HINDU'
HINDU'

HINDÙ

600 A.C. – …

Il Grande Dizionario Hindī, redatto a Benares nel 1951 definisce la figura dell’Hindù come “un Indiano che crede e si conforma nella sua vita alle regole di condotta, ai costumi, all’organizzazione sociale e alla religione fondati sui principi esplicitamente o implicitamente enunciati dal Veda” ma chi è in grado invece di definire la religione che questo Hindù professa, quando qualsiasi enunciazione, esternata in qualsiasi tempo, su qualsiasi argomento teologico o meno, con qualsiasi modalità può a sua volta divenire la religione di qualsiasi Indiano purché tale enunciato si conformi al Veda? Ecco questo è l’Induismo, o meglio Hindù, termine che ne indica e identifica sia la fede che l’etnia, dato che per un Hindù non vi è differenza fra le due cose. Hindù un agglomerato composito di correnti religiose che travalicando il politeismo palese, credere in un Dio unico trascendente e immanente allo stesso tempo, senza necessari attributi di cui può comunque disporre, creatore universale e vero salvatore dell’umanità, la quale deve però ingraziarselo e adorarlo e qualsiasi speculazione si possa formulare, a supplemento o detrazione di quanto già asserito, ne entra automaticamente a far parte null’altro ottenendo che una dilatazione dell’idea stessa di Induismo. Dal puntiglioso canone dei Veda ai testi, che potremmo per un attimo definire apocrifi, i quali divengono a loro volta nuovo canone, non in sostituzione ma a complemento e completamento di quello esistente, rendendo di fatto l’Induismo privo di ogni vero e proprio canone da sempre e per sempre o se si preferisce dotato di un canone in eterna evoluzione. Anzi no, come recita la definizione del Grande Dizionario Hindī: “L’Hindù è un Indiano”, questi può essere a sua volta Islamico, Cristiano, Animista o ateo ma rimane per sempre Hindù e opportunamente agghindato può avere accesso in ogni tempio. Nessun Islamico, Cristiano, Animista o ateo può però diventare Hindù, ecco come nasce l’Induismo, ecco cos’è l’Induismo, la visione di tutto il resto del mondo dell’essere Hindù. Si può diventare Induisti ma Hindù si può solo nascere.
 

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Intorno al 600 a.c. si sviluppano sulle ceneri ancora roventi dei Veda, affondando in essi le proprie radici come in un vero e proprio scisma d’oriente, tre nuove religioni: il Jainismo, il Buddhismo e l’Indusimo. In una visione prettamente occidentale le prime due potrebbero essere trattate alla stregua di eresie o di riforme ecclesiali o teologiche, mentre la terza si aggrappa con maggior enfasi alla continua evoluzione dei Veda, alle Upanişad e al Vedanta, per dar nuovo vigore all’antica fede ormai alla deriva a causa dello strapotere complicato e spesso corrotto dei Brāhmaņi, per l’estrema lontananza dalle necessità e dalle esigenze cultuali e materiali delle caste inferiori e per l’improvviso e inarrestabile propagarsi delle altre due neonate confessioni. Nasce in questo modo una religione che religione non è, almeno nelle sue primeve concezioni. Per combattere la diffusione di Jainismo e Buddhismo i Brāhmaņi sono costretti a rivalutare coscienziosamente la propria fede e quelli fra loro che più profondamente sono legati alle origini della religione e al suo smisurato sviluppo attraverso le Upanişad, non senza l’influenza delle altre due nascenti fedi ma anzi sulla loro scia, colgono l’opportunità per dare un senso compiuto a tutta la filosofia che in centinaia di anni la cultura Hindù è stata capace di formulare. Senza disconoscere né stravolgere il fulcro dei Veda ma, con la sconvolgente naturalezza tipica Hindù, come suo legittimo svolgimento, si abbandona il culto idolatrico a favore della ricerca del fondamento dell’universo, suo tramite e suo fine, il Bráhman. Al di là dello sconvolgimento teologico in atto, ciò che maggiormente si afferma in questa trasformazione è l’abolizione gerarchica della figura del Brāhmaņo come unico intermediario attraverso il quale ci si può rivolgere e avvicinare a Dio oltre a confermare e consolidare l’assenza di una vera e propria struttura ecclesiastica. Il mondo Hindù subirà ancora per molto tempo l’influenza e il potere della classe sacerdotale ma questa, pur mantenendo ancora parte dei loro poteri secolari e spirituali, non saranno più unici e indispensabili. La religione diviene una scienza attraverso la quale dottori e studiosi arrivano alla conclusione che ciò che è in ogni uomo, l’Ātman, è della stessa sostanza dell’universo stesso e di conseguenza ciò che è alla base dell’universo, il Bráhman, è in ogni uomo. L’analisi si rivolge quindi non verso l’esterno alla spasmodica ricerca di un contatto con un dio capace di risolvere i dilemmi quotidiani, ma verso sé stessi con un indagine interiore volta all’accettazione di Dio in sé e alla necessaria compartecipazione del Karman individuale per il naturale mantenimento dell’equilibrio cosmico, il Dahrma.

Ma l’uomo non è fatto per questo, al contadino e al commerciante interessa che il raccolto sia copioso o che gli affari siano proficui e per esserne sicuro è sempre meglio rivolgersi a un dio e se quelli antichi sono ormai desueti se ne troveranno di nuovi da adorare, si rispolvereranno vecchie epopee o altrimenti se ne creeranno di nuove, in fondo la soddisfazione delle esigenze mondane quotidiane concorre al mantenimento dell’equilibrio cosmico e per la visione indiana l’universo esiste in funzione dell’individuo e l’esercizio divino è privo di qualsiasi motivazione estrinseca, cioè fatto per se stesso e non per il raggiungimento di un fine divino o umano, per cui in teoria ogni preghiera può essere parimenti esaudita, dalla più materiale alla più spirituale, dalla richiesta di ricchezze alla pace nel mondo. Così la scienza ritorna religione in una commistione di arcaico e neo, di personale e comunitario, di teologico e scaramantico, di fatalismo e dinamismo in cui tutto è e niente è, dove ognuno ha l’opportunità di interagire con Dio come meglio crede, anzi no attenendosi scrupolosamente a nuove e tanto per cambiare numerose e complicate metodologie. L’Hindù non è tanto una dottrina ma uno stile di vita da attuare secondo un complesso di gesti e parole codificate nel tempo da tradizioni orali e scritte e che solo col tempo sfoceranno anche in filosofie ma solamente per complementare la visione non per completarla, già questa sazia di certezze senza riserve prima ancora di essere formulata. Tutto è cambiato, niente è cambiato. I rami dei Veda continuano a moltiplicarsi esponenzialmente, le abitudini, le tradizioni e le usanze sono dure da sradicare con la sola parola e allora perché non mirare alla spirituale ricerca interiore senza disdegnare di dare senso e sollievo anche alla vita terrena, magari affidandosi a quello fra tutti che ci sembra il dio migliore? Filosofia, religione e scaramanzia si fondono in un'unica parola, Hindù.

Ma filosofia e religione nulla possono contro le tenaci, pratiche, cattive abitudini. Diversamente da quanto accade per le altre nascenti religioni del Jainismo e del Buddhismo, la trasformazione del Veda in Hindù si porta dietro una delle sue peggiori caratteristiche, la suddivisione in caste, attestando in modo definitivo che più che da un credo prende forma dalla radicata cultura Aria. I Vaŗna, ovverosia i colori distintivi delle quattro classi sociali in cui è gerarchicamente suddivisa la fede Hindù, vengono conosciuti all’esterno attraverso l’epiteto portoghese che ancor più ne evidenzia l’accezione negativa, casta in portoghese significa infatti “non mescolato”. Oggi questa definizione ha un sapore alquanto razzista per la visione democratica occidentale e benché in tutto il mondo le caste abbondino ciò che scandalizza è che nonostante il governo sia stato costretto ad abolirle, di fatto la forza culturale Hindù le rende ancora attuali e attuate, tanto che neppure Gandhi osò andar contro questa deprecabile usanza limitandosi a caldeggiare l’inserimento all’interno del sistema dei Vaŗna di quei ceti sociali definiti intoccabili che fino ad allora erano utilizzati per tutti i lavori capaci di insozzare l’animo ma soprattutto le mani, da quello di contadino a quello del becchino. Vista come caratteristica peculiare della società Indiana c’è chi ancora oggi si augura che questa suddivisione continui a sussistere, essendo la base culturale che ha forgiato sorretto e che tutt’ora sostiene la teoria Induista, ma dato che già è difficile in qualsiasi società anche occidentale emergere da una casta inferiore per conquistare un posto in una più agiata e rispettata, credo proprio che stabilire un per sempre, valido quindi anche per le generazioni a venire, di impossibilità di crescita anche in questa vita non valga tutto il Dharma del mondo. C’è da dire che per la visione Indù l’inamovibilità di questa norma ha fortemente favorito la resistenza della stessa India alle penetrazioni delle culture esterne sia che queste se ne siano interessate, come durante la dominazione inglese sia che ne siano rimaste indifferenti come nel corso dell’invasione islamica, anzi proprio durante questo periodo l’unità Hindù trova nell’appellativo coniato dagli Islamici una più forte coesione e una prima idea di nazione, con la sua propria struttura gerarchica retta appunto sui principi della ripartizione in Vaŗna. Così, come asserito dai Veda, il gigante Purusha sacrifica il suo corpo per dar vita ai Brāhmaņi dalla testa, il cui Vaŗna è il bianco; agli Kşatriya dalle braccia, rappresentati dal colore rosso; ai Vaiśya dalle gambe, con il colore giallo e gli indigeni, ormai assimilati da secoli nella società che fu Aria, vanno a formare lo casta riservata ai non nobili, gli Anārya, quella dei Sūdra il cui Vaŗna è il nero, rimane fuori da tutto questo la non casta degli addetti alle mansioni impure cui viene assegnata la condizione di intoccabili senza colore, gli Avaŗna, i servitori di tutti. Nella primeva concezione già Vedica e poi Induista questa classificazione risulta essere più che necessaria, per questo è sopravvissuta nei secoli e di fatto fino ai nostri giorni; superando la visione occidentale della lettura verticale della gerarchia e osservando invece una struttura orizzontale si può comprendere che la separazione delle diverse categorie è fatta non su scala gerarchica ma in virtù delle competenze di ognuno, il Dharma si poggia su un equilibrio che può essere raggiunto solo tenendole ben separate e non intercambiabili, alla struttura Hindù non interessa quale categoria abbia più potere delle altre ma che queste non si confondano minando l’equilibrio universale, chissà se anche il contadino o il manovale la pensano allo stesso modo. Ogni individuo si colloca nel proprio Vaŗna e ognuno di essi è al servizio degli altri, i Brāhmaņi pregano per tutti, non sfruttano; gli Kşatriya mantengono l’ordine per tutti, non opprimono; i Vaiśya alimentano l’economia per tutti, non lucrano; i Sūdra producono per tutti, non accaparrano e alla fine passano gli Avaŗna a pulire per tutti.

Le competenze dei Brāhmaņi, anche quelle rivisitate in stile Induista, come pure quelle delle altre due classi superiori, impongono comportamenti e occupazioni che poco lasciano da dedicare alle attività produttive e sociali, gli impegni di preghiera e di studio sono talmente imponenti che i Brāhmaņi e le loro famiglie non hanno certo il tempo per preparare il cibo, figuriamoci coltivare, pulire, allevare, macellare, curare o toccare un morto, a questo devono pensarci gli Avaŗna per i quali non è previsto alcun diritto ne alcuna tutela figuriamoci poi una retribuzione. Gli intoccabili divengono così degli schiavi sociali che la stessa fede mantiene al loro posto e ai poveretti non resta che condurre una vita il più possibile nel Dharma al fine di sperare in una possibilità migliore nelle vite successive. Magari reincarnarsi in un frutto che mangiato da una donna di casta Brāhmaņa porterà il proprio Ātman nella vita che sta per dare alla luce, anche se questa stessa asserzione contrasta con quanto previsto dalla classificazione dei Vaŗna, ma vogliamo anche togliergli la speranza a questi già più che disperati Avaŗna?

Più volte nei secoli affermazioni contrastanti cercano di avvalorare o mitigare l’impalcatura dei Vaŗna, Patanjali nel 200 a.c. asserisce: “Ciò che fa un Brāhmaņo è l’ascesi, l’erudizione e una nascita legittima, privo di ascesi ed erudizione egli è Brāhmaņo per nascita.” Il mantenimento dell’equilibrio universale non può essere messo in discussione. Secoli dopo invece nel maestoso testo teologico del Mahābhārata si dichiara: “Un Brāhmaņo che compia azioni riprovevoli diventa simile ad un Sūdra, mentre un Sūdra sempre attento nei valori etici deve essere considerato alla stregua di un Brāhmaņo.” I fatti hanno però parlato chiaro per millenni e se vi può esser stata considerazione spirituale sicuramente non ha contribuito ad un miglioramento materiale e sociale neanche per il più pio dei Sūdra, figuriamoci per un Avaŗna. Tanto è pressante e presente la ripartizione in Vaŗna nel gigantesco microcosmo Hindù che, esclusi da ogni attività cultuale, gli Avaŗna si sono nel tempo talmente assuefatti alla suddivisione in caste da strutturarsi a loro volta in classi diversificate riservandosi addirittura propri templi e propri sacerdoti.

La forza dei Vaŗna trova in realtà la propria determinazione in una sottoclassificazione che coinvolge in pieno gli Hindù compromettendoli nell’intimo familiare. Alla formazione di un Vaŗna concorrono di fatto le Jāti, un complesso sovrafamiliare che acquista i tratti di una tribù. Ogni individuo infatti è strettamente legato alla propria famiglia in una visione che non comprende soltanto i più stretti consanguinei ma si allarga a macchia d’olio inserendovi tutti i componenti in linea di sangue e acquisiti, questa è la Jāti, che si manifesta attraverso una sua propria peculiare attività, la Jāti dei vasai piuttosto che quella dei fabbri o di altri mestieri, che ovviamente non comprendono i servizi resi dagli intoccabili. Ne risulta che, contraddistinguendo una famiglia e un’attività, la Jāti imponga anche che le unioni matrimoniali si concentrino nella cerchia di quella famiglia, sempre più allargata e di quella precisa attività al fine di mantenere incontaminata la Jāti. Ne conviene che, quello che in Italia chiameremmo campanilismo, faccia nascere la necessità, il desiderio e quel senso di superiorità che spesso sfocia in arroganza, capace di volere assolutamente che la propria Jāti non si mescoli con un'altra. Hanno avuto ben sì ragione i portoghesi ad assegnargli il termine casta, comprendendo in pieno la completezza dei Vaŗna e i motivi che hanno reso possibile la sussistenza di questo sistema, fortemente radicato nel più intimo di ogni individuo, per secoli e secoli, legato a doppio nodo sia alle origine Vediche che alle certezze dell’individuo, fino alla potenza dello stato indiano nascente, una nazione alla ricerca di un equilibrio universale raggiungibile soltanto attenendosi alla divina legge del Bráhman, il Dharma.

La ripartizione è in realtà ancora più evidenziata dalle infinite sottocaste che si vanno a creare nel tempo e nello spazio, addirittura per i Brāhmaņi oltre a una serie di fattori genealogici e logistici si arriva a determinare una suddivisione in base all’attestata discendenza da uno dei sette antichi veggenti, i Rishis, primi auditori dei Veda. Di necessità virtù, i veggenti sono passati prima timidamente ad otto per poi esplodere numericamente in base alle necessità di questa o quella famiglia con il moltiplicarsi dei testi cosmogonici. Vale più una nomea di una contea e un detto che trova applicazione ovunque.

Il concetto base della connivenza fra religione e società è il Dharma e completa con i Vaŗna le indicazioni gerarchiche, dandone anche la giustificazione. Con Dharma gli Hindù indicano qualcosa che va al di là della traduzione con norma, regola o legge perché non è qualcosa che viene regolato, deciso e o imposto in base alla scelta o alla volontà di qualcuno ma è qualcosa che già c’è, che esiste di per sé, che c’è sempre stato e che deve essere rispettato e salvaguardato, infatti gli Hindù chiamano la loro fede con l’appellativo Sanātana Dharma, ovvero ordine eterno, equilibrio permanente, qualcosa che è così da sempre e in tal modo deve rimanere grazie all’apporto dell’impegno di tutti secondo il proprio stato cioè, come recita il più completo appellativo della fede Indù, Varņāśramadharma, il Dharma, equilibrio dell’universo, che regge ogni essere in virtù della qualifica attribuitagli, Vaŗna, per la quale gli è stato assegnato un particolare compito da espletare, Āśrama, di ordine morale, religioso e sociale in una peculiare condizione di vita. Quindi questo vuol dire che per un Hindù il nome della propria religione è “quello che devo fare essendo io in un determinato periodo della mia vita sia temporale che spaziale che morale e appartenendo io ad un determinato Vaŗna”. Questo vuol dire che un ragazzo di casta Brahmanica ha impegni ed obblighi diversi da un adulto della stessa casta ma anche da un ragazzo di una casta diversa. Ne consegue che l’esatta definizione di Hindù sarebbe, quelli che sono i tuoi compiti morali, religiosi e sociali in ogni momento della tua vita in base al tuo Vaŗna di appartenenza. Tutto questo va a cementare ancora di più il legame fra la società e la suddivisione in Vaŗna perché chiaramente ne consegue che per ogni individuo ci sono compiti specifici per ogni periodo della sua vita in base al suo Vaŗna per cui non può esistere che io passi da un Vaŗna ad un altro o che scali per importanza le Jāti del mio Vaŗna, perché se io sono un vasaio i compiti che il Bráhman si attende da me affinché il Dharma sussista sono quelli di un vasaio, questo è lo Svadharma, ed è una astrazione così imperativa da concretizzarsi nell’impossibilita e nel divieto di trasgredirgli. Ogni individuo ha il proprio personale Svadharma e uno dei testi più autorevoli, la Bhagavadgītā, recita che “è meglio compiere, anche mediocremente il proprio dovere, che assumere, per compierlo alla perfezione, il compito che appartiene a un altro”. Ma il Dharma non è solo personale ce n’è anche uno sociale, Sādhārana Dharma, uguale per tutti i Vaŗna, per cui pazienza, generosità, veracità e tutte le più alte virtù umane si impongono ad ogni uomo indistintamente dal suo Vaŗna. Ma in caso di conflitto fra Svadharma e Sādhārana Dharma è comunque il primo ad avere il sopravvento, come insegna ancora la Bhagavadgītā nella quale Kŗşņa è sceso nel mondo come Āvatara di Vişņu proprio per ristabilire il Dharma e proprio lui consiglierà ad Arjuna di attenersi al suo Svadharma di guerriero contro il Sādhārana Dharma che lo tratteneva dall’intervenire per evitare un inutile spargimento di sangue. Ma questo è il Dharma, attenersi al proprio Svadharma per un commerciante vuol dire fare di tutto per arricchirsi, per un guerriero uccidere in combattimento, per un re governare con giustizia e di conseguenza anche giustiziare, la pietà gratuita non è consentita. Sempre più si delinea l’intreccio della cultura Hindù nel suo complesso più ampio, un groviglio che eredita dai Veda l’apertura ma che sempre più crea un’impalcatura che non lascia scampo al fedele e lo indirizza verso il Dharma attraverso l’intricato percorso che si spalanca e si addentra verso l’intimo universale.

