATA: il Buddha entrato nel Nirvāna, onorificenza di Siddharta Gautama ritenuto tale in quanto perfetto. Colui che è entrato nella vera realtà. Appellativo dei cinque Dhyāni-Buddha.

USHNĪSHAVIJAYĀ: la vittoriosa col turbante respinge i demoni con arco e frecce Protettrice della saggezza dei Buddha ne detiene tutte le virtù racchiuse nella sua Ushnīsha. Rappresentata bianca con l’aureola, ha tre volti e otto braccia, nella corona ha l’immagine di Vairocana.

VAIROCANA: Dhyāni-Bodhisattva, raffigurato con vesti da sovrano mentre le sue mani compiono il gesto del girare la ruota, il Dharmacakra-mudrā, a memoria della prima predica del Buddha che mise in moto la ruota della Dottrina oppure in vesti da monaco nel suo aspetto da saggio, mentre con le dita della mano sinistra cingono l’indice della mano destra a simbolo dell’intreccio fra lo spirituale, l’assoluto, e il materiale, la molteplicità dei cinque elementi. Suo Vāhana una coppia di draghi o di leoni.

VAISHRAVANA: uno dei quattro Katurmahārājas, sorveglia il nord e reca la bandiera della vittoria della Dottrina. Signore degli Yakshas detentori delle ricchezze, suo emblema la pelle di mangusta usata come borsa per il denaro. A volte visto come fedele di Buddha altre come sovrano terrificante dei demoni.

VAJRABHAIRAVA: il terribile con lo scettro di pietra di fulmine. Manifestazione di Mañjushrī nella funzione dello sconfiggere il dio dei morti Yama. Ha nove teste, la principale di toro, trentaquattro braccia e sedici gambe. I suoi attributi sono il coltello che uccide l’ignoranza, la freccia che trafigge le idee errate, il martello che frantuma l’avarizia e un teschio colmo di sangue quale ammonimento all’osservanza dei voti. il suo organo sessuale sempre eretto rappresenta la perenne lotta contro la morte e la rinascita che può portare solo nuova morte. Non è temuto dagli Arhat poiché hanno già sconfitto la morte.

VAJRASATTVA: essere pietra di fulmine. Dhyāni-Buddha mistico nel Tantra. Tiene nella destra la Vajra in equilibrio, simbolo dell’essenza intima di ciò che esiste, nella sinistra una campana che simboleggia la caducità del mondano e l’inganno delle apparenze proprio come le due metà che costituiscono il mondo. Signore dell’universo esistente da sempre e per sempre e insito in ogni cosa quale Buddha universale e Buddha primitivo.

VAJRATĀRĀ: Tārā pura e senza macchia. Nata dai doni offerti al sole protegge i fedeli dalle fiere e dai nemici. Nei Mandala è racchiusa nel proprio circolo mistico da dieci dee. Raffigurata come vergine con ricchi ornamenti e l’immagine dei cinque Dhyāni-Buddha nella corona.

VAJRAVĀRĀHI: una delle Dākinī, ha un orecchio con una protuberanza a forma di maiale che dà vita al suo appellativo di scrofa adamantina. Nuda, la pelle aranciata, nella destra tiene la Vajra, nella sinistra un cranio colmo di sangue e il Khatvānga, il bastone magico simbolo di poteri soprannaturali.

VAJRAYOGINĪ: una delle Dākinī, dea dell’iniziazione. Rappresentata rossa, calpesta un cadavere tiene Khatvānga e il cranio sanguinolento. Rappresentata gialla, tiene in mano la propria testa tagliata e dal collo esce un fiotto di sangue che si sparge sul cimitero che ha intorno.

VASUDHĀRĀ: quella che ha i tesori, compagna di Vaishravana rappresentata come giovinetta coperta di ornamenti. La mano destra sta nel gesto della donazione, nella sinistra ha spighe di grano.

VIDYUJJVĀLAKARĀLI: terribile come il fuoco del fulmine, manifestazione di Ekajatā, con dodici teste, ventiquattro braccia, i capelli di fuoco. Digrigna i denti e tiene i suoi molti attributi a difesa della Dottrina e dei fedeli, la spada, la Vajra, la freccia, la lancia, il martello, il coltello, il Khatvānga, il crenio sanguinoso e il Pāśha.

VIGHNĀNTAKA: l’eliminatore di ostacoli, guardiano dei Mandala nella mano destra impugna la Vajra, nella destra il Pāśha.

VIRŪDHAKA: il piccolo virgulto, uno dei quattro Caturmahārājas a guardia del sud impugnando la spada. Signore dei demoni Kumbhanda. Il virgulto che gli cresce in fronte è in realtà la proboscide di un mostro da lui sconfitto.

VIRŪPĀKSHA: uno dei quattro Caturmahārājas a guardia dell’ovest impugnando un serpente con una mano e una perla nell’altra. Il rosso signore dei Nāga.

YAKSHAS: esseri semidivini, ctoni, formano il seguito di Kubera. Panciuti e con arti corti. Come ogni divinità Vedica e Induistica hanno un aspetto benevolo e uno malvagio. Variano quindi da numi tutelari a demoni a seconda del contesto.

YAMA: re mitico, il primo uomo a morire e andare nell’aldilà, dove da allora regna come sovrano. Giudice dei morti ne strappa l’anima con il suo attributo principale, il cappio. Suo Vāhana è Kala, il tempo, un bufalo nero.