I momenti della vita assumono un aspetto molto importante, tanto da essere catalogati, nella migliore delle usanze Hindù, normati e teologizzati. Inizialmente questo vale soltanto per i Brāhmani di sesso maschile, non sia mai che una donna venga presa in una qualche considerazione almeno in campo religioso, per poi essere esteso anche agli Kşatriya e ai Vaiśya, anche se ormai manifestazioni di rispetto nei confronti di questa tradizione sono più uniche che rare. I tempi dell’esistenza vengono suddivisi in quattro periodi contraddistinti da differenti atti e comportamenti cui attenersi, gli Āśrama, letteralmente sforzarsi per il raggiungimento di un fine. Il primo di essi è il Brahmacarya che si apre con una cerimonia di iniziazione, l’Upanayana, attraverso la quale il bambino accede allo studio della religione da eseguire presso l’abitazione di un Maestro dal quale verrà a conoscenza dei testi sacri tramite l’audizione della rivelazione. Durante la permanenza presso la casa del Maestro impara l’obbedienza, il rispetto e il controllo dei sentimenti, via per arrivare al controllo dei desideri, attuato tra l’altro praticando la castità. Impara le preghiere da rivolgere alle divinità e le metodologie per attuarle, i tempi, i modi e i differenti sacrifici da offrire nei vari momenti della giornata ai diversi déi. Apprende il controllo della respirazione, il Prāņāyāma, viatico per l’ascesi da eseguire recitando la Sacra Gāyatrī, l’Om, e inni tratti dai Veda. Completati gli studi e raggiunta la maturità, almeno quella sessuale, il giovane fa ritorno a casa per contrarre matrimonio, combinato ovviamente perché nel frattempo non ha avuto certo il modo di conoscere chicchessia. In questo modo entra nel secondo Āśrama, il più lungo, il più importante per la vera formazione e la messa in pratica delle teorie e teologie apprese, il Gārhasthya, quello di colui che sta in casa. Un periodo che completa la vita, durante il quale all’interno della propria famiglia ripresenta la struttura gerarchica che all’esterno regola la società. Il Gŗhastha rappresenta il sovrano e con giustizia e giustezza governa la casa come il re fa con il paese, sia materialmente che attraverso tutte le pratiche religiose, le preghiere e i sacrifici affinché la famiglia tutta partecipi al mantenimento del Dharma. Giunto all’età in cui i nipoti affollano la casa e le voluttà della vita cominciano a svanire dagli interessi e dai desideri il Gŗhastha si appresta al passaggio seguente divenendo Vānaprastha, quello che dimora nelle selve, e in compagnia o meno della moglie abbandona la propria casa per andare a vivere nella foresta. Qui si ciba dei doni della natura e trascorre la giornata fra riti e meditazione, barba e capelli divengono lunghissimi come anche le unghie, la veste è una pelle di daino o una corteccia d’albero, per letto la nuda terra. Lentamente si abitua a non abitare più alcun riparo ma il suo solo proprio corpo sottoposto a privazioni mortificazioni e digiuno, cibandosi delle sole meditazioni accompagnate da alte pratiche ascetiche Yoga. Con un tale atteggiamento repentino dev’essere il passaggio all’ultimo degli Āśrama, quello di Saṃnyāsa, la completa rinuncia, eseguito nutrendosi di sola acqua e aria fino alla dissoluzione del corpo fisico, oltre a quello che gli viene spontaneamente offerto, completamente concentrato non alla propria fisicità ma al solo e unico fine ultraterreno. A questo stadio si può accedere anche direttamente dalla condizione di Gŗhastha sottoponendosi al sacrificio di Agni, donando tutti i suoi averi ai Brāhmaņi e ai poveri. Da quel momento non ha più beni né famiglia e procede la propria vita in completa solitudine e ascesi senza alcun legame. Il Saṃnyāsa si rade barba e capelli, si taglia le unghie e vive mendicando munito solo di una ciotola, una brocca per l’acqua, un bastone, un misero telo per coprirsi e le sue preghiere. Rimane solo in attesa di non esser più carne, senza rallegrarsi della morte imminente né della vita trascorsa, senza alcun compiacimento, attendendo la morte con la stessa prontezza, obbedienza e disponibilità di un servo che attende l’ordine del padrone, purificando il proprio Ātman come esteriormente purifica tutto ciò con cui entra in contatto, filtra l’acqua, fa attenzione ai propri passi per non causare danno a qualche minuscolo animaletto, filtra le parole con la verità, filtra i sentimenti mortificandoli con l’assenza della gioia e del rancore. L’ascesi eseguita con le pratiche Yoga e il Prāņāyāma divengono l’attività prevalente fino a giungere ad uno stato di completo raccoglimento nella profonda meditazione del Saṃsāra preparandosi ad abbandonare la dimora terrena, il suo corpo, per divenire Bráhman. Nel 700 il maestro Śańkara si abbandona alla completa vita ascetica subito dopo lo stadio di Brahmacārin, attestando così la possibilità di diventare Saṃnyāsin esercitando la completa rinuncia senza passare degli altri Āśrama e non solo in prossimità della morte, divenendo Naişţhika-Brahmacārin, il perfettamente e definitivamente casto. Non è solo la rinuncia il sinonimo di Hindù ma esattamente il contrario; la rinuncia più dura è quella che si fa di ciò che si conosce o che si è provato, per questo l’esistenza del devoto è condotta attraverso la persecuzione di quattro fini fondamentali cui si dovrà alla fine astenersi in vita prima che sia la morte ad obbligarci a rinunciarvi. Il Kāma, l’amore, il piacere sessuale, la soddisfazione del desiderio; l’Artha, il benessere, la ricchezza, il successo politico; il Dharma, l’ordine, la giustizia la morale conseguiti in armonia con gli altri due; infine la Mokşa, la liberazione dal Saṃsāra, l’obbiettivo unico e solo del Saṃnyāsin, il desiderio non desiderato e non desiderabile, il fine raggiungibile solo affrancandosi da ogni fantasia, ambizione, nostalgia, aspirazione ma nel solo annullamento terreno per divenire Ātman- Bráhman attraverso la Mokşa.

Il mantenimento dell’equilibrio cosmico e la partecipazione diretta alla sua tutela sono per l’Hindù la sola e unica speranza di poter raggiungere l’atto definitivo dell’Hindù, la fusione del Bráhman con l’Ātman, il Nirvana, la Mokşa, la liberazione definitiva dalla mondanità. A questo punto si aprono, tanto per cambiare, nuove prospettive per il raggiungimento del fine ultimo una, a dire il vero poco accreditata ma probabilmente la più seguita, è quella della devozione totale tramite la stretta osservanza del Dharma, l’altra, la più difficile da seguire ma sicuramente quella che realmente può portare ad una vera con-fusione fra Bráhman e Ātman è quella che lega strettamente la devozione ad una pratica di vita devota ossia non solo preghiera e pentimento ma altrettanta attenzione al Karman, alle azioni compiute, affinché questo non sia danneggiato, osteggiato, messo in pericolo, arrivando perfino a decretare che l’attenersi solamente all’osservanza del Dharma in maniera superficiale e disinteressata non possa portare al raggiungimento della Mokşa ma tuttalpiù all’ottenimento del discernere l’Ātman dall’ego e iniziare realmente un cammino che solo dopo molti cicli possa portare alla liberazione interrompendo definitivamente la successione delle infinite rinascite.

Ciò non toglie che nel corso della vita si debba comunque attenersi al Dharma anche con la sola ritualità, anzi i momenti salienti dell’esistenza sono sempre preceduti o associati a riti ben specifici. Delle decine e decine cui fanno cenno i testi più antichi, nei manuali della ritualità, i Paddhati, ne sono stati stranamente canonizzati solo sedici, che ormai sono finiti quasi completamente nel dimenticatoio. Questi sedici momenti della vita, definiti Saṃskāra, sacramenti, accompagnano determinati passaggi dell’esistenza con alcune componenti comuni più o meno a tutti come la scelta del giorno secondo il calendario astrologico o del luogo in base alla divinità venerata e poi offerte, abluzioni, meditazioni, respirazione oltre l’assistenza di Brāhmaņi solitamente ricompensati con una vacca per la loro presenza e benedizione. I Saṃskāra cominciano prima ancora della nascita, tre infatti segnano il concepimento e la gestazione: il Garbhādhāna, la deposizione del seme, eseguito dopo il matrimonio o addirittura dopo ogni mestruazione, con il quale si manifesta l’intenzione di avere un figlio tramite riti dedicati al fuoco e all’acqua, tale momento era così importante in passato che l’età veniva computata non dalla nascita ma proprio dal concepimento; ottenuta la gravidanza è il momento del Puṃsavana, che fa nascere un maschio, rito chiaramente volta all’ottenimento di prole di sesso maschile unica e sola capace di perpetuare i riti dedicati agli avi fra cui sarebbe finito anche lo stesso padre, in un periodo in cui la luna è in congiunzione con una costellazione maschile la madre deve osservare digiuno e fra i rituali del caso deve bere dalla narice destra del succo di fico d’india; l’onore è salvo la moglie e gravida e si può procedere con un nuovo Saṃskāra, il Sīmantonnayana, la pettinatura, una cerimonia durante la quale il marito procede a segnare la scriminatura dei capelli della moglie acconciandoli in una maniera che non cambierà mai più. Di grande importanza è certamente il Jātakarman, la nascita, un mese prima della data prevista si prepara la stanza in cui avverrà il parto e cominciano le preghiere e le offerte, al momento della nascita, prima ancora che il cordone ombelicale venga tagliato il padre sussurra Vāk, parola, per tre volte all’orecchio del neonato per generare in lui l’intelligenza, burro fuso, siero di latte, miele e altre offerte danno il buon auspicio alla nuova vita. Fra il decimo e il dodicesimo giorno si celebra il Nāmakarana con cui viene imposto il nome al bambino che comprende fino a quattro appellativi: il nome di un asterismo, la divinità del mese, quella della famiglia e infine il nome di uso comune tenendo ben di conto il sesso e il Vaŗna del piccolo Hindù. Seguono a breve due Saṃskāra meno importanti che sono il Nişkramaņa, la prima uscita e l’Annaprāśana, il primo cibo non materno. Il Saṃskāra successivo si svolge all’età di tre anni, è il Cūḑākarman, il taglio dei capelli, con il quale la testolina viene completamente rasata lasciando soltanto un ciuffo sulla sommità quale simbolo di lunga vita, segue il Karņavedha durante il quale vengono forate le orecchie preparandole ad adornarsi variamente. Verso i cinque anni si celebra il Vidyārambha, l’apprendimento, un rito che accompagna il bambino all’istruzione, con posizioni e atteggiamenti ben specifici il maestro gli impartisce la prima lezione insegnandogli l’alfabeto. Ben più importante è l’Upanayana, la conoscenza, il rito che celebra l’iniziazione ai Veda che dura per dodici anni, inizia a otto anni per i Brāhmaņi, a undici per gli Kşatriya e a dodici per i Vaiśya, donne e Sūdra non hanno questo onore. Si procede ad una cerimonia lunghissima e complessa attraverso la quale si acquisisce lo stato di Dvija, il rigenerato, che verrà poi manifestato con l’ostentazione del cordoncino sacro portato a tracolla per tutta la vita in ogni momento, tanto che fra le prescrizioni sull’uso vi è anche quella di appenderselo all’orecchio destro durante la defecazione al fine di non corromperlo con le impurità. Il successivo Vedārambha officia invece il vero e proprio momento in cui ha inizio l’apprendimento dei versi dei Veda. Il Keśānta, cerimonia che si svolge all’età di sedici anni, permette finalmente di sottoporsi alla prima rasatura della barba, in quest’occasione si rinnovano i voti di castità caratterizzanti il periodo di studentato al termine del quale si celebra il Samāvartana, la preparazione alla vita, durante il quale si prende congedo dal Maestro retribuendogli il dovuto per poi molto ma molto velocemente apprestarsi a festeggiare il Vivāha, il matrimonio, da contrarre con una illustre sconosciuta vittima sacrificale di dodici anni di assoluta castità e incompetenza. Il Vivāha rappresena per le donne il primo vero Saṃskāra e il più delle volte permette loro di sottrarsi da una condizione di semischiavitù nei confronti del padre per passare ad una di semischiavitù verso un estraneo tramite l’accordo dei rispettivi genitori attraverso un’unione sacra e indissolubile che le bambine di casta Brāhmaņa contraggo perfino a otto anni. Questa tradizione non sempre reca un buon fine e per lunghissimo tempo ma solo per gli uomini chiaramente, determina il ricorso alla poligamia, pratica definitivamente proibita nel 1955, per ovviare alle cattive scelte dei genitori, le quali si basano su caratteristiche molto oggettive non ultima l’ascendenza astrologica e l’ammontare della dote. Il problema della dote ha risvolti sociali tragici, non solo penali per atti che si verificano verso famiglie insolventi ma si arriva addirittura alla soppressione delle neonate per non assumersi il carico di una dote futura da riconoscere al marito o alla sua famiglia e ancora oggi il 99% degli aborti legali riguarda feti di sesso femminile. La classificazione dei matrimoni è suddivisa in otto tipologie di cui solo due sono ancora in uso oggi il Brāhmavivāha e l’Āsuravivāha; il Brāhmavivāha è il dono di una figlia ad un perfetto Brāhmaņo, accompagnato da vesti e gioielli; il Daivavivāha è come il precedente ma i doni sono elargiti al Brāhmaņo che officia i riti di buon auspicio cui la moglie viene data come compenso; nell’Ārsavivāha è il padre che praticamente vende la figlia ad un Brāhmaņo per il prezzo di due vacche; nel Prājāpatyavivāha la figlia va in dono a persona degna per assolvere con lui gli obblighi religiosi di una famiglia in divenire, mantenendo in tal modo il Dharma; nell’Āsuravivāha la figlia viene data in cambio di beni o di una somma in danaro destinata alla famiglia di lei; il Gāndharvavivāha è il matrimonio normale in cui i due si uniscono per reciproco compiacimento; il Rākşasavivāha si ha quando la ragazza viene rapita a seguito di colluttazione o addirittura uccisione di parenti di lei; il Paiśācavivāha è conseguente ad un unione carnale ottenuta con l’inganno o approfittando di stati di incoscienza della ragazza. Nell’India moderna appare un’altra mostruosa forma che è appunto il matrimonio a seguito di dote più volte regolamentato o vietato giuridicamente ma in realtà il più comune, mentre il Gāndharvavivāha pare completamente scomparso, vuoi per il radicamento delle cattive tradizioni vuoi per il peso di una scelta indissolubile di cui i giovani non voglio assumersi alcuna responsabilità.

Il rapporto fra i futuri sposi comincia con la richiesta di matrimonio effettuata tramite terze persone inviate dal pretendente al padre della pretesa, nell’India moderna la situazione si è invece capovolta e soprattutto per le figlie dei Brāhmaņi sono i padri che devono andare a caccia di un marito per riuscire a piazzare la prole femminile, se tutto procede nel modo opportuno cominciano una serie di rituali volti alla scelta del luogo in base alla divinità cui si è devoti e al periodo più astrologicamente propizio all’unione. La vera e propria cerimonia si protrae per diversi giorni, fra riti scaramantici e pomposi cerimoniali, acqua e fuoco sono al centro delle pratiche eseguite e Gaņeśa è la divinità invocata per la sua protezione sull’unione imminente. Il giorno del matrimonio i futuri sposi si sottopongono ad un bagno profumato recitando inni Vedici e ripetendo ossessivamente la Gāyatrī, lo sposo si avvia adorno di fiori verso il luogo del matrimonio accolto dal padre della sposa pronto ad iniziare la sequela di riti che pervade tutta la giornata, gli sposi vengono benedetti con l’unzione e si sistemano sotto un baldacchino separati da un velo la cui caduta dà inizio alla recita dei nomi di tutti gli ascendenti delle due famiglie a manifestare l’assoluta estraneità genetica e la parità di Vaŗna, il momento culminante è rappresentato dall’enunciazione da parte del marito di una formula che sancisce l’unione e conferma i suoi fini procreativi a difesa e stabilità del Dharma, continuano gli atti rituali fino a quello che ufficialmente dichiara l’unione degli sposi, il Saptapadī, i sette passi, compiuti i quali, recitando una preghiera ad ogni passo, sono finalmente considerati marito e moglie, continuano i riti con la ricerca della benedizione celeste alludendo al sole o additando la stella polare. Conclusa la cerimonia il Brāhmaņo che ha assistito la cerimonia riceve in dono una vacca. A questo punto comincia la festa che si protrae per un numero imprecisato di giorni a seconda delle disponibilità o dell’ostentazione. L’avvio della vera e propria vita coniugale avviene con il Saṃskāra chiamato Garbhādhāna, con l’accensione del fuoco che non sarà più spento e con cui saranno accesi tutti i fuochi rituali e domestici per sempre e al quale sono recate le offerte alle otto divinità che accompagneranno la famiglia nascente, in fin dei conti il vero e proprio scopo del matrimonio non è altro che quello di far raggiungere al Brahmacārrin lo stadio di Gŗhastha in modo da assicurare il proseguo del culto e dei riti familiari alla base del mantenimento e della diffusione della religione malcelati dall’ostentato motivo del mantenimento del Dharma.

L’ultimo e definitivo Saṃskāra è l’Antyeşţi, l’ultimo sacrificio, la cerimonia funebre. Il rito si volge recitando numerose formule e preghiere Vediche salvo che il defunto non sia un Śūdra o una donna, figuriamoci un Avaŗna, il corpo viene adagiato su una lettiga per essere poi posato sopra la pira che ne brucerà il corpo, solo per personaggi di estrema santità si procede invece con l’inumazione, i Brāhmaņi officianti ricevono come sempre una Vacca anche se oggi si predilige l’elargizione di una somma di danaro, il corpo viene ornato da vesti nuove e da fiori per essere accompagnato dai familiari oranti preghiere verso il luogo della cremazione anche questo scelto con cura in base agli influssi astrali e alle divinità cui si è devoti prediligendo la vicinanza ad un fiume possibilmente il Gange, dove poi saranno gettate le ceneri. La cremazione viene considerata come un’offerta sacrificale alle divinità verso le quali sale l’Ātman accompagnato da preghiere volte al ritorno della vista del defunto nel sole e del respiro nel vento, abluzioni e offerte nel fuoco vengono effettuate in onore del defunto. In seguito comincia il periodo di lutto e di impurità, l’Āśauca, della durata variabile a seconda del Vaŗna e del sesso del defunto, al termine del quale vengono raccolte le ossa, un tempo tumulate e oggi disperse invece in un fiume sacro subito dopo la cremazione accompagnando la cerimonia con l’offerta di pallette di riso capaci di ricostituire nell’aldilà il corpo del defunto e continuando ancora per un intero anno, considerato il tempo necessario per raggiungere l’oltretomba, il regno di Yama; vengono inoltre fatte offerte ai Brāhmaņi ritenendo in tal modo di compiere un atto capace di portare beneficio al morto e offerte di acqua, miele o frutta a tutti gli avi cui il trapassato va ad unirsi. Dalla indissolubilità dell’unione matrimoniale e soprattutto per risolvere problematiche ereditarie nasce un’abominevole tradizione, mai ratificata dai Veda, che è la Satī, il comportamento della sposa virtuosa, usanza derivata probabilmente dal sacrificio di una Satī sposa di Śiva gettatasi nel fuoco per difendere l’onore del marito. Appellandosi a questa o a chissà quale altro aborribile costume, per lungo tempo e nonostante a più riprese le autorità locali l’abbiano proibito, la vedova si getta sulla pira funebre per morire bruciata insieme al marito e beneficiare dell’ascesa al cielo del suo l’Ātman per godere dei medesimi vantaggi. Acerrimi nemici di tale pratica furono gli Inglesi che vietarono la pratica ancora in uso nel 1829 ma testimonianze e denunce hanno fatto registrare dei casi almeno fino al 1988, non solo per liberarsi di una scomoda erede ma addirittura per abietti motivi di lucro di intere comunità che con la notizia di un evento così eccezionale si garantiscono l’afflusso di enormi masse di pellegrini, devoti e curiosi. La copertura religiosa data a questo abominio è data da commentari ai testi sacri i quali garantiscono alla sposa deceduta con la pratica della Satī non solo interminabili soggiorni in Paradiso ma, orrore, la possibilità di non rinascere ancora una volta donna oltre alla completa purificazione del marito e asserendo che tale comportamento è un dovere per tutte le donne a meno che non siano incinte o con bambini piccoli, il divieto è esteso alle fortunate che in quel periodo siano mestruanti, impure, o che non abbiano ancora avuto il menarca, almeno le bambine di otto anni di casta Brāhmaņa hanno un ancora di salvezza. La Satī come tutte le cerimonie ha la sua ritualità, la sacrificante viene vestita adornata e decorata con pasta di sandalo e recita preghiere asserendo la sua ferma decisione a compiere l’atto chiamando a testimonianza il sole la luna e varie divinità per compiere poi tre giri intorno alla pira accompagnata da mantra recitati dai Brāhmaņi per poi gettarsi nel fuoco. Non mancano autori che condannano la pratica equiparandola al suicidio rimasti sfortunatamente inascoltati. Come in ogni religione la donna è e rimane un accessorio dell’uomo utile non per se stessa ma per favorire la purificazione e la beatificazione dell’uomo, il quale rimane l’unico e solo soggetto al centro dell’impalcatura teologica.

Oltre agli impegni rituali dovuti agli Āśrama e ai Saṃskāra il pio Hindù, sempre di sesso maschile naturalmente, deve attenersi a determinati comportamenti in virtù del fatto che già dalla nascita il piccolo Indiano nasce gravato di cinque debiti da emendare mediante la celebrazione quotidiana di cinque Grandi Sacrifici da compiere in prima persona senza l’ausilio del Purohita, un Brāhmaņo, obblighi sorti a causa della sola venuta alla luce verso tutta una serie di entità che da quella vita possono essere danneggiati o che a quella vita hanno donato essenza e ad ogni debito corrisponde un opportuno rito riparatore, nell’India moderna tali atteggiamenti sono completamente decaduti salvo apposite celebrazioni commemorative eseguite da alcuni centri cenobitici. Il debito originale nasce dal potenziale peccato che può essere compiuto con l’uso di quelli che sono addirittura appellati come strumenti di morte, la scopa, la macina, il fuoco, il mortaio e l’acqua con i quali si può provocare la morte di insetti o piccoli animali. Per espiare i peccati originali il primo debito da estinguere è quello verso gli antichi Rishis primi auditori dei Veda e divulgatori dei sacri testi, il sacrificio da compiere è il Brahmayajna che consiste nel memorizzare i Veda, poi c’è il debito verso gli déi riparato con il Devayajna tramite offerte di legnetti unti con burro fuso gettati nel fuoco; il debito nei confronti degli antenati viene ripagato con il Pitŗyajna riservando agli avi porzioni di cibo: il debito verso le creature tutte viene estinto con il Bhūtayajna gettando riso cotto a terra dopo averlo purificato con spruzzi d’acqua; si finisce con il debito verso l’umanità pagato con l’ospitalità, il Nŗyajna, compiuto in special modo verso Brāhmaņi. L’opportunismo e la già frenesia del progresso ha portato nel passato ad elencare una serie di atti sostitutivi dei lunghi riti prescritti, nell’ordine: imparare un versetto a memoria, un po’ di combustibile nel fuoco, versare un po’ d’acqua, una singola pallottola di riso e l’offerta di un po’ di cibo ai Brāhmaņi. La moderna e incontenibile India ha cassato però pure queste veloci pratiche anche a causa degli impegni religiosi che ancora attendono al Gŗhastha nel corso dell’intera giornata suddivisa fra le ore notturne e quelle diurne in cicli di poco meno di mezz’ora per ognuno dei quali deve essere compiuto un rito diverso e ben determinato spesso riguardante l’igiene personale o della casa, atti che ormai sono entrati nell’uso comune, spazzare per terra o lavarsi i denti perdendo il loro primevo spirito di sacralità non avendo più il carattere educativo e propedeutico delle originali norme che indicavano addirittura anche come, dove e quando defecare. Fra i tanti perpetuano il loro aspetto spirituale l’offerta al fuoco e i bagni rituali cui segue l’apposizione dei simboli tipici Hindù come il segno circolare tracciato sulla fronte o quelli ancora più settari come l’Ūrdhvapuņḑra, i due segni verticali dei Vişņuiti che rappresentano i piedi del dio e il Tripuņḑra i tre segni orizzontali dei Śivaiti a memoria del tridente attributo della divinità. Fra i riti quotidiani quello della preghiera mormorata è l’unico sostanzialmente rimasto nella sua trasformazione in Devapūjā, l’adorazione senza ricorrere al fuoco sacro, che oggi racchiude in se tutte le antiche pratiche sacrificali e di meditazione. Anche questa nell’India moderna è stata sostituita da una veloce visita quotidiana al tempio ma almeno per i Brāhmaņi o per i più devoti rimane ancora l’unica forma di invocazione quotidiana alle divinità. La grande diffusione che ha la Devapūjā dal medioevo in poi è dovuta principalmente alla possibilità di sostituire con questa la lunga e difficile pratica del sacrificio che sottostà a precise e minuziose istruzioni così difficili da eseguire che è quasi impossibile non commettere errori durante il rito, se ne elencano fino a trentadue, questo provoca tutta un’ulteriore serie di cerimonie messe in atto al fine di non rendere vano il sacrificio offerto. La Devapūjā contiene invece al suo interno una piccola semplice formula che solleva l’adorante da ogni rischio, la richiesta di perdono agli déi, recitata al termine della preghiera, per gli eventuali errori commessi. L’annullamento dell’intera impalcatura Brāhmaņica, prego e non ho bisogno di te per farlo, Dio mi raggiunge senza il tuo tramite. La Devapūjā si attua tramite l’adorazione di un’immagine rappresentante la divinità d’elezione famigliare, non in quanto tale ma per mezzo della quale si evoca la presenza reale del dio. Lo scaturire di questa abitudine porta il fedele ad avere nei confronti degli déi lo stesso atteggiamento che si era abituati ad attuare nei confronti dei Brāhmaņi, nasce in questo modo una lista di atti di servizio da seguire per l’esecuzione della preghiera, l’Upacāra. L’elenco completo degli l’Upacāra stabilisce diciotto diversi momenti i quali tutti assieme completano e compongono la Devapūjā: l’Āvāhana, l’invito rivolto alla divinità; l’Āsana, lofferta di un seggio per il dio, la Pādya, l’acqua per lavargli i piedi; l’Arghya, l’acqua perché il dio possa rinfrescarsi; l’Ācamanīya, l’acqua per dissetarlo; lo Snāna, il bagno della divinità fatto con le cinque sostanze ambrosiache, latte, caglio, burro, miele e zucchero; il Vastra, una veste per il dio; lo Yajnopavīta, il cordoncino sacro; la Bhūsana, l’offerta di preziosi; l’Anulepana, unguenti sacri; la Puşpa, l’offerta di fiori; la Dhūpa, l’incenso; la Dīpa, lumini; il Naivedya, un pasto sacrificale; la Tāmbūla, un offerta autonoma individuale, la mia offerta a Dio; la Namaskāra, la prostrazione eseguita poggiando otto parti del corpo a terra, due mani, due piedi, due ginocchia, il petto e la fronte; la Pradakşiņā, la circonvoluzione in senso orario dell’immagine della divinità; il Visarjana il commiato. Tutto questo viene preceduto dalla preparazione e dalla purificazione del luogo, dall’approntamento della persona che si pone davanti al dio a torso nudo, a piedi nudi, con i segni distintivi sulla fronte e con lo Yajnopavīta posizionato in modo appropriato ben attenti a preparare il tutto utilizzando solo la mano destra e dalla purificazione nel fisico e nella mente per giungere all’acme della contemplazione con il Dhyāna, il momento in cui si costruisce l’immagine del dio nella mente realizzando nel contempo l’identità propria nel vero sé e del sé divino, l’Ātman e il Bráhman, l’Ātman nel Bráhman, il Bráhman nell’Ātman fino alla completa trasfigurazione dell’adorante in divinità secondo la concezione tantrica che soltanto un dio può adorare un dio, il Nyāsa. L’adorazione viene rivolta alla divinità d’elezione ma non vengono accantonati gli altri dèi principali che partecipano tutti assieme al sacrificio personale offerto. Le cinque divinità principali, Vişņu, Śiva, Śakti, Sūrya e Gaņeśa, sono rappresentati rispettivamente da cinque diversi minerali, ammonite nera, un sasso bianco, una pietra con strisce dorate, un cristallo e un sasso rosso, questi simulacri vengono posti in circolo con all’apice la divinità prescelta e gli altri a seguire in senso orario secondo un complicato schema che cambia a seconda del dio prediletto. La preghiera come veicolo di grazia, di adorazione di salvezza, ma la sola adorazione non può bastare.

Oltre alla fede, al sacrificio, alla preghiera, alla devozione entra in gioco a questo punto il Karman, ossia gli atti, le azioni, la condotta umana da tenere all’interno del proprio Vaŗna per il mantenimento del Dharma universale. Negli antichi Veda il Karman rappresenta il sacrifico, non necessariamente cruento, che ci avvicina e ci rende degni di giungere alla via degli déi il Devayāna quello che al momento sembra già un traguardo rispetto al Pitryāna il sentiero dei padri che volge ad una nuova rinascita, ma le speculazioni intellettuali che hanno portato allo scisma del VI secolo a.c., tutte le Upanişad che a centinaia e a migliaia hanno rivoluzionato i Veda espandendoli come si fa con la mente fino ad accogliere le più sottili e le più alte mutazioni, non possono più accontentarsi del Devayāna, il percorso non appare più come un traguardo. Il Karman non si ferma più a significare un preciso rito religioso, un sacrificio, una preghiera, il Karman arriva a definire ogni singola azione compiuta mantenendo però la rilevanza dell’atto sacro. In pratica ogni singola azione diviene Karman cioè, ogni azione è un rito sacrificale. Il Karman arriva ad essere considerato la via per la rinascita, lo strumento del Samsāra. I sacrifici sono ormai inutili e superati, non si inganna il Bráhman con un dono, sono le nostre stesse azioni ad aprirci la via del Samsāra oppure a condurci fino alla liberazione finale, alla Mokşa. Il rischio che il Karman sia negativo è molto alto, le azioni cattive ci spalancano le porte ad una nuova rinascita e allora per qualcuno si presenta un'unica opportunità per la certezza del raggiungimento della Mokşa, l’inazione. Nasce in questo periodo storico la figura del Samnyāsin, colui che rinuncia ad agire, che cessa di agire affinché il Karman non possa mai essere negativo ed avere in questo modo la certezza della liberazione dalla vita. In soccorso di tutti coloro i quali non hanno le capacità di diventare Samnyāsin arriva la Bhagavadgītā ad illuminare con le sante azioni di Kŗşņa. Se risulta impossibile il non agire allora non resta che agire e per far si che il Karman sia positivo lo si deve fare senza l’attesa di quello che tale azione alla fine ci porterà, disinteressandosi dei frutti ultimi dell’azione stessa, agire perché lo si deve fare ma non per ciò per cui lo si deve fare. Evitare l’azione, evitare il desiderio, non molti uomini sono come Kŗşņa, non è poi così semplice la santità, allora la Bhagavadgītā accorre ancora in soccorso, non sei in grado di rinunciare all’azione né a rimanerne indifferente, allora la tua unica ancora di salvezza per l’ottenimento della liberazione finale, la Mokşa, rimane la fede, la Bhakti, la devozione assoluta verso Kŗşņa che sola porta all’estinzione del Samsāra, la preghiera, la Puja, diviene essenziale e si impone prepotente il Mantra, lo strumento per pensare, per la concentrazione, per l’estraneazione dalla realtà materiale. Una nenia senza soluzione di continuità in cui viene ripetuto all’infinito un breve passo dei Veda o una formula, che in questo caso non è magica ma che aiuta il fedele alla concentrazione e al risveglio nella sua essenza della Śakti, la potenza, l’energia dell’universo. Il più famoso e comune Mantra è la Gāyatrī la sillaba Aum o più abitualmente l’Om di Vedica memoria. L’affermazione recitata dal sacerdote supervisore a conferma di ogni singola azione compiuta all’interno di un rito Vedico già si prefiggeva come un sì universale, un sì che si trasforma precocemente in un così sia, in tutto simile a quello Cristiano e lo trascende quale accettazione totale del volere divino, le Upanişad lo consacrano a essenza del Bráhman, “Come tutte le foglie si agglomerano infilate su una canna che le attraversa, così ogni parola si fonde nel suono Om. Il suono Om è tutto questo universo.” Chandogya-Upanişad, 6, 23, 4; e ancora “Questa sillaba è il Bráhman, questa sillaba è la cosa suprema.” Katha-Upanişad, 2, 16. La sillaba mistica Om, ossia la traslitterazione della sillaba indiana AUM, dove A sta per Brahmā, U per Vişņu e M per Śiva. La sillaba Om apre e chiude i Mantra e diviene Mantra essa stessa. Il Karman muta la sua identità in un periodo storico in cui i Brāhmaņi devono controbattere le nuove visioni offerte da Jainismo e Buddhismo e ritengono di dargli nuovo vigore evidenziando l’urgenza della liberazione, la Mokşa mediante la conoscenza o la Bhakti, il che in quel momento appare più che normale, quale altro può essere il fine se non quello di smettere di morire e rinascere e finalmente essere liberi nel Bráhman? Ma i Brāhmaņi non hanno fatto i conti con l’indolenza umana, questa rivisitazione del Karman porta alcuni tra i fedeli ad avere una visione della vita pressoché inutile se si deve ricorrere all’oblio del Samnyāsin o peggio ad un’azione senza coscienza e ancora perché la complessità del Sanātana Dharma se poi basta la Bhakti per Kŗşņa per ottenere la Mokşa? E ancora, è poi così brutta questa vita? Non conviene forse cercare di avere Karman positivo, almeno quanto basta per una esistenza migliore nella prossima vita e pensare poi all’eventuale ricerca dello scopo finale della liberazione dal Samsāra. Diviene difficile anche per gli stessi teologi Hindù giustificare questa evoluzione e spingere l’uomo verso un’azione responsabile con libertà di azione con la grazia del pentimento e del perdono e nel culto moderno si perdono un po’ i sapori profondi della vera ricerca dell’Ātman nel Bráhaman e del Bráhman nell’Ātman. Nell’Hindù moderno il Samsāra rischia di divenire uno strumento per allungare la vita terrena invece che un inutile susseguirsi di meschine esistenze lontani dalla verità del Bráhman. Anche la lunga storia dell’isolamento Hindù cede il passo non alle invasioni, non alle dominazioni ma alla globalizzazione dei pensieri, anche la religione più aperta alle variazioni, alle mutazioni alle evoluzioni comincia a perdere il suo significato dinanzi alla realtà di un mercato globale votato all’unico dio contro il quale ogni fede ha da sempre combattuto perdendo, il potere, il denaro il potere del denaro.

Ma chi o cosa è il Bráhman? Dio, principio, entità, essere, essenza, consistenza allo stesso tempo trascendente e immanente, sostanza del mondo, unica e immutabile realtà, creatore e creazione, recipiente incolmabile colmo di infiniti appellativi, nomi, forme, attributi e astrazioni atte a soddisfare ogni visione, ogni concezione. La sacra potenza che elargisce fondamento ai Veda e fondatezza ai mille e mille riti e a tutti gli dèi da lui creati, no in lui concepiti, no di lui ipostasi; il fulcro dell’Ātman e il suo rivestimento, contenuto e contenitore, armonia dell’unione Ātman-Bráhman nell’individuo che raggiunge la Mokşa; principio e fine dell’universo, alfa e omega. L’Uno e l’Altro, essenza e non essenza, affermazione e negazione, concepibile e inammissibile, né questo né quello ma questo e quello. Tutto e niente. Ma anche no! Recitano i Veda in un passo che darà il via a consistenti speculazioni, fonti di quelle Upanişad che porteranno alla nascita delle nuove fedi dell’oriente: “Chi lo sa con certezza? Chi può proclamarlo qui? Chi può dire da che cosa sia nato e da che cosa la creazione procede? Se sia stato lui a farla oppure no? Soltanto lui lo sa o, forse, neppure lui.

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Dio è ovunque e può essere raggiunto in ogni luogo ma come per ogni altra religione anche l’Hindù ha luoghi deputati ad un’intimità particolare con la divinità; genericamente definiti templi la cui etimologia deriva da porzione, per gli Induisti il nome del luogo di culto è indicato con la parola Vimāna, misura, non come sinonimo di porzione bensì come raffigurazione in terra dell’universo tutto, il quale avendo una forma risulta misurabile. Ritorna imperterrito il mantra assoluto “come in cielo così in terra”. Oltre al generico Vimāna, vi sono altri appellativi per i templi Hindù con significati specifici: Prāsāda a indicare lo stabilirsi del dio in quel luogo, come se fosse una scelta della divinità; Devālaya come residenza, luogo in cui il dio dimora abitualmente; Ālaya è la sua sistemazione, Devagŗha, semplicemente la casa di Dio e il più comunemente usato che è Mandìr a indicare semplicemente l’abitazione di Dio. In quanto rappresentazione dell’universo, che è Dio, e di Dio Stesso, il Tempio racchiude in se tutti i simbolismi che ne rappresentano sia gli aspetti grossolani, l’edificio inteso anche come corpo dell’uomo, sia quelli sottili, la figura della divinità, che quelli trascendenti, la realtà e la verità assolute definite Paramātman unione di tutti i sé e naturalmente ognuno di essi singolarmente, ogni Ātman di puro spirito. Il culto all’aperto di antica memoria comune al Mazdeismo, viene abbandonato intorno al 500 nell’epoca definita Gupta, dai dominatori del subcontinente, come per ogni peculiarità Hindù vengono stabilite precise indicazioni per la costruzione, salvo che poi, con l’abitudine a trascendere, le variabili diventano sostanzialmente infinite lasciando solo pochi elementi fissi. Sempre al centro della costruzione principale si trova il Garbhagŗha, la casa dell’embrione, la stanza privata del dio ove la sua immagine o il Sacro Lińga manifestano la presenza di Dio, dotata di un’unica apertura e senza illuminazione salvo i lumi accesi dai Brāhmaņi che vive e opera per la divinità e non per la comunità, non rientra infatti nei compiti del Brāhmaņo edificare, costruire o consolare il fedele, né guidarlo nella preghiera, egli svolge i suoi compiti solo ed unicamente per la divinità in cui ha fede e per la quale ha studiato ed è stato ordinato sacerdote per svolgere le sue funzioni solo nel tempio in cui è stato consacrato, anzi è per lui precluso officiare in altri templi. Agisce solo a favore proprio e delle divinità adorata come ogni Hindù, dalla casta più bassa fino al re, il quale pur agendo a favore dell’intero popolo offre sacrifici e preghiere in suo proprio nome. Il Brāhmaņo completa la sua partecipazione al Dharma non necessariamente officiando nei templi ma il suo primo e più importante Karman è quello di dedicarsi al culto domestico quotidiano per sé e la sua famiglia. Anzi il Brāhmaņo sacerdote del tempio limita l’azione delle sue preghiere al tempio stesso e alla divinità presente mentre il Brāhmaņo non sacerdote diviene Guru al servizio diretto dei propri seguaci acquistando in questo modo popolarità e prestigio, in fondo il Brāhmaņo sacerdote altri non è che un Guru mancato. Il Garbhagŗha è circondato da numerose sale ipostile concentriche dette Maņḑapa, fino a sette, e in quella immediatamente adiacente viene posto il Vāhana della divinità. Intorno alla divinità principale sono situate altre trentadue immagini sacre a completare le trentatré divinità Vediche. Altro simbolo onnipresente nei Mandìr è la rappresentazione dei due fiumi sacri ai due lati dell’ingresso esterno del tempio, la Gańgā e la Yamunā, che scorrono fino ad unirsi nel Saṃgama, la confluenza sulle cui rive sorge la città di Prayāga considerata tradizionalmente l’ombelico del mondo. Il diffondersi dei Templi si è avuto anche perché è, insieme a una serie di specifici atti rituali sacrificali, il motivo per il quale si può conseguire un merito religioso, per i ricchi guadagnarsi il Paradiso è sempre una questione di soldi; la donazione, Pūrtta, è considerata un atto di grande pietà religiosa con il quale si dà a tutti i devoti la possibilità di vivere l’intimità con Dio. Anche per il Pūrtta si devono seguire specifiche modalità, ci si rivolge ad un Guru il quale sceglie il luogo più adatto per l’edificazione in base alla vicinanza ad un fiume e alla divinità cui viene dedicato, riti di purificazione scacciano gli spiriti maligni dopodiché si semina sesamo e si attende che sia brucato per poi iniziare gli scavi e alla seguente deposizione di oggetti beneaugurali e simbolici per procedere poi alla posa della pietra di fondazione, Ādhāraśilā, e avviare la vera e propria costruzione che procede di pari passo con i riti e con i simbolismi ad ogni stato di avanzamento fino alla collocazione dell’immagine sacra, la Mūrti, la cui realizzazione segue anch’essa procedure e riti ben specifici. L’immagine sacra ha molta importanza in quanto insieme ai mantra e agli Yantra, simboliche figure geometriche, è considerata di estremo supporto per la meditazione, la Mūrti deve pertanto essere particolarmente evocativa per cui l’iconografia e gli attributi della divinità devono essere ben rappresentati ed evidenziati. Di per sé stessa l’immagine costruita deve attenersi ad una serie di regole iconometriche che hanno per unità di misura la lunghezza della falange mediana del dito medio, l’Ańgula, e in rapporto a questa deve essere misurata ogni parte del corpo della divinità. Una volta costruita viene eseguito il rito del Prāņapratişţhā, l’alito della vita, pratica che, come afferma il filosofo ottocentesco Gopinath Kaviraj, non porta la vita nell’idolo, quanto rende i devoti capaci di acquisire la consapevolezza della presenza divina già esistente nel manufatto, successivamente un’altra cerimonia unisce le preghiere all’applicazione di una pietra colorata o dell’oro negli occhi dell’immagine sacra, il

Mancando completamente di veri e propri canoni fissi e prefissati, risulta molto difficile cercare di aprire una visione più profondamente teologica dell’Hindù senza tralasciare qualche punto che al momento può sembrare non fondamentale salvo poi rivelarsi successivamente essenziale, in una fede che non fa altro che prendersi e riprendersi, lasciarsi e analizzarsi senza soluzione di continuità, dove quello che appare obsoleto ritorna improvvisamente nuova corrente e ciò che sembra strategico inaspettatamente cade nell’oblio, non rimane che cominciare dalle origini per poi perdersi e ritrovarsi nel tempo con ognuna delle sua peculiarità, considerando che in qualunque momento questa ne sia divenuta parte, in fondo, vi rimarrà per sempre. Nel corso dei primi secoli dalla trasformazione del Veda in Hindù più volte si cerca in realtà di stabilire un canone, anzi continuamente si mettono in evidenza studiosi e maestri Brāhmaņi che apportano le loro personali esperienze e intuizioni alla religione e, nell’intento di creare un punto fermo per i fedeli tutti, altro non fanno che dare vita a quelli che vengono definiti Sampradāya, letteralmente conferitori di dottrina, a cui il mondo occidentale assegna, non proprio ingiustificatamente, l’epiteto dispregiativo di sette. Ogni Sampradāya, con il suo maestro e gli adepti ritiene di aver individuato la giusta visione e impartisce le proprie regole, il problema della sua espansione e sussistenza deriva però dal fatto che nel villaggio vicino o pochi anni dopo un nuovo maestro ottiene la sufficiente attenzione da essere in grado di fondare un nuovo Sampradāya ritenuto più giusto ed efficace di quello precedente e di quelli vicini dei quali con i propri fedeli si adopera a screditarne l’efficacia e l’attinenza al Dharma e così via nello spazio e nel tempo fino all’attuale India frammentata in innumerevoli Sampradāya di cui ormai nessuno si preoccupa più di verificarne la concreta attinenza alle origini. Questo fiorire e rifiorire di varianti religiose e di appassionati studiosi dona però alla religione Hindù un florilegio di personaggi definiti di volta in volta con appellativi di devozione e esaltazione quali, Yogin, Samnyāsin, Sādhu o Vairāgin, i quali effettivamente vivono in pieno la religione e il Dharma e favoriscono la nascita di strutture cenobitiche, l’equivalente dei monasteri Cristiani, nei quali la religione viene vissuta in prima persona e divulgata non solo con le parole ma anche con i fatti, con l’effettiva Bahkti, con l’ascesi concreta e introspettiva, un luogo nel quale la Mokşa può realmente essere raggiunta. È infatti fondamentale che per gli Hindù il cosiddetto Induismo non è una religione ma un modus vivendi definito Sanātana Dharma, la legge eterna, quindi non qualcosa che si professa ma “il” modo per essere e per non essere più e quindi essere per sempre.

La casta Brāhmanica non rimane certo alla finestra e con il dilagare di queste nuove figure, inquadrate con l’appellativo di Sramánai, passa al contrattacco nel tentativo di rendere al proprio Vaŗna l’onore e il valore che secondo loro spetta. Più che il concreto valore dei Brāhmaņi può però la storia e la sociologia. Nel folto groviglio degli Sramánai, sopra agli asceti, ai fedeli, ai cultori e agli studiosi si accatasta ogni genere di profittatore assurto a titolo di Guru; guaritori, divinatori, predicatori di strada pronti a dare il loro “saggio consiglio” o “pronto intervento” dietro lauto compenso. Questa folla di cialtroni contribuisce a screditare in parte la realtà degli Sramánai riportando l’attenzione sulla compattezza e competenza della casta che si arroga in toto il diritto di esercitare la funzione sacerdotale in linea con il Dharma. A supporto delle asserzioni di unicità dei Brāhmaņi intervengono anche gli eventi della storia, dopo un periodo abbastanza lungo di libertà interpretativa improvvisamente i vari Sampradāya non sono più ritenuti sufficienti per la coesione nazionale e per la sussistenza dello stato. Non molti ci avevano provato prima e uno veramente grande di nome Alessandro aveva dovuto arrestare la propria conquista del mondo proprio ai confini insormontabili, fisicamente e moralmente, dell’India. Ma l’orda invasata e invaditrice Islamica affamata di nuove conquiste e confortata da quelle già consolidate, militarmente e religiosamente, riesce a sfondare i confini naturali e penetra nel subcontinente indiano conquistando tutto il settentrione e cosa ancora più straordinaria, sia nel senso di strana che in quello di sorprendente, riesce ad instillare i semi di una nuova religione nel marasma dell’Hindù. La resistenza funziona soltanto con la coesione e in uno stato in cui la religione è vita l’unico spiraglio di salvezza e di riscossa resta la religione stessa. I Brāhmaņi, volenti, nolenti o approfittatori, divengono quindi i fari illuminanti nel buio dell’invasione riconquistando loro malgrado quel potere che sempre più era scivolato dalle loro mani. La follia umana stravolge anche la sacra legge Hindù e in questi momenti molto difficili per l’India tutta si arriva al delirio d’onnipotenza religioso promulgando leggi che vietano alle caste più basse di camminare nella stessa strada in cui sta transitando un Brāhmaņo fino ad una sorta di “Jus Primae Noctis” Hindù affidando a giovani Brāhmaņi il compito di deflorare, addirittura dietro compenso, le novelle spose delle caste dei commercianti. Ma nonostante e contro questo strapotere, pur nell’assoluta mancanza di eterodossia si formano proprio in questa tragica epoca i Sampradāya che riporteranno successivamente la luce nell’Hindù conservatosi fino ai giorni nostri.

L’atteggiamento di sottomissione popolare verso i sacerdoti però pervade e permane il tessuto sociale Indiano pre, post e nel corso delle invasioni subite e indipendentemente dalla classe di appartenenza da cui il Maestro proviene. Che sia Brāhmaņo o Sramáno questi viene idolatrato al punto da essere identificato con il dio stesso e colmato di appellativi e riconoscimenti che ne accrescono potere e fama, il popolo ha bisogno di indicazioni, di consigli e di esempi, ha bisogno di credere che sia vero e ha bisogno di credere che sia vero ciò che gli viene fatto credere. Che appartengano di diritto alla casta oppure no i Guru, spirituali o meno che siano, divengono in questo modo i nuovi padroni del culto.


GANEŚA, ŚIVA E PĀRVATĪ

Fonte di vita materiale e spirituale è l’acqua, che troviamo nei riti, nei sacrifici e nelle grandi feste Hindù. Sua più grande espressione sono i fiumi, sacri o più sacri come il Gange o l’Indo dei primordi ma ogni fiume è collegato con l’altro nelle profondità della terra e tutti al mare e all’acqua del cielo. La grande festa del Khumba Mela si svolge a Prayāga dove Gange e Yamuna confluiscono l’uno nell’altro in un abbraccio divino e la città più sacra è Varanasi, sul Gange, sulle cui rive ogni Hindù vorrebbe essere cremato e lasciare che in esso si disperdano le proprie ceneri per assicurarsi la continuità della vita. Tutto questo senza una unità di Karman. La sacralità dei fiumi è un ancestrale residuo delle antiche tribù autoctone prearie assorbita in toto dai conquistatori, nonostante la loro repulsione per le abitudini di quelli che diverranno i Sūdra dell’Hindù. Quasi tutti gli Hindù credono in un Dio ma non tutti, alcuni adorano Śiva, altri Vişņu o i suoi Avatāra Kŗşņa e Rāma, altri ancora sono devoti alle dee specialmente a Kālī, incarnazione del primordiale principio femminile della Śakti. Alcuni vivono nel rispetto di ogni essere vivente e sono vegetariani, altri sacrificano animali alle loro divinità e ne mangiano tranquillamente le carni. Ogni villaggio condivide un proprio culto adorando una specifica divinità che può non essere nemmeno presente in un altro villaggio e al suo interno ogni singolo Hindù può venerare un solo Dio, vari dèi o nessuno e allo stesso tempo può credere in un solo Dio, vari dèi o loro manifestazioni e la realtà ultima, il Bráhman può essere considerata personale o astratta. Ma tutti credono fermamente nel Samsāra, la trasmigrazione dell’Atman da un ciclo di vita all’altro fino al raggiungimento della liberazione finale, la Mokşa, grazie al proprio Karman.

Per lungo tempo l’Hindù affonda le proprie radici nei Veda, tenendo ben stretta anche la terra che sta intorno ma sempre più si sente la necessità di rendere chiaro, diffuso e divulgabile il vero concetto, l’essenza della fede. Per favorire la comprensione e la plausibilità del Sanatāna Dharma e dare finalmente la svolta decisiva al credo Hindù intervengono nuove speculazioni che prendono il nome di Sūtra e attualizzano, siamo intorno al 300 a.c. le antiche concezioni dei Veda. La Bhakti entra a far parte della fede anche grazie alle antiche epopee, un tempo tramandate come leggende, che si trasformano in nuovi testi religiosi, tanto che gli dèi Vedici vengono abbandonati non per nuove divinità ma per riesumare quelli primevi, in realtà quelli veramente più vicini alla religione originaria e soprattutto più vicini al popolo che nel lontano dei villaggi già vive la religione quasi esclusivamente come Bhakti e ben conosce le leggende di Kŗşņa e Rāma. Poemi epici, come avviene in Grecia con Iliade e Odissea, divengono testi sacri, Rāmāyaņa e Mahābhārata, quest’ultimo soprattutto con il canto Bhagavadgītā spiegano e illustrano a tutti gli Hindù come mantenere inalterato l’equilibrio cosmico e ottenere la Mokşa. Da questi testi, che potremo osare nel definire canonici, prende vita una nuova accesa speculazione volta alla completa esposizione e comprensione delle antiche poetiche Veda, questi nuovi trattati prendono la desinenza –śāstra in aggiunta al testo cui si riferiscono, così dalla fondamentale opera del Dharmasūtra si evolve la speculazione del Dharmaśāstra, ossia il testo autorevole sul Dharma. Si viene in questo modo a presentare una nuova forma di evangelizzazione attuata non sui e grazie ai testi antichi, la cosiddetta Śruti, il testo udito direttamente dalla fonte originale, Dio, e riportato dai Rishis, ma sulla base di osservazioni, studi e approfondimenti effettuati da autorevoli studiosi e maestri, la Smŗti la memoria, quello che potrebbe essere inteso nel mondo occidentale come tradizione. Quindi si segue e si obbedisce una legge non più perché così è stato ordinato da Dio ma perché in tal modo è stato interpretato da personaggi, autorevoli quanto sia possibile, ma pur sempre umani. Per la prima volta si rileva nell’Hindù la chiara impronta umana, la Smŗti è l’autorizzazione a seguire e inseguire il Dharma in un determinato modo perché così è stato interpretato dagli studiosi o peggio ancora perché è ormai tradizione compiere gli atti in quella determinata maniera. Nulla cambia negli atteggiamenti, nell’ostentata ritualità, nella Bhakti ma non lo si fa più perché Dio lo ha comandato lo si compie perché così si è capito o perché ormai si agisce abitualmente in quel modo. Il Veda compie l’ennesima trasformazione avvicinandosi sempre più alle umane esigenze e allontanandosi nel contempo dalle divine norme. Le regole di vita religiosa si trasformano in una sorta di Codice Civile comportamentale di uno stato teocratico, accentuando esponenzialmente il rischio dell’emissione di norme religiose per regolare la vita sociale e civica, rifacendosi sì al Dharma ma sempre con la tentazione di sfruttarlo per un tornaconto civile.

Anche se il destinatario principale delle norme rimane il re, che proprio grazie e a causa della sua posizione, per primo deve dare l’esempio di attenersi e rifarsi al Dharma nelle sue azioni, i precetti che vanno a formarsi influiscono e influenzano il comportamento dell’intero mondo Indiano. Resta però l’innata sacralità Hindù a limitare al massimo la trasfigurazione totale della religione che rimane l’asse portante dell’Hindù il quale solo raramente cede alla volgarità dell’umano potere. Tra i più antichi e prestigiosi ci sono la Smŗticandrikā, il Chiar di luna della Smŗti, che tratta dei riti di passaggio, delle cerimonie quotidiane, dell’aspetto civico, dei riti funebri e delle purificazioni dai peccati; il Mānavadharmaśāstra, nel quale si approfondisce la teoria sull’origine del mondo per poi trattare a mo’ di codice dai temi politico giuridici e religiosi, delineando le norme comportamentali dal punto di vista dei quattro stadi della vita, gli Āśrama, l’apprendimento brahmanico, il matrimonio e i doveri reciproci degli sposi, l’anacoretismo e la rinuncia alla vita sociale per approdare infine alla codifica della condotta regale attenendosi strettamente ai codici comportamentali originari. Lo stesso argomento viene trattato in maniera invece molto più tecnica nell’ Arthaśāstra un estesissima raccolta di argomenti relativi al reggimento della cosa pubblica redatto dal Brāhmaņo Cāņakya, soprannominato per la sua contorta arguzia Kauţilya, lo storto e conosciuto in occidente come il Machiavelli dell’India, ministro del famoso re Candragupta intorno al 330 a.c.. La Smŗti arriva a trattare un compendio di temi che va dal diritto commerciale a quello penale ed ereditario stabilendo per ogni singolo Varņa le relative pene ed espiazioni regolando ovviamente il tutto rifacendosi al Dharma e soprattutto al Karman fino a determinare il destino oltre la vita e nell’infinito di rinascite che dall’attenersi al Karman dipendono.

Il continuo rimaneggiamento della Smŗti, attuato dai dotti Maestri che si succedono nell’elaborazione e rielaborazione dei testi, rende impossibile individuare l’originale momento in cui questa si manifesta. Ogni aggiunta o modifica appare come se fosse originale tanto che l’ultima stesura pare redatta esattamente quei millenni prima a cui si fa risalire la sua primigenia composizione. Ad ogni generazione il Dharma si allontana sempre più dal suo concetto essenziale proprio nel tentativo di renderlo originario, a conclusione di questo immane lavoro si arriva addirittura nel 1200 con la formazione di vere e proprie enciclopedie giuridico religiose capaci di indicare la retta via per ogni minuziosa occorrenza. Nello stesso tempo l’Hindù si arricchisce e si completa, abbeverandosi ai più antichi Veda, di tutti quegli accessori teologici, cosmogonici e rituali che portano alla formazione della moderna religione. Questi testi portano all’affermazione di un concetto fondamentale comune anche ad altre religioni, l’esistenza universale è suddivisa in cicli cosmici i quali necessariamente si rispecchiano sulla materiale esistenza umana e con il loro infinito ripetersi confermano definitivamente e necessariamente ciò che ormai si palesava chiaro nella religione Hindù, la reincarnazione in nuove vite.

L’idea della ciclicità in quattro ere nasce dall’esistenza ritenuta reale di epoche cosiddette d’oro, narrate nei testi più antichi, succedute dall’era presente, chiaramente ritenuta quella di massima oscurità, e dalla necessità/speranza che il futuro riservi il ritorno di ere splendenti da vivere non necessariamente in un non meglio identificato Paradiso ma concretamente sulla terra. In fondo però l’idea del ripetersi delle ere altro non è che una derivazione di un pensiero tutto umano, credere ci dona un po’ di sollievo da questa sì meravigliosa ma quotidianamente disperata vita. Essere così pragmatici da sostenere che questa è la sola è unica vita e che niente siamo stati prima e niente saremo dopo può essere una concezione condivisa e condivisibile, ma solo a livello teorico, l’anarchia dalla teologia e quindi la non remissività religiosa porta necessariamente al caos, in una società non frenata dalle norme religiose, che quasi sempre si sovrappongono a quelle civili, l’unico rischio è rappresentato dalla punizione in questa vita e per molti crimini ne varrebbe davvero la pena anche perché l’unica punizione potrebbe essere la vendetta in quanto non sussisterebbe autorità costituita né tantomeno riconosciuta. Quindi ci deve necessariamente essere qualcos’altro, oltre e sopra di noi, oltre e più di questa vita, è inumano pensare che ci possa essere una fine, della nostra vita, del mondo, del tempo, per cui la ciclicità dona al pensiero Hindù il consenso a una nuova possibilità. L’idea si allarga nell’involuzione all’interno del ciclo in quanto è palese che l’uomo per sua natura non sia in grado di mantenere il Dharma, che lo faccia per bisogno o per diletto l’uomo si ritroverà a infrangere qualsiasi norma gli si presentii davanti, in quanto le norme stesse sono fatte per ostacolare, dissuadere o vietare i comportamenti naturali dell’uomo, da non metterti le dita nel naso a non uccidere. Inevitabile fare qui cenno all’evento che permette alla religione Cristiana di prendere vita accettando ma nello stesso tempo trascendendo quella Ebraica da cui si genera, imprimendo sulle tavole l’undicesimo Dharma che permette la vita in pace su questa terra e il Paradiso eterno senza eterna ripetizione, “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Gesù Cristo Salvatore, Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo muore sulla croce prendendo su di se il dolore di tutti i peccati che sono stati commessi, che si stanno commettendo adesso e che si commetteranno. Successivamente la stessa religione Cristiana non farà altro che contraddirsi proprio su, da e per questo semplice particolare che avrebbe potuto riaprire le porte al caos.

La fine disamina teologica Hindù preferisce pertanto affidarsi alla linearità logica e senza controindicazioni della ciclicità, in fondo tutto nell’universo si manifesta ciclico e pertanto ciò che si manifesta nell’universo altro non è che lo specchio dell’essenza dell’universo stesso, come in cielo così in terra: la rotazione e la rivoluzione della terra; l’orbita lunare e il suo calare e crescere; seme, pianta, fiore, frutto, seme; oceano, nuvole, pioggia, oceano; coito, bambino, adulto, coito; polvere siamo e polvere ritorneremo; niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma, anche l’universo che al suo apparire si manifesta al massimo dello splendore. Si presenta in questo modo il dio creatore Brahmā, il quale si afferma non solo come il generatore ma come l’infinito artefice capace di ricreare ogni volta il mondo da sé stesso. Il Kŗtayuga, l’era perfetta, è la prima a presentarsi dopo mille Yuga di sonno latente del creatore che hanno lasciato macerare il mondo nel suo putridume. Il Kŗtayuga ha la durata di quattromila anni divini e durante questo periodo nel mondo regnano il Dharma, il Tapas e la veracità. Gli uomini vivono beatamente quattrocento anni senza alcun bisogno.

Quest’epoca arriva grazie all’intervento di Brahmā, la complicata cosmogonia Hindù prende l’avvio non da un inizio ma da un durante che si posiziona fra la più oscura delle ere in cui l’esistenza e ridotta allo stato seminale uniforme e priva di ogni conoscenza e la rinascita del mondo. Brahmā, visto in veste di Demiurgo, facitore materiale dell’universo, opera partendo dal suo stesso proprio corpo da cui tutto deriva e in cui tutto torna e di cui tutto è formato. Brahmā, fra i cui numerosi appellativi vi è Svayambhu, colui che da sé stesso sussiste, si autogenera, in un tortuoso amplesso compiuto dopo aver vinto le tenebre con la luce ed emanato le acque che feconda con il proprio sperma. Da questa unione si forma, quasi in un’ancestrale reminiscenza del big bang, un uovo d’oro dai mille raggi in cui Brahmā non ancora generato e quindi fino a questo punto nella sola manifestazione di Demiurgo, nasce da sé stesso in forma di Brahmā come essenza universale. Brahmā non ancora generatosi ma tuttavia comunque esistente, crea la sostanza da fecondare, la insemina e in essa stessa si concepisce generandosi a nuova vita. Dopo un secolo di tempo divino, spezza l’uovo, della parte superiore ne fa il mondo celeste, di quella inferiore il mondo terreno e fra questi pone lo spazio a dividerli. L’universo stesso corrisponde quindi ai confini dei tre mondi creati definendosi Brahmāņda, l’uovo di Brahmā. Successivamente vengono creati gli elementi primari della vita in virtù dei cinque sensi partendo dai più sottili, le vere e proprie basi, per arrivare ai grossolani, quelli comunemente riscontrabili sia per le cose materiali che per l’essenza quindi per arrivare alla coscienza e alla conoscenza si parte dall’esistenza della mente, senza la quale non si può arrivare alla verità. La creazione si muove quindi con fini ben precisi anche se inizialmente irriconoscibili o dei quali non si potrebbe immaginare la consistenza. L’udito, a cui corrisponde l’etereo, per determinare lo spazio, non solo grazie alle scientifiche peculiarità dell’orecchio interno, ma al suono inteso nella concezione indiana come vibrazione dello spazio. Il tatto, cui corrisponde l’aereo, per il tocco inteso come capacità di sentire lo spostamento d’aria. Alla vista, cui corrisponde la luce, la forma intesa come capacità di percepire l’elemento luminoso. Il gusto, a cui corrisponde il liquido, come capacità di assaporare le sostanze. L’odorato, cui infine corrisponde il solido, come capacità di riconoscere un oggetto dall’aroma. Gettate queste solide basi Brahmā è adesso in grado di compiere le prime creazioni materiali che potranno usufruire di tali mezzi per raggiungere i fini celesti ma anch’esse non sono create e neppure generate bensì manifestate dal Dio, gli dèi e il sacrificio, inteso come offerta. Si presentano così gli antichi dèi Vedici Agni, Vāyu e Mitra. La curiosa cosmogonia prosegue con la determinazione del tempo attuata tramite la creazione degli asterismi in quanto è il loro moto a darne la misurabilità, poi è la volta dello spazio costituito riempiendolo di fiumi, mari, montagne e terre emerse. La spirituale concezione Hindù prosegue la creazione con la concezione delle sensazioni attuata in primis con il Tapas, il calore prodotto con l’Ascesi, con la parola, l’amore e il desiderio. La concezione prettamente filosofica che ritroveremo presente nelle disquisizioni dell’antica Grecia, e nei dilemmi del Cristianesimo porta la conseguente formazione delle relative antitesi, non può esservi amore se non c’è odio e viceversa altrimenti non sarebbe possibile l’identificazione di ognuno dei due. Brahmā provvede così a manifestare per ogni positivo il relativo inevitabile negativo ma anche qui con un fine ben preciso, se il bene ultimo è la Mokşa e lo strumento è il Karman per misurare quest’ultimo ci vogliono termini di paragone delle umane azioni che si andranno a compiere. Se ci fosse solo l’amore tutti darebbero amore e non sarebbe possibile differenziare le condotte e i relativi meriti in quanto si conoscerebbe un solo e unico amore, si necessità quindi di un opposto, che sia odio, ira o volendo anche soltanto non amore in modo da misurare il grado di intensità positiva del Karman, ossia la capacità di quell’azione di mantenere l’equilibrio universale fondato sul Dharma che è parola di Brahmā cioè Brahmā stesso, quindi è l’amore verso Dio che viene misurato nel Karman. Tutto è pronto affinché possa beneficiare di questo universo perfetto anche quella che da Brahmā viene e che in esso è destinata a tornare, l’umanità. Brhamā novello Puruśa, genera i Vaŗna dalle sue stesse membra e ora che il mondo ha il suo Dharma al completo si manifesta nella sua Śakti e tramite il Tapas genera con il solo pensiero Manu, il primo uomo, l’ennesimo, il quale a sua volta con lo stesso metodo concepisce i dieci veggenti, i Prajāpati i quali a loro volta generano tutti gli esseri divini, semidivini, umani e animali. In altri testi è da Brahmā stesso che provengono i veggenti, i quali col loro rifiuto di partecipare alla cosmogonia dedicandosi solo ed esclusivamente al conseguimento della conoscenza liberatrice, sono i precursori della via che porta alla Mokşa tramite la rinuncia alle attività mondane ancestrali, asceti, Guru, Rishis, voce e parola della Śruti, il verbo.

La virtù diventa difficile da praticarsi e non spontanea l’età degli uomini scende a trecento anni e la conoscenza diviene il valore più alto da acquisire. È il Tetrāyuga della durata di tremila anni divini, l’era della tripletta che prende il nome dal gioco di dadi Indiano. Segue il Dvāparayuga, l’età della doppia, di duemila anni divini. Un’epoca in cui passioni e desideri incrinano sostanzialmente l’osservanza del Dharma, è l’inizio della decadenza, gli uomini vivono solo duecento anni. L’ultima era è il Kalyuga, quella attuale, l’era del punto singolo, di mille Yuga, gli uomini gravati di malanni vivono al massimo cento anni, il peccato è diffuso e i beni sono ottenuti solo grazie a frodi inganni e violenza. Non è solo il Dharmaśāstra ha definire quella presente come ultimo e miserrimo periodo del mondo, in tutte le tradizioni indiane i peggiori presagi sono elencati minuziosamente in una degenerazione progressiva che abbassa costantemente l’età media dell’uomo, vede la natura impazzire e le tradizioni essere stravolte dai più abominevoli sacrilegi. I comportamenti umani si corrompono, la dieta vegetariana scompare e i templi divengono macellerie, la ricchezza materiale diviene l’unità di misura e le uniche necessità sono la soddisfazione sessuale e l’opulenta sazietà. Adulteri, stupri e omicidi sono la normalità insieme a furti, menzogna e denigrazione. L’oppressione soffoca l’umanità fino quasi a costringerla nell’invocazione a Vişņu il quale si appresta a discendere sulla terra per il tramite del decimo e ultimo dei suoi Avatāra, il Brāhmaņo Kalki, il salvatore venuto a ristabilire il Dharma. Con il solo pensiero chiamerà a sé le armi divine e con un armata di Brāhmaņi sterminerà le dilaganti orde barbare riconquistando il mondo intero, che in realtà è la sola India, il mondo spirituale non quello geografico visto che le sorti di coloro che abitano oltre l’oceano e oltre il Pamir non sono contemplate nell’interesse divino. Con il sacrificio vedico del cavallo sarà ristabilita la giusta monarchia e la terra sarà donata ai seguaci di Kalki il quale si ritira in ascetico eremitaggio. Ritorna il Kŗtayuga, l’età dell’oro spirituale, viene ristabilita la gerarchia ideale in cui ciascuno conosce il proprio posto e adempie esattamente allo Svadharma. Il che non contrasta con altre interpretazioni che la vedono più come un periodo in cui non vi sono differenze sociali, perché nell’essenza dello Svadharma vi è insita la consapevolezza del proprio stato e l’assenza di necessità di modificarlo portando pertanto ognuno a ritenersi uguale all’altro pur non essendolo. La vita si svolge in paesaggi idilliaci e paradisiaci beneficiando di ogni sorta di leccornia e di vita quasi illimitata oltre a godere della visione diretta degli dèi. Inoltrandosi nelle fantastiche esegesi si arriva ad affermare che l’umanità, che chiaramente si identifica nei soli Hindù, sarà asessuata, senza necessità di nutrimento, fisicamente uguale con gli stessi indumenti o addirittura senza, statura eccezionale, assenza di odori sgradevoli, mancanza di palpebre e teste enormi, oggi li definiremmo alieni. Chissà se i Rishis, il verbo della Śruti che nei secoli ha portato ad emergere tali teorie, li hanno davvero incontrati gli alieni prima che questi andassero a costruire le piramidi in Egitto o a conquistare la Palestina. Questi esseri luminosi e fluttuanti hanno la malaugurata sorte di assaggiare i doni della terra rimanendone contaminati e perdendo le loro peculiarità, divengono in questo modo terreni sviluppando i genitali, dando inizio al decadimento del nuovo ciclo che avrà inizio con il coito, il matrimonio, il desiderio e quanto ne consegue. La sorte che toccherebbe ai Perfecti medioevali del dualismo, se non aborrissero la punizione che queste essenze senza sostanza si sono inflitti, la vita. Il ciclo mantiene il suo ritmo accompagnato dall’apparire di sole, luna e asterismi che opportunamente allineati designano e/o determinano lo scandire delle ere fino al prossimo Kŗtayuga portato da Brahmā.

La creazione o ricreazione del mondo avviene per mano del solo Brahmā in opposizione all’opera distruttiva di Śiva. La Smŗti ci fa presente che in realtà il Demiurgo ha chiesto l’aiuto proprio dello stesso distruttore, in un magnanimo gesto di coinvolgimento alla meraviglia della creazione e nel tentativo di comprendere il perché questi sia invece votato alla distruzione di un’opera così stupefacente. Due le versioni della risposta di Śiva a questo invito, nella prima il dio si immerge in una profonda meditazione con lo scopo di concepire un progetto per un mondo perfetto ma al suo riemergere dalle intime profondità scopre che il Demiurgo ha già provveduto disattendendo l’invito e per tutta risposta si evira, dando vita al culto del Lińga, sottolineando in tal modo la sua ferma decisione di non procreare e di non voler partecipare a quello scempio, di cui invece Brahmā si congratula lietamente, con lo stesso compiacimento che Yhwh manifesta nella Genesi; nella seconda Śiva si rifiuta apertamente di partecipare alla creazione di un mondo colmo di esseri destinati alla sofferenza e alla morte, da parte sua si concederebbe solo per la realizzazione di esseri beati e immortali. Con l’identico dubbio crescerà sottovoce anche lo stesso Hindù, che sotto l’influenza delle polemiche Bauddha le quali individuano in Brahmā l’artefice scellerato ideatore di un mondo non perfetto, negherà al Demiurgo sia la manifesta devozione dei fedeli che la costruzione di templi a lui dedicati, salvo rarissime eccezioni. Il grande culto Induista sarà invece orientato alla conservazione dei benefici ricevuti con la devozione a Vişņu e alla distruzione del Samsāra con quella rivolta a Śiva. D’altronde sorge spontanea l’avversione verso un creatore che è allo stesso tempo l’istitutore di una legge severa come il Dharma e il designatore del destino, il Daiva, ciò che viene dal Dio, tramite l’apposizione sulla fronte di ogni nato dei piaceri e dei dolori riservatigli nella vita, un susseguirsi di piaceri ma soprattutto di dolori insostenibili per il genere umano. Conclusa la creazione Brahmā si riassorbe in sé stesso a godere della visione della propria creazione rimanendo invisibile in disparte, apparentemente inerme, mantenendo però il pieno controllo dell’universo.

La cosmogonia affermata nella Smŗti si completa con la descrizione dei mondi creati da Brahmā con una minuziosa precisione tipicamente Hindù che a suo modo ricorda l’esposizione dantesca dei tre mondi dell’aldilà che più di mille anni dopo ritroveremo nella Divina Commedia, un testo che se scritto qualche secolo prima sarebbe divenuto sicuramente il fondamento di un nuovo culto. L’immenso universo di Brahmā è suddiviso in otto mondi divini, denominati regni, a sottolineare che comunque per il corretto mantenimento del Dharma è necessario un reggitore con il compito di supervisionare affinché l’equilibrio non sia messo in pericolo, seguiti dal mondo umano. In questi regni paradisiaci non regna però l’eternità ma in ognuno di essi ogni sottodivisione di abitanti ha un proprio ciclo vitale con un inizio ed una fine che al massimo hanno la durata di un giorno e di una notte di Brahmā prima di riprendere il loro nuovo corso vitale, ancorché definiti immortali, in questo caso l’immortalità diviene una peculiarità di coloro i quali già al culmine della conoscenza possono beneficiare di non doversi sottomettere ad una nuova vita umana o similare cioè non dover di nuovo intraprendere la scalata della verità.

Il primo è il Brahmaloka, il più alto, il più eccelso, il regno di Brahmā, al cui apice dimora e domina lo stesso Dio; a sua è volta suddiviso in tre sub-regni, il Janaloka, mondo delle genti, dove dimorano le più eccelse cariche Brāhmaniche le quali prendono il nome e la stessa essenza dai Mantra; il Tapaloka, mondo del potere ascetico, i cui abitanti sono i Rifulgenti, i Grandi Rifulgenti e i Grandi Rifulgenti di Verità, onniveggenti e pieni della conoscenza; il Satyaloka, il mondo della verità, abitato da astratti stati di coscienza raggiunti nella meditazione, il miraggio a cui aspirano di arrivare gli asceti terreni, la verità è conoscenza che apre le porte dell’estasi estrema; la Smŗti recita: “Per la verità la terra sta salda, per la verità il sole rifulge, per la verità il vento soffia,: tutto è fondato sulla verità, la verità è il dono più alto, la verità è la somma ascesi, la verità è il bene supremo dei mondi: ecco ciò che è stato rivelato.” Si intende chiaramente non il fatto di non mentire ma la sola, unica e vera verità di come sono andate le cose, la conoscenza reale dei fatti, chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando e soprattutto perché! Il secondo regno è quello dei Prajāpati, il Maharloka Prājāpatya, diviso in cinque cieli e abitato da esseri che si nutrono di meditazione e con una vita lunghissima; qui dimorano coloro che in vita si sono distinti per la loro rettitudine al Dharma e per la ricerca della conoscenza. Il terzo regno è il Mahendra, il gran mondo di Indra, dove lo stesso dio dimora circondato dalla sua corte e dalle bellissime Asparsas, godendo di tutti i piaceri più ricercati, compreso naturalmente quelli sessuali. Nonostante questo, gli abitanti del regno non devono la loro nascita ad un amplesso ma sono generati dallo stesso pensiero della divinità che li evoca e sono dotati di molteplici poteri, attributo non necessario agli abitanti dei mondi superiori in quanto per loro è sufficiente la conoscenza per avere il più potente dei poteri. Qui dimorano i trentatré dèi Vedici e cinque gruppi distinti di beati grazie alle loro azioni terrene attinenti al Dharma. Il quarto regno è il Pitŗloka, il mondo dei padri, quella via dei padri che è meta non sufficiente a garantire la Mokşa, ma soggiorno temporaneo prima di una nuova vita, qui dimorano gli antenati defunti. Il quinto regno è il Gandharvaloka, il mondo dei Gandharva, semidei con svariate attitudini, si accompagnano alle Asparsas o agli dèi nelle battaglie e nei relativi goliardici festeggiamenti. Il sesto regno è quello degli Yakşa e dei Nāga spiriti silvestri che conducono una vita del tutto simile a quella umana, comprese attitudini e obblighi, trascorrendo la loro esistenza in regni sotterranei colmi di tesori. Il settimo regno è quello dei Rakşas, demoni notturni e antropofagi conducono una vita similumana come gli Yakşa e i Nāga. L’ottavo regno è quello dei Piśāca, demoni infestatori di luoghi sacri e violentatori di donne si nutrono delle impurità tutte espulse dal corpo umano. Infine, vi è il regno degli umani, che in realtà è individuato come solo regno degli Ārya e solo successivamente vi viene ricompresa anche la regione meridionale dell’India; quindi, tutto il resto del mondo non è nemmeno compreso nel pensiero di Brahmā. In questa zona geografica si conficca la punta della piramide rovesciata che è il monte Meru, l’Olimpo Hindù, che delimita il regno umano e misura quello celeste e sulle cui pendici si trova l’albero di melarosa che dà il nome al continente religioso Hindù, il Jambūdvīpa. La punta del monte è conficcata fino all’apice inferiore dell’uovo di Brahmā dove hanno sede gli inferi. In questo continente vivono gli esseri umani accompagnati dalle altre esistenze suddivise in cinque matrici animali, domestici, selvatici, alati, striscianti e stazionari, che in realtà individuano tutta la vita vegetale. Una più raffinata suddivisione vede invece una tripartizione tipicamente Indoiranica a sua volta nuovamente tripartita al suo interno in base al merito o al demerito che si ha di rinascere in tale condizione. La suddivisione è infatti effettuata in Gati, cioè esiti, quindi destinazione come esito della precedente esistenza. La prima è la Gati della tenebra, il Tamas, esemplificando i tre livelli al suo interno troviamo vermi, leoni, menzogneri. La seconda è la Gati del vapore rossastro, il Rajas che indica anche l’impuro flusso mestruale; al suo interno mimi, re, Yakşa. La terza è la Gati della mente, il Sattva, dove si trovano Brāhmaņi, dèi e la personificazione del Dharma.

L’accesso alle diverse Gati è concesso in virtù del Karman della vita precedente e dopo un soggiorno più o meno lungo nella terra dei Padri, se questo è stato positivo ma non sufficiente da meritarsi i regni divini, o negli inferi, in cui si trascorrono ere cosmiche di contrappasso in stile Hindù, se i peccati sono stati oltremodo rilevanti. Insomma, se la vita è stata condotta secondo il Dharma, con l’opportuna devozione e con la ricerca ascetica della morte sulla terra, ossia la rinuncia al terreno, al materiale e la piena dedizione alla ricerca di Dio in sé e alla scoperta di se in Dio, se questo ha portato alla conoscenza, alla verità allora si è raggiunta la Mokşa e le fatiche sulla terra sono finalmente terminate. Se invece la retta condotta non ha portato a conoscere il Verbo, si beneficia di un periodo, sufficientemente beato, o almeno privo di dolori nella terra dei Padri. Qualora la vita sia trascorsa inutilmente lontana dal Dharma, a causa degli innumerevoli peccati della fede Induista che comprendono anche l’aver toccato un morto o l’aver fatto sesso con una donna mestruata, il periodo di transizione si trasforma in una finita eternità di dolori prima di reincarnarsi o in qualche animale immondo o in un Vaŗna inferiore, in pratica un inferno dopo l’inferno. Materialmente la reincarnazione, il Samsāra, avviene con una modalità ben precisa e non del tutto spirituale. Un defunto che abbia lasciato dietro di se un buon ricordo, qualora non fosse riuscito a guadagnarsi il Devayāna e sia invece indirizzato verso il Pitŗyana, può ricevere il sacrificio di una puerpera che a lui dedica una speciale offerta, l’ingestione di un Piņḑa, un polpetta di riso bollito nel latte, in questo modo la futura madre può chiamare in se l’essenza, lo spirito, l’anima del caro estinto. Non sempre però si ha una parente stretta gravida e pronta a officiare il sacrificio, anche se un migliaio di anni fa in India le donne avevano poco più che questo da fare nella loro grama vita, per cui era sicuramente inteso come molto probabile che in qualche parente si annidasse un feto in attesa di essere colmato dall’anima del defunto. Per cui coloro che invece muoiono dimenticati o non possono beneficiare del Piņḑa, risiedono per non più di ventotto giorni nel ventre della luna che piano piano si ricolma fino al plenilunio dopodiché lentamente si svuota lasciando che le anime, trasformate in gocce di rugiada, da essa cadano di nuovo sulla terra bagnando le colture le quali, ingerite da animali e umani, si trasferiranno nei loro feti a venire. Questa credenza aiuterà la diffusione del vegetarianismo tra gli Hindù in quanto le anime pie entrano negli alimenti vegetali, dieta base del Vaŗna dei Brāhmaņi, mentre le anime empie entrano negli alimenti animali facenti parte della dieta di coloro che magari non hanno grande possibilità di scelta, i Vaŗna inferiori. Un testo particolare, il Mānavadharmaśāstra, determina quali siano le modalità della vita precedente e in quale maniera il suo Karman possa agevolare le vite future, qualora la Mokşa si riveli irraggiungibile. Questo trattato identifica tre processi attraverso i quali determinare la positività o meno del Karman di ognuno tenendo conto innanzitutto dell’azione compiuta, se questa sia positiva oppure negativa, poi delle conseguenze di questa che possono a loro volta ripetere l’intenzione o meno e infine delle condotte prettamente votate alla trasgressione del Dharma. Si sviluppa in questo modo un elenco di azioni disdicevoli compiute con colpa o dolo raggruppate in tre modalità di effettuazione, mentale, vocale e corporea. Al di là di quelle che saranno le punizioni infernali destinate ai peccatori, ne risulta poi un ulteriore contrappasso anche nella rinascita, per cui all’uccisore di un Brāhmano il destino riserva una rinascita da cane o da maiale, ma anche in una delle più disprezzate sottocaste, questo chiaramente esprime appieno la considerazione per coloro che in tali caste sono inclusi, tra questi becchini e macellai; il ladro di granaglie rinasce topo, l’irrispettoso allo Svadharma rinasce servo dei suoi peggiori nemici e il ladro di preziosi rinasce figlio della moglie di un orefice, parrebbe una buona sistemazione ma questa precisazione forse tende più a denigrare la figura materna che a rendere disgraziata la vita del nascituro ma con una tale spregevole madre, in tal modo vengono considerate, sicuramente sarà un inferno. Chiaramente tutto questo accadrà dopo aver trascorso il dovuto periodo di pene nel vero inferno. Appena trapassato il defunto viene preso in consegna delle guardie di Yama, primo re e primo morto Hindù, mentre per il pio queste saranno luminose e splendenti come il luogo dove verrà condotto, per l’empio appariranno terribili e orrende a presagire cosa lo attende. In un evolversi di gironi e bolge dantesche l’inferno Hindù si dipana in un corridoio colmo di supplizi. A ladri e spergiuri saranno bruciate le piante dei piedi, in alternativa vengono ripetutamente gettati da una rupe in un baratro irto di spuntoni rocciosi. Per gli adulteri è riservata l’eterna, ma sempre finita, ricerca di cibo e bevande alternata da copule con statue di ferro incandescente. Tiranni e persecutori di ogni sorta sono gettati in una macina, traditori e ladri di vacche sono torturati con ferri roventi, i carnivori vengono tuffati ripetutamente nello stesso olio bollente nel quale in vita hanno cotto le loro pietanze, per tutti gli altri si aprono le porte del Lālābhakşa, il Mangiasaliva, ove potranno tranquillamente nutrirsi delle peggiori schifezze offerte dalla terra, carne di cane, vermi e putrida fanghiglia. I più virtuosi potranno invece attendere il loro ritorno terreno in luoghi ameni e sereni, beatamente nutriti e rifocillati nel corpo e nello spirito. Insomma, l’aldilà non è diverso da quello di molte altre religioni, beatitudine per i pii e dannazioni per gli empi, l’unica differenza è la temporaneità dell’oltretomba vissuta, se così si può dire, in attesa di una nuova rinascita con esaltanti aspettative per i pii e drammatiche previsioni per gli empi. Il Paradiso, quello vero arriverà solo al raggiungimento della Mokşa, almeno fino alla fine del giorno di Brhamā, poi tutto ricomincerà ancora e poi ancora senza mai una fine. Almeno fino a quando questo estenuante susseguirsi di vite non arriverà ad apparire inutile.

KṚŞŅA E RĀDHĀ

Intorno all’anno 200 si fa avanti un nuovo pensiero, figlio del continuo evolversi della speculazione Hindù. Inquilini di un mondo senza fine gli Indiani non riescono a dare una completa stabilità al loro culto, l’infinita ciclicità del loro universo li rende liberi di non avere certezze, a differenza di altre civiltà che invece per trovare quella sicurezza che il mondo non elargisce si inchiodano in dogmi incapaci di evolversi con il progredire dell’umanità. Ai testi di approfondimento sull’ascesi si affiancano nello scorrere del tempo e nel continuo rimaneggiamento, due nuove raccolte di aforismi frutto della continua messa in discussione del proprio credo da parte dei più illustri e attenti Brāhmaņi, le Mīmāmsā, attraverso le quali e non contro le Dharmasūtra e le Dharmaśāstra ma affiancandosi ad esse a completare il progredire dei Veda, parificano la ritualità, la quotidianità, il Karman alla pura e sola ascesi. Nella Pūrvamīmāmsāsūtra, gli aforismi della prima esegesi, si prescrivono modelli comportamentali non solo relativamente ai riti religiosi ma anche appunto alle faccende della vita quotidiana estrapolati dagli studi sugli studi sugli studi dei Veda, in pratica il trascorrere del tempo apre a nuove opportunità anche in virtù delle novità che il progredire apporta e di conseguenza la teologia, molto attentamente e molto oculatamente progredisce con esse, ancora una volta libera di stravolgere la religione originaria pur ritenendo di attenervisi e ad un attento esame inconfutabilmente, attraverso una miriade di filosofici maneggiamenti, non si può arrivare a negare che effettivamente vi si attengono. Attraverso un’infinita serie di sillogismi e speculazioni filosofiche si arriverà a confutare addirittura le fondamenta della religione Hindù, senza tra l’altro, come sempre, scandalizzarsi più di tanto. Intorno ad affermazioni, che attestano tra l’altro l’importanza della ritualità almeno al pari della Bhakti e dell’introspezione ascetica, come la semplice formula svargakāmo yajeta, chi brama il mondo celeste sacrifichi, si arriva ad affermare una serie di enunciati che spingono l’approfondimento dei versi del Veda e di tutte le loro speculazioni oltre ogni confine immaginabile. Queste due semplici parole arrivano infatti ad affermare che il mondo celeste esiste, che chiaramente non è di questa vita, che il sacrificio è un modo per raggiungerlo, che questo debba necessariamente essere fatto in un determinato modo e che anche se non risulta visibile il sacrificio stesso debba produrre una non meglio identificata reazione, meravigliosamente indicata dal termine Hindi apūrva, non prima esistente, la quale porta al compimento del sacrificio ovverosia l’accettazione di questo da parte della divinità ancorché nessuno possa sapere come ciò accada. Mentre Alessandro Magno portava a compimento l’estensione massima del proprio impero, dalla Macedonia fino all’India, filosofie e teologie viaggiavano sui cavalli dei conquistatori e su quelli dei mercanti e le grandi civiltà riuscivano inconsapevolmente ad influenzarsi le une con le altre. L’intellighenzia si sublima, oltre i confini oltre le guerre oltre le etnie in una silenziosa e anonima disputa filosofica telepatica.

La Pūrvamīmāmsāsūtra compie un passo meravigliosamente impavido arrivando a confutare alla base le ideologie e le cosmogonie fino a quel momento affermate e a depauperare definitivamente quel poco di dogmatico che appena pervade l’Hindù. Lo fa in modo estremamente sottile sfruttando la potenza della filosofia con un incredibile giro di sillogismi che in una spirale distruttiva e allo stesso tempo ricostruttiva colpirà il centro vitale dell’ideologia Hindù. Abusando della logica filosofica si concretizza la concezione di eternità, non un’eternità finita e delimitata dai continui risvegli e assopimenti di Brahma ma un’eternità finalmente infinita. Si arriva a questa concezione partendo comunque dai Veda, perché questi siano vero fondamento di vita e autorevole fonte del Dharma questi devono necessariamente essere eterni, come eterno deve essere il Dharma stesso, dove qui si intende qualcosa di più che infinito ma sempre esistito. L’affermazione dona a sua volta eternità alla parola dei Veda, al verbo. Lo stesso tipo di eternità che troviamo nella Bibbia, Esodo 3, 13-14 “Mosè disse a Dio: Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io cosa risponderò loro? Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono. Poi disse: Dirai agli Israeliti: Io-sono mi ha mandato a voi.” Io-sono, un non nome che indica il tutto, “Io sono colui che sono” Io sono colui che è e che sarà ma soprattutto che è sempre stato, unica esistenza che non subisce del divenire del tempo, unica entità che può affermare di trascendere il tempo. Il Verbo diviene sempiterno sia nell’essenza che nella sostanza, eternità viene pertanto attribuita anche alla parola e alla parola dei Veda. I Rishis mantengono la loro qualità di divulgatori ma viene ribadito e attestato che la parola contenuta nei Veda non è di origine umana, si dona in questo modo in maniera definitiva un valore ultraterreno, divino, alle sentenze dei testi sacri. Se è scritto nei Veda allora è vero perché è parola di Dio. Grazie ai Veda diviene eterno il mondo, questo stesso che noi conosciamo e viviamo, perché eternamente devono esistere coloro che tramandano i Veda, altrimenti ad ogni giorno di Brahma come sarebbe mai possibile che il verbo venisse recepito, interpretato e tramandato nello stesso identico modo, considerando che tutto avviene per la sola via orale? Come potrebbero i Padri fondatori reincarnarsi sempre nello stesso corpo dell’era precedente e procedere con gli stessi meriti per garantire la loro rinascita o il loro raggiungimento della Mokşa in quel preciso attimo dell’era come nell’era precedente? Quindi il mondo è, sarà ed è sempre stato solo e soltanto questo. Eresia, avrebbe sentenziato la cultura occidentale, nuova fede acclama invece l’Hindù. Perde drasticamente il suo valore e la sua importanza tutto il ciclo del sonno e della veglia di Brahma ma l’Hindù non si dispera, anzi coglie l’occasione per assegnargli un chiaro valore anche se solo complementare. Pur affermando che la cosmogonia è solo un’allegoria, le si affida un valore di metafora universale il cui significato è perentorio, solo attenendosi al Dharma si ottiene la Mokşa. Ecco a cosa serve tutto il complicato edificio di Brahma e del suo mondo, ecco che la stessa divinità perde l’ultimo pezzo della sua rilevanza donando agli déi che sono dopo di lui tutta la Bhakti dell’umanità.

Si sprecano ovviamente i commentari che divengono, come nella migliore usanza Hindù, parte integrante della teologia stessa, le speculazioni e gli approfondimenti donano alla nuova teoria maggiore forza e vigore e da essa ne traggono. Paradossalmente però il risultato ottenuto è un ulteriore affinamento teologico; moderno, pratico e pragmatico che dona al credo Hindù e alle inevitabili dispute che ne derivano una leggerezza, una sagacia e una acutezza finora non rilevabili, affidando le speculazioni a venire alle più alte filosofie. La nuova visione dell’universo arriva indenne fino al 700 circa, secolo da cui ci giungono due divergenti commentari, i quali a loro volta daranno vita a due ulteriori frammentazioni le quali riprendono la teoria della Bhakti per un ulteriore espansione e definizione della fede. Da una parte troviamo Prabhākara che fonda la scuola dei Prābhākara sostenitrice della forza normativa e regolante dei comandamenti Vedici del Dharma, secondo questa scuola l’azione compiuta in conformità al Dharma deve essere eseguita per la loro stessa esistenza, si fa perché è così! Il complesso susseguirsi di eventi che portano ad un determinata azione si svolge partendo dalla volontà di compierla ma attraversando una selva di check-point irrazionali; quindi, non controllati dalla ragione umana ma dall’esistenza stessa dei comandamenti, tramite i quali l’azione sottostà al comandamento stesso, senza alcun possibile riferimento a fini meramente personali. L’azione viene compiuta, ed eseguita in quel particolare modo, da e per il Dharma, l’unico intervento umano resta soltanto il desiderio di compierla o la sua rinuncia. Dall’altra parte abbiamo Kumāriļa il quale fonda la scuola dei Bhāţţha la quale, finalmente, mette l’uomo al centro della disputa. Per i Bhāţţha i fini personali sono estremamente rilevanti affinché primo si decida di compiere l’azione e poi la si esegua consapevoli di farlo da, per e contro il Dharma ed infine la si realizzi quand’anche questa possa essere ostile al Dharma. La differenza fra queste scuole di pensiero traccia un solco incolmabile che è universalmente alla base delle credenze e delle miscredenze di ogni religione, la libertà umana di compiere un’azione. Immanuel Kant mille anni dopo ne fa il fulcro della propria filosofia arrivando a discernere fra Imperativo Categorico e Imperativo Ipotetico, la religione Cristiana se la cava abbandonando a sé stessi i peccatori fruitori del Libero Arbitrio, gli Atei si cibano dei suoi frutti chiedendo come possa Dio lasciare che tutto questo accada, ergo Dio non esiste. I Bhāţţha trovano in questo il vero senso del Karman capace di produrre meriti e demeriti reali che davvero possano influire sul destino ulteriore dell’essere. Non ci sarebbero Vaŗna, se l’azione venisse dal Dharma, tutte le azioni avrebbero un Karman positivo e tutti raggiungerebbero la Mokşa in men che non si dica, vegetali, burattini, automi capaci di compiere solo azioni meravigliose ma completamente prive di Bhakti verso Dio, Chiunque Egli Sia, non più creature amate dalle divinità e lasciate a scorrazzare sulla terra dietro la promessa di un’esistenza illuminata dopo la vita carnale, ma solo se questa è condotta nel Dharma di qualsiasi religione. Nella visione Prābhākara non rubo, punto. Non lo faccio perché non posso concepire di farlo in quanto è il Dharma a guidare il mio Karman. Nella visione Bhāţţha rubo perché ho bisogno, perché ho fame o semplicemente perché lo voglio o voglio che non lo abbia l’altro. Oppure non rubo, perché non è giusto, perché sarò punito, in terra e in cielo o semplicemente perché non si fa. Compio però un’azione razionale, motivata e responsabile che sola può chiamarsi Karman ed avere un esito etico, positivo o meno, in grado di farmi guadagnare il Paradiso, in qualunque cielo religioso esso sia. I Bhāţţha affermano però che l’uomo sia capace di riconoscere e comprendere razionalmente l’esito del compimento dell’azione che anche in questo caso passa attraverso una serie di step, frutto però del ragionamento, che si traducono poi in: so cosa voglio, so come ottenerlo e so che non arreco danno. Il Dharma non è un ordine che si dà ad un subalterno o a uno schiavo, indiscutibile ma è una norma messa in pratica per il nostro stesso bene da noi razionalmente conosciuto e riconosciuto. Com’è possibile allora che tante azioni negative vengano compiute? I seguaci dell’indagine critica, il Nyāya adducono tali comportamenti ad una sorta di miopia o malattia umana che ci rende incapaci di vedere il terzo “so” o di dargli la corretta importanza, “so che non arreco danno”. Su e da questo punto parte l’esegesi ulteriore della seconda raccolta, la Uttaramīmāmsā, gli aforismi dell’esegesi ulteriore o dell’esegesi sul Bráhman. Questa analisi supplementare porta alla redazione di nuovi e numerosi testi che trattano la religione Hindù rifacendosi alle origini della fede, il Vedanta, e a loro volta ampliano i temi della Uttaramīmāmsā dedicati alla concordanza dei passi Upanişadici sul Bráhman, alla non contraddizione con le dottrine tradizionali, all’approccio meditativo con il Bráhman e al frutto della conoscenza del Bráhman. Come sempre la redazione dei testi originali rimane tuttalpiù sconosciuta ma viene riportata alla grandezza e allo splendore dai commenti e dalle speculazioni dei Brāhmaņi dei secoli seguenti, che in essa vedono la verità, il verbo. La stesura della Uttaramīmāmsā originaria è attribuita a Bādarāyana il quale fra miti, leggende e similitudini patronimiche viene accomunato a sua volta al Maestro ordinatore dei Veda che ancora vive da anonimo asceta in qualche remota landa indiana, ma già nei commenti si fa riferimento ad altri coautori e la stessa si rifà a citazioni e aforismi di altri maestri antichi ognuno dei quali arriva alla propria personale conclusione, dalla identità totale dell’Atman con il Bráhman già precedente alla Mokşa in una visione perfettamente Advaita; fino ad una visione quasi Dvaita nella quale il Bráhman è visto come l’omino alto un pollice che risiede nel cuore dell’asceta meditante. Questi testi di approfondimento che risalgono all’800 circa, definiti fra gli altri mille appellativi anche Brahmasūtra, portano però ad una definizione unanime del Bráhman “Ciò donde procedono nascita, permanenza e riassorbimento di questo universo e dei suoi esseri.”, una divina realtà cosciente che spontaneamente e senza un fine ha manifestato l’esistenza. Per allontanarsi il più possibile dalle antiche teorie le quali proclamano il Bráhman come la natura casuale che si procrastina ma che si regola comunque attraverso il Dharma, si attesta la teoria del gioco, vista come l’unica attività umana senza concreti fini manifesti, in pratica la creazione dell’universo da parte di Brahma non ha fini utilitaristici ma viene compiuta per solo diletto, perché è cosa buona. “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.” Genesi 1, 4-5. È indubbio che le due religioni siano entrate ripetutamente a stretto contatto, a vari livelli e in epoche diverse, ovvero entrambe affondano le proprie radici nella verità, il Verbo.

Il più importante, il più influente e il maggior artefice di successive altre ulteriori ramificazioni di dottrine è Śańkarācārya, comunemente detto Śańkara, Brāhmaņo della stirpe dei Nambūţiri rispettata Jāti del Kerala, venerato come Avatāra di Śiva, titolo per maestri seguaci, sostenitore della visione Advaita, non dualistica, dell’Assoluto. A lui sono attribuiti più di quattrocento fra testi, commenti alle Upanişad, trattati in versi e inni devozionali dedicati alle varie divinità che ancora oggi vengono cantati nelle feste a loro dedicate, anche da coloro che disdegnano questa dottrina. Il fondamento Hindù diviene l’unità tra sé individuale e Assoluto, Ātman e Bráhman unica essenza, definendo illusione cosmica tutto ciò che pare invece separarli, a cominciare dalla molteplicità delle manifestazioni materiali dell’universo, tutto è uno. Si sottrae il Bráhman, discettando, dalla possibilità di discettarne, arrivando ad affermare che non si possa affermare che il Bráhman è o che non è; che sia uno o molteplice; dotato o privo di attributi; sciente o nesciente; creatore o inerme; che abbia o non abbia effetti; che sia piacere o dolore; che sia o no il centro di tutto; che sia nulla o che sia; che sia trascendente o immanente. All’apice della non definizione gli si assegna un attributo totale definendolo Neti Neti; né così, né così. Ancora di più Śańkara lo individua nel silenzio assoluto di una Upanişad perduta che egli commenta, in cui cita il veggente Bāşkalin che in tal modo, ossia con una non risposta, risponde ad un tale Bādhva il quale gli chiedeva di insegnargli il Bráhman. Nella parallela visione Dvaita il Bráhman è visto invece come causa materiale del mondo, il Demiurgo, ricolmo di appellativi e attributi volti ad una sua definizione quali Nityā, eterno nel senso permanente della parola; era, è, sarà. Io sono colui che è; ieri, oggi, domani non hanno più senso, è diviene l’unico tempo verbale per definirlo; Śuddha, puro, vero; Buddha, nell’accezione Hindù della parola, coscienza e conoscenza illuminante; Mukta, libero, da sempre e per sempre di una libertà già esistente anche per l’umanità, da ritrovare piuttosto che beneficiarne; l’uomo è già il Bráhman, se ne deve solo accorgere. Non mancano nemmeno commenti Dvaita per Śańkara il quale afferma che l’esistenza stessa è certezza dell’Assoluto, nessuno può dubitare di esistere, solo la conoscenza mette fine alla non conoscenza e i riti Vedici, pur non assicurando la beatitudine, possono contribuire ad aprire la mente alla vera conoscenza. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” Matteo 7, 21-23; Śańkara stronca il potere della sola Bhakti, che in ogni caso gli sopravvivrà, e settecento anni dopo Matteo afferma che anche per gli Hindù non sono la sola ritualità e la sola preghiera a permettere la Mokşa ma lasciare che il Bráhman si manifesti nel sé di ognuno e operi nel Dharma. Continua Śańkara affermando che solo quando anche il Demiurgo riconoscerà la propria identità nel Bráhman i pii beati abitanti del Paradiso vivranno la Mokşa, definita in questo caso Kramamukti, liberazione graduale distinta da quella immediata di chi in vita si rende conto di essere egli stesso l’Assoluto. Dvaita o Advaita asserisce ancora che l’Īśvara, ossia il Signore personificato, non è che una maschera dell’Assoluto, apposta dall’uomo, e che i miti narrati dai Veda non corrispondono a pura realtà ma altro non sono che il metodo per presentare il legame tra l’Entità creatrice, il Sat, e il mondo materiale. Creatore e creato sono la stessa cosa, sottintende Śańkara il Sat è, e solo esso è; il non Sat, Asat, non è. L’universo è una sola unica cosa, niente si crea niente si distrugge, solo si trasforma. Da Sat in uomo, da Bráhman in Ātman e viceversa. La Mokşa null’altro è che il riassorbimento di ogni corpo nel Sat di cui è già parte. In un famoso poemetto a lui ascritto Śańkara esprime la delizia della Mokşa: “Il pensiero è dissolto… grazie all’attingimento dell’unità di Bráhman e Ātman. Non so più nulla di questo mondo, non so più nulla dell’altro… Dov’è andato, da chi è stato portato via, in che si è riassorbito questo universo? Or ora era veduto da me e non c’è più. Oh gran meraviglia! Che vi è da rifiutare, che vi è da accettare… nulla qui scorgo, né odo, né conosco io! Sono, semplicemente, in quanto me stesso, in forma di beatitudine eterna assolutamente distinta.” Una liberazione che non annulla l’Ātman, essere scientemente parte dell’Assoluto e beneficiarne allo stesso tempo l’individualità. Non “io sono dio”, non Dio è in me ma Dio è me.

Altri interpreti fautori della Uttaramīmāmsā arrivano ad asserzioni diverse che pur persistendo avranno molta meno diffusione, Gauḍapāda volgerà il suo intervento alla dimostrazione dell’irrealtà del mondo e dei fenomeni casuali che si manifestano; Maņḍana ritornerà alla dimensione eterna del Verbo che si rivela alla coscienza nell’atto stesso del parlare, la parola è Dio. Molteplici sono ancora gli approfondimenti compiuti dai seguaci di Śańkara, volti perlopiù a dimostrare che i limiti del Bráhman in realtà siano dovuti solo ed unicamente alla nescienza primordiale di cui la mente e tutti i suoi limiti di concezione ne sono il diretto derivato. Tale dottrina, chiamata del riflesso, asserisce dunque che solo i limiti, mentali e umani definiscono i limiti dell’Assoluto in quanto visto dalle rozze menti umane non come Sat ma come Īśvara. Mi permetto di aggiungere un Cristiano “Le vie del Signore sono infinite e misteriose.” Altri ancora si interessano del sé fino ad affermare che quello individuale è l’unica entità esistente in quanto una è la nescienza, quindi, è inutile che vi sia più di un sé e ancora che sussista un pluralità di sé per ogni mente in cui l’assoluto si riflette, fino a ritornare ad asserire che il mondo non è illusorio e che il sé è realmente prigioniero dei corpi materiali e solo riti e meditazione lo possono affrancare da questa prigionia; di tutto, di più. La meraviglia della filosofia Hindù che prolifera e prolifica, continua a generare dottrine e fede, in fondo l’unico e solo modo per giungere alla verità, in realtà ce n’è un altro ma comporta l’abbandono di questo mondo.

LA TRIMURTI

Mentre dotti e Brāhmaņi si dannano l’anima alla ricerca della verità attraverso la Smŗti, il popolo Hindù, accompagnato da Brāhmaņi che in questa trovano la loro fede e i loro interessi, rimane saldamente attaccato al dualismo del Sāmkhya e senza bisogno di approfondire nello spirito e ispezionare il proprio Ātman si affida molto più semplicemente alla tradizione. Fulcro teologico della credenza popolare è una leggenda che sembra esistere da sempre e assume in questo modo i caratteri della verità storica affidandosi essa stessa a fatti più o meno reali accaduti millenni prima e tramandati avvolti di magia e divinità. Come è per i Greci la narrazione omerica della guerra di Troia, come l’Edda celtica e come lo sono tutte le saghe Indoeuropee, che dalla stessa comune fonte di questa derivano, per gli Hindù l’epopea attestante la tangibile esistenza delle divinità è il Mahābhārata, il grande racconto delle guerre di Bhārata, un’antica stirpe guerriera indiana che nell’antichità dà addirittura il nome all’intero subcontinente denominato Bhāratavarsa, il continente dei Bhārata. La trama è la più antica del mondo, ci sono i buoni, i Pandava, tempestati da angherie, sventure e soprusi e ci sono i cattivi, i Kuru, artefici della malasorte dei buoni. C’è un eroe, che in questo caso è un Avatāra di Vişņu, Kŗşņa, che si schiera dalla parte dei buoni e li conduce alla vittoria e al riscatto. Il momento più alto dell’epica è racchiuso nella cantata detta Bhagavad-gītā, contenuta nel sesto dei diciotto libri che la compongono, nella quale Kŗşņa esorta alla battaglia, con parole profonde e toccanti, il demoralizzato Arjuna fratello del re dei buoni Yudhişţhira. Il conflitto finale si svolge nella piana di Kurukşetra sulla quale per diciotto giorni si affrontano diciotto eserciti e dove trovano la morte seicentoottantamilioni di guerrieri. La vittoria finale porta sul trono il giusto Yudhişţhira, detto anche il re del Dharma, il quale lascerà il trono al figlio per ritirarsi con i fratelli sulle cime montuose in attesa dell’ascesa al cielo. Il racconto termina con la morte di Kŗşņa colpito accidentalmente al piede da una freccia, proprio come l’Achille omerico, e il suo ricongiungimento con Vişņu, l’apice del Dharma è stato raggiunto e per il mondo ha inizio l’ultima terribile era prima della sua distruzione, il Kalyuga.

La redazione dell’immane poema dura oltre mille anni fino ad arrivare intorno al 700 ad una forma definitiva la quale risulta essere un compendio storico teologico Hindù, ascritta a Kŗşņa Dvaipāyana, detto Vyāsa, il quale è paradossalmente anche uno dei protagonisti oltre ad essere una manifestazione minore del dio Vişņu. Vyāsa chiede al dio Ganeśa di scrivere il testo e questi acconsente a patto che gli sia dettato tutto d’un fiato, di tutta risposta Vyāsa accetta ponendo egli stesso una condizione che il dio scriva dopo aver compreso ciò che aveva udito, così tramite complicati discorsi l’autore riesce a prendere fiato e Ganeśa nella foga della scrittura rompe il pennino ed è costretto a spezzarsi una zanna per poter adempiere alla promessa fatta, per questo il dio elefante è rappresentato con una sola zanna.

La storia narrata è in realtà ricolma di temi di spunto per riflessioni e speculazioni, lo stesso Śańkara ne redige un famosissimo commento, di aforismi, canti e passi relativi alla condotta della vita ed è specificamente incentrata sul Rājadharma, la giusta condotta del re. Numerose sono le interconnessioni con i Veda e con tutto ciò che ne consegue nella letteratura Hindù, compresi fatti, riferimenti a personaggi e a luoghi, come la città di Dvārāka fondata da Kŗşņa e sua dimora fino alla morte avvenuta il 18 febbraio 3102 a.c., della quale ricerche archeologiche ne attestano l’effettiva antichità coincidente con il Mahābhārata e la sommersione della sua parte originaria, analogamente a quanto narrato dalla leggenda. La data della morte di Kŗşņa è stabilita dall’astrologo Āryabhaţa grazie alla congiunzione di alcuni pianeti, certificando in questo modo anche la data della battaglia di Kurukşetra datandola al 3138 a.c., un epoca in cui effettivamente i circa duecentocinquanta regni in cui è divisa l’India combattono per la supremazia del subcontinente. Il Rājadharma è la complicata normativa che regola il comportamento del re, questi deve attenersi, più di tutti gli altri, al proprio Svadharma e attraverso lo Artha governare giustamente e lealmente ma anche no. Per non contravvenire allo Svadharma Yudhişţhira è costretto ad affrontare il re nemico Dhŗtarāşţra perdendo, non in battaglia ma al gioco, tutti i suoi averi, tutti i suoi poteri e tutti i suoi parenti e sudditi che gli vengono restituiti per intercessione della moglie cosicché il malvagio nemico lo sfida un ultima volta costringendolo, per attenersi allo Svadharma, ad accettare, a perdere nuovamente e a errare in esilio per dodici anni, ma al suo ritorno Dhŗtarāşţra non gli restituisce il reame come promesso. A questo punto cominciano i dilemmi di Yudhişţhira e il suo odio verso il Dharma. Ma l’epica vuole proprio toccare questo punto, Yudhişţhira si è attenuto al Rājadharma nel modo più pio possibile ma non nel modo adeguato, ha mancato nel non uso dello Artha e quindi in realtà non ha rispettato il suo Svadharma il quale gli impone di attenersi al proprio ruolo con ogni arma possibile anche la lama, anche il tradimento, anche il subdolo comportamento e infatti proprio grazie a questo, come ampiamente spiegato da Kŗşņa ad Arjuna, rimasto a capeggiare la rivolta al posto del demoralizzato Yudhişţhira, i Pandava otterrenno la vittoria definitiva. Quanto affermato nel Mahābhārata e in maniera enfatica nella Bhagavad-gītā è infatti che lo Artha è al di sopra del Dharma perché questi trae il sostentamento proprio con l’uso dello Artha. La storia si dipana nel tentativo di chiarire con precisione che questo però non deve essere perseguito per se stesso, “Chi cerca lo Artha per lo Artha è spregevole è merita di essere ucciso come un empio e un assassino di Brhāmani, mentre chi cerca il Dharma per il Dharma si conforma al più alto ideale morale ed è degno di ogni lode.”, il primo è Dhŗtarāşţra il quale verrà punito con la sconfitta definitiva il secondo è l’eroe Arjuna indottrinato dalle parole di Kŗşņa. Il Dharma deve essere protetto a qualunque costo attraverso lo Artha per poter proteggere il re e il suo regno. La condotta virtuosa è ammirabile in un giusto re verso i suoi ma verso i nemici nessun rispetto né di questi né del Dharma, lo Artha diviene l’unica via a costo di tradimenti, inganni e soprusi, un viatico teologico alla dittatura. Mentre per il re c’è la facoltà, soggettiva, di trasgredire le norme comuni, Brāhmaņi e asceti continuano a predicare un modello di comportamento di mitezza e purezza, per loro, almeno esteriormente, e per i fedeli, che ispira a seguire quegli ideali supremi che donano all’Hindù la vera anima limpida che ha incantato i pacifisti di tutto il mondo. Karuņā, la compassione nel vero senso della parola, quell’empatia che ti porta a condividere le pene altrui stimolando un gesto di carità; Ahimsā, la non violenza ma ancora di più la non accettazione, la non approvazione e la non partecipazione alla violenza; Satya, l’assoluto e coerente attenersi alla verità, agire in conformità alla verità anche evitando l’enunciazione di verità nocive quanto di menzogne per gratificare l’interlocutore; Vinaya, l’umiltà figlia della modestia e del pudore; Dāma e Kşamā, autocontrollo e sopportazione indulgente. Un popolo preparato ad accettare in toto di essere dominato, come lo fu dopo i Rāja, dagli invasori Islamici e dal colonialismo Britannico fino ad essere liberato non grazie al corrotto Rājadharma ma proprio da colui che degli ideali supremi fece la bandiera e l’arma per la liberazione e per l’indipendenza, Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, colui il quale proprio nella Bhagavad-gītā trova invece l’ispirazione alla non violenza, diviene l’Arjuna del popolo Indiano e da Kŗşņa impara che la non violenza non è accettazione passiva e sottomissione ma azione, calma e generosa, “Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere” con la calma e la generosità di accettare l’ineluttabile ma ancora dice: “Vivi come se dovessi morire domani, impara come se dovessi vivere per sempre” e in poche parole dona al Rājadharma tutta l’inutilità opportunistica che mille anni di filosofi hanno cercato di celare nel Mahābhārata e divulgare attraverso la Bhagavad-gītā. Nell’esegesi Hindù Kŗşņa si presenta ad Arjuna come lo scorrere del tempo che porta inesorabilmente, e inutilmente, alla morte, si richiede quindi l’azione, un’azione fattiva e incisiva e Arjuna si vota alla violenza della guerra per risolvere rapidamente e definitivamente la disputa, con gli déi, Vişņu in testa, dalla propria parte. Gandhi, novello Arjuna non ha ucciso e non ha chiesto di uccidere ma ha vinto dicendo: “Per me Dio è Verità e Amore; Dio è etica e moralità; Dio è assenza di paura. Dio è la fonte della luce e della vita e tuttavia Egli è al di sopra e al di là di queste. Dio è coscienza. È lo stesso ateismo degli atei. Perché, nel Suo infinito amore, Dio permette all'ateo di esistere. Egli è il cercatore di cuori. È un Dio personale per quelli che hanno bisogno della Sua personale presenza. È un Dio in carne ed ossa per quelli che hanno bisogno della Sua carezza. È la più pura essenza. È tutte le cose per tutti gli uomini. È in noi e tuttavia al di sopra e al di là di noi” e il suo assassinio è il mantenimento della promessa fatta di dare la vita per la non violenza e la dimostrazione che la violenza è soltanto distruzione in qualunque modo la si voglia presentare. La dimostrazione che l’interpretazione nasce dall’Ātman ma troppo spesso si trasforma andando contro ad ogni religione usata solo come pretesto.

Sia nel Mahābhārata che nella Bhagavad-gītā, oltre a tutti i risvolti politico sociali, si manifesta apertamente la divinità suprema del Bráhman, aspetto che in realtà dovrebbe essere il cardine dell’intera epica. Al di sopra di Brahma il demiurgo, qui il Bráhman si presenta come Sat, entità superiore trascendente e immanente che colma il mondo della sua materiale presenza attraverso quelle che sono definite Vibhūti, le ricchezze gloriose della natura, personificandosi in quelle più autorevoli e fondamentali per ogni categoria, il sole, il Sāmaveda, Vişņu, l’oceano, il Gange, il silenzio fra i segreti, l’Om fra tutti i Mantra. Il Bráhman come essenza di tutte le cose, come genesi nemesi e intento di ogni singolo atomo dell’universo come evidenzia il Mahābhārata mettendolo in relazione con l’umanità di cui è il fine ultimo da raggiungere attraverso il Dharma; con la singola persona di cui è l’Ātman, il sé che invita ad agire attraverso lo Svadharma; con gli elementi naturali che ne derivano in quanto Natura primordiale; con le divinità di cui è Signore, Devadeva, attraverso i quali si manifesta e nei quali può essere identificato in una forma di monolatria che potrebbe quasi intendersi come un vero e proprio monoteismo, in quanto ogni divinità altro non è che la diversa manifestazione dello stesso Dio; con i mondi di Brahma tra i quali è il Satyaloka il mondo della verità; con la conoscenza, non direttamente attingibile ma di cui lui è verace simbolo e conferma; con il sacrificio in quanto Demiurgo che dona la vita all’universo. Il Sat da cui tutto proviene e in cui tutto si riassorbirà, non cui ambisce tornare. Non è l’Ātman che desidera tornare nel Sat, in fondo questo sarebbe come manifestare l’inutilità del mondo che è stato donato, il non gradimento dello stato dell’esistenza, il Vaŗna; la preghiera e la pia condotta nel Dharma sono necessarie non per ottenere di essere riassorbiti ma per permetterlo. Il motivo del riassorbimento è il mantenimento dell’integrità nel ciclo dell’uovo di Brahma, il quale alla fine nel Kalyuga si concretizza solo per l’intervento della divinità Kalki a ripristinare il Dharma perduto e permettere il ripetersi infinito dell’essenza e dell’esistenza.

Per il suo intervento diretto e indiretto nella vicenda del Mahābhārata la divinità che però acquista un valore supremo esteriore diviene Vişņu, che per quanto sopra enunciato in realtà altro non sarebbe che una della tante manifestazioni del Sat e, in contrasto con la visione della Smŗti di Śańkara, per raggiungere la Mokşa il vero modo è attraverso la Bhakti, la completa devozione e osservanza disinteressata del Dharma, completata offrendo come sacrificio le azioni giuste, in questo modo il Karman positivo, che porta alla rinascita, viene annullato e il pio Hindù ottiene la liberazione definitiva. La Bhagavad-gītā enuncia le peculiarità che contraddistinguono il vero devoto, colui che nella Bhakti conduce la propria esistenza. Essenza di questa condotta di vita è la liberazione dal desiderio, l’origine di ogni deviazione dal Dharma e causa delle ripetute rinascite in antitesi alla Mokşa. I versi della narrazione sono molto espliciti e svelano chiaramente la concreta difficoltà della vera Bhakti e l’estrema elevazione spirituale di coloro che invece la raggiungono, cari al Sat il quale enuncia: “Senza odiar nessuno degli esseri, amichevole e compassionevole, senza mio, senza io, per cui agi e disagi sono la stessa cosa, paziente, appagato perfettamente sempre, aggiogato, domator di se stesso, dalle salde risoluzioni, in Me fissi la mente e l’attenzione consapevole, colui ch’è Mio bhakta Mi è caro. E colui dal quale non è turbata la gente, e che dalla gente non è turbato, da esaltazione e depressione, paura e turbamento sciolto, questi Mi è caro. Non condizionato da rispetti umani, puro, destro, assiso in disparte, da cui le preoccupazioni se ne sono andate, che rinuncerà ad intraprendere qualsiasi attività, colui ch’è Mio bhakta Mi è caro. Colui che non rabbrividisce di gioia né aborrisce, non s’angustia né brama, che rinuncia al bene e al male, provvisto di Bhakti, questi Mi è caro. L’uomo identico verso il nemico e l’alleato, e così pure nei confronti di considerazione e disprezzo, freddo e caldo, agi e disagi identico, del tutto libero da attaccamenti, per cui sono pari lodi e biasimi, silente, pago di qualsiasi cosa gli avvenga, senza fissa dimora, saldo nel suo pensiero, provvisto di Bhakti, Mi è caro. Coloro, poi, che quest’ambrosia Dharmica così com’è stata enunciata rimeditano, provvisti di sicura fede, aventi Me quale supremo, questi bhakta Mi sono estremamente cari.” Nell’architettura del Sāmkhya tutto queste deve però essere ottenuto tramite la gnosi, la conoscenza approfondita di del proprio Ātman, non ottenuta con la semplice ascesi alienante dal mondo concreto ma con l’accettazione e la Bhakti, con il Karman, ossia con l’azione devota, al contrario delle pratiche Yoga completate dall’Haţha-yoga, l’insieme di tecniche posturali e di respirazione destinata a innalzare l’organismo a un superiore grado di efficienza conferendo in questo modo al Kāma, il desiderio, una maggiore naturalezza e dinamicità permettendo così di percepirlo come già di per sé beatificante in quanto espressione dell’intimo cosmico perenne e non più necessario né da soddisfare anzi decadente nel momento stesso in cui se ne dovesse manifestare la realizzazione per mezzo di agenti esterni. Fino a realizzare che l’individuo stesso e il Bráhman sono una sola medesima cosa da sempre e per sempre. Spesso gli stessi dèi vengono rappresentati nella posizione dello Yogin, ossia colui che pratica lo Yoga, il metodo dell’autodisciplina ed è a questo metodo che si ispira la meditazione trascendentale nella visione più spirituale dell’Hindù per il raggiungimento dell’identificazione Ātman – Bráhman; lo Yoga però non è solo una pratica ginnica ma qualsiasi azione adottata nella premura di ottenere la liberazione finale ottenuta attraverso quell’introspezione assoluta che sola può portare alla reale conoscenza. Il Mahābhārata mette in evidenza questa differenziazione lasciando però aperta allo Yoga la porta della complementarità dandogli la qualità di via attraverso la quale rendersi capaci di aprirsi alla gnosi e al dono del Karman positivo.

Il Mahābhārata è ispirato in larga parte dall’antica scuola Vişņuita della quale si evidenzia la presenza soprattutto nelle citazioni sapienziali e a questa restituisce un dio rafforzato nel potere e nella santità. L’originaria teologia che vede Vişņu quale divinità suprema deriva da non meglio identificato quinto Veda segreto definita dei Sātvata, dall’appellativo di una sottocasta di umili origini e così denominata dai suoi denigratori proprio per evidenziarne l’infima derivazione. Allo stesso tempo evidenzia chiaramente la necessità delle classi più umili di una religione alla loro portata che allo stesso tempo soddisfaccia il bisogno di un contatto diretto con la divinità e paventi in maniera concreta la possibilità di ottenere la Mokşa attraverso l’unica via per esso percorribile, la Bhakti, la sola devozione, sottomissione e adorazione, l’unico vero sacrificio che ogni uomo è disposto ad offrire mantenendo integra la possibilità di vivere una vita di normalità e peccati di cui chiedere perdono. Pur se monolatro o sotto certi aspetti monoteista il Vişņuismo evidenzia altissimi tratti di semplice idolatria anche se accompagnato da estremi momenti di fede. Il Pāncarātra, così chiamato dai suoi seguaci, è la scuola Vişņuita delle cinque notti, quelle in cui si presentano le varie deità a portare i fondamenti del sapere sacro, Indra, Śiva, Brahmā, Bŗhaspati e i veggenti che simboleggiati dal gruppo dei cinque eroi presenti nell’epica Kŗşņa, Balarāma, Pradyumna, Sāmba e Aniruddha, il racconto si impregna della fede in Vişņu e della sua incarnazione nell’Avatara Kŗşņa, il quale diviene divinità assoluta venerata singolarmente. I numerosissimi testi scaturiti dell’analisi e dall’esegesi del Mahābhārata portano ad innalzare Vişņu a unica divinità fornita di propri attributi ma anche di testi formanti un corpus teologico vero è proprio fra quelli definiti di origine direttamente divina, quelli enunciati da veggenti Vedici e quelli di origine umana, in un ripetersi di affermazioni già sentenziate e del tipico rimescolamento spazio-temporale Hindù che rende quasi impossibile risalire alle origini quasi a sembrare che ogni testo sia esistente da sempre, proprio come dovrebbe apparire infatti. I testi, come per tutte le derivazioni appartenenti alla corrente del Tantra che in altre fasi sviluppa un sincretismo che dà vita a quella parte di Hindù che oggi conosciamo proprio con questo appellativo, si articolano in quattro sezioni volte ad esporre il Jnāna, la conoscenza; la Kriyā, i riti del culto; lo Yoga la pratica di vita; la Caryā, le regole di condotta. La dottrina si concentra su Vişņu che viene in toto identificato in Kŗşņa visto come dio degli dèi, unico signore, divinità personale, ossia concreta e tangibile vera ed esistente. L’iconografia di Vişņu diviene un potente sistema simbolico in cui si riuniscono tutti i tratti dell’Īśvara, che lo evidenziano come unico signore e tutti gli attributi materiali di potenza e creazione oltre a quelli divini, lo Jnāna la conoscenza essenza della divinità che si riflette su tutto l’universo; la Śakti, l’energia della funzione cosmogonica; lo Aiśvarya, l’attività della creazione; il Bala; inesauribile energia operativa; il Vīrya, l’immutabilità nonostante il dispendio della creazione; il Tejas, la gloria che lo rende esistente tramite il suo stesso autosufficiente agire. Tutte queste capacità transitano direttamente in Kŗşņa e combinati due a due, caratterizzano i Vyūha, le forme sintetiche in cui a sua volta Kŗşņa si manifesta ciclicamente, Saṃkarṣaṇa, il riassorbitore del mondo; Pradyumna, il Demiurgo, Aniruddha il conservatore.

A differenza degli originari testi Vedici, stravolti per secoli e per millenni sottoposti a libere interpretazioni, i contenuti del Mahābhārata vengono accettati come realtà storica di una vicenda Sacra e concorrono alla determinazione del pantheon Hindù composto da dèi molto umani, inclini al tradimento, al sotterfugio, all’inganno ma sempre in armonia con il mantenimento di quell’equilibrio universale di cui sono guardiani e questo ne giustifica completamente anche le più abiette azioni. Dèi mortali ma eterni che muoiono lasciando la deità ad insigni aspiranti che ne continueranno l’opera, prodighi di figli che da semidei sfrutteranno i loro poteri nel breve tempo che la parte semiumana concede loro di vita e decine di altre divinità minori elevate per i più disparati meriti, dalla santità alla morte in battaglia. In un batter d’occhio si passa dallo pseudomonoteismo di Vişņu ad uno stuolo di forme divine pronte ad accogliere tutte le preghiere, a ricevere sacrifici e ad elargire benefici, si concretizza quell’estremo divergere dell’Hindù che va dall’ascesi alla Bhakti coprendo ogni possibilità di culto in un infinito frammentario di fedi che rende praticamente impossibile a un non Hindù concepire, figuriamoci comprendere, quale sia la reale essenza di questa poliedrica religione.

Successivamente alla diffusione del Mahābhārata sale sulla ribalta teologica il Rāmāyana, quello che è definito il secondo Itihāsa, così dunque fu, quello che nelle culture occidentali si trasformerà nel “c’era una volta” delle favole mitteleuropee. Molto più semplice del primo e redatto proprio in stile favolistico il Rāmāyana narra la storia del re Rāma cacciato dalla matrigna con l’inganno prima di salire al trono e il cui allontanamento è la causa della morte per crepacuore dell’anziano padre e re, come nelle migliori favole che ovviamente da qualche parte dovevano aver attinto lo stile. Durante l’esilio, condotto con il fratello Lakşmaṇa e la moglie Sītā, questa viene rapita da Rāvaṇa dalle dieci teste, il re dei Rākşas, invulnerabile agli dèi ma violabile dagli uomini. Con l’aiuto degli elfi scimmieschi Vānara, capeggiati da Hanumat, i quali formano un ponte che unisce l’India all’isola di Lanka, raggiungono la prigione dell’amata sposa e dopo una mitica battaglia sconfiggono il nemico e Rāma uccide Rāvaṇa. Ritornati in patria Sītā è costretta a sottoporsi ad un’ordalia di fuoco per sostenere la propria castità durante la prigionia e nonostante ne esca vittoriosa è ugualmente bandita da Rāma stesso per conservare il rispetto dei sudditi. Durante l’esilio nella foresta Sītā partorisce i figli di Rāma, Kuśa e Lava e poco dopo muore. I piccoli sono così allevati dal saggio Vālmīki, l’autore del Rāmāyana che recitato davanti al padre lo porta a riconoscerli. Il poema si conclude con l’ascesa al cielo di Rāma, riconosciuto e riconosciutosi Avatāra di Vişņu, manifestatosi in terra proprio per poter uccidere Rāvaṇa a lui impossibile in quanto divino, insieme a tutti i suoi sudditi resi partecipi della sua apoteosi.

Vālmīki, profondo asceta il cui nome significa “quello del termitaio” che gli sarebbe cresciuto attorno durante un prolungato periodo di introspezione, evidenzia nel racconto, già in parte contenuto anche nello stesso Mahābhārata, l’estrema devozione regale di Rāma, il quale agisce in questo caso con il vero e puro Rājadharma senza lasciarsi influenzare dallo Artha. Quasi a contrastare volutamente i dettami del Mahābhārata, vengono rimaneggiati solo il primo e l’ultimo capitolo i soli in cui Rāma viene definito e agisce come Avatāra di Vişņu. Nel resto dell’epica il suo comportamento è semplicemente quello di un devoto re prodigo verso i sudditi che con il solo Dharma e senza ricorrere allo Artha riconquista il trono e il favore del popolo. Questo porta all’ammirazione Hindù e alla conseguente ascesa ad Avatāra prima e a vera e propria divinità poi. Con la diffusione di questo e di altri successivi testi che vedono Rāma protagonista, intorno al 1000 si apre un nuovo filone di un tipo divinità vicina e raggiungibile da tutti, invocabile in ogni momento per la sua estrema semplicità e umiltà. Si moltiplicano i racconti sulla vita della divinità e sugli insegnamenti che lo hanno portato a diventare saggio e giusto. Uno di questi è il Vāsişţahamahārāmāyaṇa, ascritto anch’esso a Vālmīki, nel quale il veggente Vasişţa impartisce insegnamenti al giovane dio. La teologia espressa volge verso un teismo molto vicino allo stile monoteista delle grandi religioni e si esalta in un apparizione di Śiva allo stesso Vasişţa a cui rivela la via più efficace per volgersi alla suprema divinità: “Dio non è fornito di occhi di loto (Vişņu), e neppure Dio ha tre occhi (Śiva), Dio non è già nato dal loto (Brahmā), né Dio è signore dei trentatrè (Indra), Dio non è il vento, né il sole, né il fuoco, né la luna che illumina la notte, né il Brāhmano, né il re, né io, né tu, ottimo tra i due volte nati. Dio non ha forma corporea, invero, né Dio ha forma mentale, Dio non è colei che ha la forma di loto (Śakti) e neppure Dio è intelletto: Dio è detto Splendore senza principio e fine, non è artificioso. Come potrebbe quello consistere in un oggetto finito, delimitato da forma e simili altri. Come Splendore senza principio e fine, non fittizio, la Coscienza, han conosciuto Śiva! Quello solo è enunciato con il nome di Dio, Quello va adorato, Quello solo è, donde promana tutto ciò che porta forma, reale e o irreale. La comprensione, l’equanimità, la calma: ecco i fiori che qui vanno offerti: i dotti nell’adorazione sanno che così va adorato Śiva ch’è soltanto Coscienza, immacolato: allorché con i fiori di calma, comprensione e equanimità si rende culto a Dio che è il Sé, sappi che questo è culto di Dio. Il culto delle forme non è affatto culto!” Un’esposizione chiara e mirabile messa in bocca ad una divinità che chiede in pratica di essere adorata da un Ātman ricolmo delle qualità dei giusti, si ritorna ad una visione più lontana dalla Bhakti e più vicina alle dottrine di Śańkara e anche in questo caso non posso fare a meno di vederci la stessa similitudine, “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.” Matteo 7, 21-23; certo che nell’epoca della redazione le due culture religiose si siano incontrate e confrontate.

Ma queste estreme raffinatezze sono, in ogni religione, troppo lontane dalla semplicità degli umili che preferiscono adorare Rāma per la sua condotta integerrima e per la sua devozione al Dharma a causa di ciò continuano a moltiplicarsi i racconti della vita della divinità fino ad arrivare nel 1574 alla redazione del Rāmacaritamānasa da parte del devoto Tulasīdāsa, nella quale si narrano le gesta di Rāma. Questa raccolta così affascinante diviene in breve tempo il testo più importante della letteratura Bhakti indiana quale vero e proprio viatico spirituale, assumendo oltretutto anche la funzione di diffusione della lingua Hindi al pari della Divina Commedia per l’italiano. L’invocazione della divinità ripetuta incessantemente assurge a forma estrema di devozione e preghiera sola bastante all’elevazione ascetica, tanto che il nome di Rāma è ancora invocato sul letto di morte e perfino Mohandās Gāndhī gli si rivolge mentre cade sotto i colpi del suo assassino. Per ogni sguardo rivolto verso l’alto c’è un gesto terreno molto più facile da compiere che ne soppianta l’estrema spiritualità.

VIŞŅU

Siamo ormai in pieno medioevo a più di quattromila anni da quando i Veda hanno lasciato la loro originale forma orale per riempire le pagine della storia dell’India, tutto è cambiato niente è cambiato, dotti, asceti e Brāhmaņi continuano le loro speculazioni sulla consistenza del mondo e della vita espandendosi e ripiegandosi ciclicamente come la loro religione, come la loro ragione di vita. Il grande successo cultuale delle epopee e la diffusione della scrittura favoriscono la redazione di numerosi racconti redatti sulla falsariga di quelli più importanti che narrano della vita e delle opere di dèi, Avatāra e pii reggenti, eroi e devoti. Nascono così i Purāṇa, ossia la rielaborazione allegorica dei testi antichi, i Veda, indirizzati principalmente all'educazione religiosa dei non Dvija, i Śudra e le donne, ai quali non era permesso lo studio e l’ascolto dei Veda, il linguaggio utilizzato è quello corrente e i termini risultano comprensibili anche ha chi non ha passato la propria esistenza allo studio e alla ricerca del Bráhman. Come nelle migliori tradizioni Hindù i testi, quasi tutti di redazione anonima, si moltiplicano esponenzialmente tanto da impedirne in ogni epoca una vera e propria catalogazione, fino a decidere arbitrariamente di chiudere il numero di quelli diciamo ufficiali, i Grandi Purāṇa, in diciotto con una sorta di classifica in cui in ogni momento le centinaia di testi, i Sub-Purāṇa, aspiranti a rientrare fra quelli riconosciuti possono comunque augurarsi di accedervi mentre altri rischiano di retrocedere in base all’importanza e alla diffusione della specifica branca religiosa che si attiene e caldeggia il proprio Purāṇa e la propria diversa via dell’esistenza. Al fine di limitare in qualche modo l’espandersi eccesivo di questo tipo di metodologia di catechesi, vengono da subito stabiliti cinque specifici temi che devono ritrovarsi all’interno della narrazione, i Pancalakşaṇa; la cosmogonia di origine Sāṃkhya, sia che questa prenda corpo da una natura primordiale che da mutazioni genetiche o da entrambe; il rinnovamento del processo cosmogonico che preveda dei cicli che portano non solo alla rinascita e al riassorbimento del cosmo ma anche ad un momento di stallo dal quale solo un nuovo Brahmā può dare l’inizio a una nuova sere di cicli; la descrizione di genealogie di dèi e veggenti, che troppo spesso divengono esistenti proprio per la loro presenza nei testi; il ripetersi ciclico dei diluvi dai quali ogni volta un diverso Manu salva sulla sua arca i sette Veggenti Vedici e l’essenza di ogni elemento vivente; le gesta delle dinastie monarchiche. Il criterio di identificazione non impone però che per l’inserimento nella categoria dei Purāṇa sia necessario che la parte teologica e cosmogonica sia al centro della storia, al contrario è sufficiente che sia solo la cornice dell’epopea narrata, questo comporta che troppo spesso i testi partono dalla necessità di dare lustro ancestrale a questa o quella famiglia regnante e che il canovaccio si dipani partendo dalle gesta umane per inserirvi gli altri criteri necessari. È infatti grazie alla larga manica dei canoni impiegati che è praticamente infinito il numero di testi includibile tra i Purāṇa. Addirittura, intorno alla fine del 1800 illustri esponenti del neo-Induismo sentenziano che perfino la Bibbia e il Corano rientrano nella categoria. Questa osservazione prettamente critica mette chiaramente in evidenza il fatto che i due testi facciano parte della Smŗti e di conseguenza non possano aspirare ad essere considerati sullo stesso piano dei Veda. Il contenuto sostanziale dei Purāṇa tratta i più svariati argomenti coprendo e completando ogni tematica necessaria per la corretta catechesi volta alla comprensione del Dharma sotto ogni prospettiva. Fra i più rappresentativi del carattere teologico-enciclopedico ci sono il Purāṇa del Fuoco, i cui contenuti sviluppano i temi della medicina della magia e della ritualità; il Purāṇa della Tartaruga, il nume che permise il frullamento dell’oceano di latte da cui tutto ebbe inizio, in cui Vişņu e Śiva appaiono come unica divinità che ne racchiude gli attributi di entrambi, Harihara, nel quale si esaltano i temi dello Yoga per la meditazione; il Purāṇa del Pesce, per la forma dell’animale in cui è trasformato Manu per salvarsi dal Diluvio Universale, nel quale i miti divini si sono arricchiti nel corso dei continui infiniti rimaneggiamenti nei secoli dei secoli; il Purāṇa di Skanda, il più consistente con oltre centomila strofe, arricchito dalle numerosissime tradizioni locali volto a comprendere l’intero universo Hindù e considerato il monumento alla vivacità dell’Hindù in continua trasformazione. Proprio questa è alla base della vera comprensione della religione Hindù che mai ha cercato di congelarsi e canonizzarsi in uno status quo irremovibile, addirittura nell’era moderna è contestata l’edizione a stampa, accolta con riprovazione dagli ambienti puristi i quali ritengono tutt'ora legittimo nonché assolutamente necessario il continuo rinnovarsi dei testi al fine di mantenerne intatta l'aderenza culturale e religiosa al tempo corrente, possibilità che verrebbe fortemente minacciate da una fissazione definitiva, un aspetto questo che molte altre religioni aborriscono proprio perché asseriscono che la verità è una sola, la loro, e non una per ognuno di noi e per questo lo stillicidio di defezioni personali si fa sempre più consistente non riuscendo più a riconoscersi nella religione che si professa.

Il vasto panorama dei Purāṇa, della loro redazione e dell’infinite opportunità offerte dalla loro rielaborazione offre sempre più la possibilità di deviare il tema principale nella direzione della divinità che si desidera esaltare, ogni corrente, per non definirle con il dispregiativo comunemente usato di Setta, forma un proprio Purāṇa o da questo prende spunto per la propria esistenza; si vengono così a creare o a modificare testi che partendo dalla stesura principale del Mahābhārata e del suo canto principale la Bhagavad-gītā divergono e divagano ad essa riferendosi o ad essa rifacendosi. La divinità che principalmente gode dei benefici di questa immensa produzione letteraria avviata in pieno medio evo ma che fino oltre il 1500 continua a produrre testi, è Vişņu, divinità primaria che più di tutte le altre è fisicamente presente nell’epica attraverso il suo Avatāra Kŗşņa. Nel Vaişņavapurāna, il Purāṇa di Vişņu, la divinità si identifica addirittura con il Bráhman stesso elevandosi a Sat, essenza universale e primigenia. In questo come nel più recente Bhāgavatapurāna, si ufficializza la piena presenza del dio nel suo Avatāra Kŗşņa il quale diviene in tal modo nuova vera e propria divinità degna di uno dei culti maggiormente diffusi e popolari. Le epiche abbondano di narrazioni sulla vita del giovane principe, figlio del re Vasudeva e della consorte Devaki, viene nascosto dai genitori nel villaggio di Vrindavana per proteggerlo dalle ire del monarca rivale Kamsa il quale uccide tutta la progenie della cugina Devaki perché una divinazione gli aveva annunciato che avrebbe trovato la morte per mano di uno dei figli di questa. Prima di manifestarsi nella sua piena divinità conduce una semplice vita da pastorello e più delle gesta eroiche del dio adulto sono destinatarie di venerazione le sue avventure amorose con le Gopī, le mandriane del villaggio, di lui innamorate e da lui conquistate una per una e tutte assieme grazie alla Maya che è in lui che lo rende capace di accoppiarsi simultaneamente con tutte. Al di là del risvolto prettamente erotico e amoroso la vicenda sottolinea ed evidenzia lo stretto rapporto d’amore fra la divinità e l’umanità, pregno di quella passione devozionale che è peculiarità della Bhakti e che per mezzo di queste liriche afferma la sua essenzialità nel rapporto con Dio. Nell’epica Gītāgovinda, il canto del pastore, del poeta bengalese Jayadeva, si accentra l’attenzione esclusivamente sulla vicenda del Kŗşņa giovinetto e appare per la prima volta la figura di Rādhā, una non meglio identificata giovane zia gelosa e fatta ingelosire dallo stesso Kŗşņa con le sue conquiste campestri. La passione reciproca porta, infine, i due protagonisti ad un intesa, alla riconciliazione e al pieno godimento dei piaceri amorosi e carnali. La lirica è spesso paragonata al Cantico dei Cantici contenuto nella Bibbia e anche in questo caso la si interpreta travalicando i manifesti fatti di erotismo per leggerla in chiave mistico religiosa avvalorando l’estasi donata dalla Bhakti e la sofferenza dell’anima separata dal suo principio divino manifestata nella metafora delle sofferenze amorose di Rādhā. L’equiparazione delle pulsioni e delle passioni amorose giovanili alla devozione verso Dio, ossia l’intensità del desiderio che ci assale di unirci con l’altro è il metro di comparazione della Bhakti, se il desiderio di ricongiungersi a Dio non è pari a quello di congiungersi carnalmente con l’amato la liberazione dall’estenuante ciclo di inutili rinascite è ancora lontana.

Questa similitudine fra fervore amoroso e devozione raggiunge il suo apice nei racconti della principessa Mīrābāī, ricordata come prima Santa poetessa Hindù. Nasce nel 1498 e fin da piccola il suo legame con Kŗşņa è subito stretto e da subito comincia a scrivere liriche di amore devozionale per la divinità che riconoscerà sempre come suo sposo, nonostante venga maritata al principe Chittor. Anche dopo il matrimonio conduce la sua vita nel tempio intenta nella preghiera e nella scrittura di poesie dedicate a Kŗşņa, fino alla fuga dalla famiglia e dal marito che tenta anche di ucciderla, per peregrinare nei luoghi santi di Kŗşņa diffondendo la sua fede nel dio. Nel 1547 perseguitata dalla famiglia, il cui rango non permetteva l’accettazione della vita da mendicante da lei condotta, Mīrābāī muore lasciando altissime liriche di quell’amore idealizzato in Kŗşņa che sicuramente non le ha dato la possibilità di trovarlo nell’umanità se non proprio nel diffondere la sua Bhakti.

I Purāṇa Vişņuiti offrono però anche l’occasione di riaffrontare per l’ennesima volta tutte le tematiche discusse e speculate fin dai Veda, anche se in questo caso riconoscendo Vişņu come Bráhman, nelle varie stesure spesso appartenenti a scuole divergenti e a correnti a sua volta nate da queste si contemplano tutti i più disparati dilemmi teologici. Nel Saṃvitprakāsa si tratta del mondo, qui non considerato come Maya, la magia intesa come potenzialità divina, ossia non esistente in quanto creato per, appunto, magia ma in quanto effettivo svolgersi dell’attività propriamente divina non da essa distaccata ma facentene parte ed è proprio la conoscenza di questa unità che porta alla liberazione e al ricongiungimento. Nella tradizione Śrivaişņava il dio personale è considerato il Sé dell’universo, il suo Ātman, e questo ne rappresenta il corpo sotto il pieno controllo, non solo nella materia e nei fenomeni ma in ogni sé individuale che diviene parte del Se universale, io sono già parte di Dio. La Bhakti diviene non solo devozione ma completo affidamento alla divinità attraverso la Prāpatti, letteralmente lasciarsi cadere, abbandonandosi e affidandosi completamente a Dio attraverso una ben precisa procedura dal contenuto prettamente spirituale e ovviamente non raggiungibile con la sola materiale effettuazione. La ferma risoluzione di seguire Dio che diviene centro degli interessi e dei desideri; l’abbandono dell’io e di tutto ciò che osta a questa comunione; la certezza della protezione divina; il matrimonio spirituale con Dio; l’offerta sacrificale del proprio sé come rinuncia definitiva e accettazione di Dio in sé; la riduzione alla totale impotenza consci che solo la bontà divina ci potrà dare quello che per capacità e meriti non avremmo mai ottenuto, solo quando il sé umano sarà completamente svuotato si manifesterà la possibilità di accogliere nell’intimo il Sé divino di cui si viene riempiti per grazia di Dio. A questa corrente teologica dovuta al maestro Rāmānuja si rifanno la tradizione del Śrīsampradāya, sostenitrice del Mārjārakiśoranyāya, la mistica via detta del gattino, il quale si lascia portare dalla madre senza fare nulla, come il devoto si lascia condurre da Dio e quella del Mārkaţakiśoranyāya, la via della scimmietta che restando aggrappata alla madre collabora fattivamente al suo trasporto, come il devoto capace di azioni dense di Karman positivo in aggiunta alla sola Bhakti.

Un’altra importante corrente viene aperta dal maestro Madhva (1198-1277) il quale ribellandosi alle teorie Śańkaryane cui viene inizialmente avviato, teorizza l’assoluta Dvaitavāda, la via del dualismo, nella quale la divinità è totalmente trascendente dall’uomo e dal mondo e questi sono singole realtà, pur godenti del riflesso del dio. Ogni sé è indipendente dagli altri e dal Sé divino identificato in Vişņu di cui rimane un riflesso ma la sua formale esistenza e presenza ne fanno al tempo stesso lo specchio in cui questo riflesso si manifesta, quindi una diversa entità ma bisognosa della presenza divina. La vera Bhakti e la grazia di Dio portano alla conoscenza che alimenta a sua volta la Bhakti in un circolo d’amore che conduce ad escludere dal cuore ogni cosa che non è Vişņu, fino alla liberazione e all’affermazione, unica nell’Hindù, dell’esistenza di un inferno per gli aborritori di Vişņu. E poi ancora quella di Caitanya, considerato contemporaneamente Āvatara di Rādhā e Kŗşņa proprio per la sua teologia nella quale il dio si manifesta nelle due divinità corporali per poter godere del dolore dovuto alla separazione dall’amato supremo. Dio si fa uomo per provare il dolore dovuto alla mancanza di sé stesso e potersi devotamente cercare. Il Rudrasampradāya, sorto alla fine del 1400, nel quale si afferma la non esistenza della Maya, qui intesa come potenza divina casuale magia miracolosa senza un fine preciso, ma che la causa universale del tutto risiede in Vişņu/Kŗşņa verso cui la Bhakti più estrema porta addirittura ad un’eccessività nella pratica erotica. Il Nāmavatsampradāya nato intorno al 1500, culto esclusivo di Rādhā e Kŗşņa, in cui si arriva addirittura a teorizzare un dualismo non dualismo, nel quale allo stesso tempo il sé individuale è parte de Sé universale ma agente per le proprie qualità. E la teologia libera da ogni canone continua a spaziare nella commistione di quelle più antiche formandone di nuove, che si allontanano e si riavvicinano come la scuola di Dattātreya, Āvatara di Vişņu quale yogin immortale che ha in se l’intera Trimurti, qui l’ascesi torna ad essere principio di liberazione e i canti ascritti al maestro vi portano attraverso la conoscenza interiore, Jivanmuktagītā, il canto del liberato in vita e Avadhūtagītā, il canto di colui che ha scosso via i legami mondani, l’estraniarsi dal desiderio ritorna ad essere centro della liberazione. Fino alle teorie del Satsampradāya in cui la dottrina del maestro, la Guruvāņī, diviene unica e sola fonte di conoscenza portando all’abbandono di tutte le autorevoli fonti del passato. Guru Nānak fonda una vera e propria nuova religione il Sikh-panth, il figlio Śrīcand avvia la tradizione di coloro che siedono in disparte dal mondo lo Udāsisampradāya, concentrandosi nella sola lettura degli inni dedicati alle principali divinità Hindù concentrate in una sola entità. Fino al Sakhīsampradāya in cui gli adepti si immedesimano nelle Gopī travestendosi da donna e assoggettandosi alle mensili interdizioni dal culto prescritte alle donne in corrispondenza del ciclo mestruale, al fine di immolarsi al culto delle amiche di Rādhā e poter godere degli stessi tormentati dolori estatici dovuti alla separazione dell’anima dal suo principio divino per ricongiungervisi poi attraverso la Bhakti e al sincretismo Islamico di Dādū Dayāl del 1600, nel quale l’amore per il Dio d’Amore arriva a trascendere le barriere religiose in una commistione teologica universale.

Parallelamente ai Purāṇa Vişņuiti si sviluppa una serie di dottrine e correnti di derivazione Śivaita dai contenuti epici sostanzialmente non divergenti da quelli del Mahābhārata fatto salvo che la divinità impersonante il Bráhman e il dio Śiva. Nonostante il diffondersi dei testi anche grazie alla presenza della sacra famiglia formata da Śiva, la moglie Umā figlia dell’Himālaya personificato e i due figli Gaņeśa dalla testa di elefante e Skanda dalle sei teste, la dottrina Śivaita da una parte viene frenata dall’esponenziale diffondersi del culto verso l’amore universale di Kŗşņa dall’altra forma una nicchia di adepti che consolida la vera Bhakti verso Śiva attraverso il culto del Lińga a cui è dedicato il Lińgapurāṇa e la cui trattazione prende spazio in molti dei Purāṇa Śivaiti. Fra i vari miti di evirazione motivati sempre dalla reazione rabbiosa del dio alle azioni dei suoi pari spicca quello nel quale il Lińga appare in forma di colonna di fuoco fra Vişņu e Brahmā intenti a primeggiare per la creazione del mondo. Vişņu si getta alla base per cercarne l’inizio, Brahmā vola in alto a cercarne la fine ma nessuno dei due vi riesce anche se Brahmā afferma di averla trovata, l’ira di Śiva non si fa attendere e fuoriuscito dal Lińga emana dal suo terzo occhio Bhairava, il tremendo, un Āvatara che decapita la quinta testa di Brahmā colpevole di aver parlato. Non a caso fra i suoi attributi vi è una collana formata dai teschi dei Brahmā degli universi passati, a dimostrazione del fatto che questa scena sia perennemente ripetuta dopo ogni riassorbimento di cui lui stesso è artefice. Nell’iconografia tradizionale il terzo occhio è però un insieme di attributi, il suo nome è Mūrticakra, la ruota dei vari aspetti, l’occhio di Agni, in quest’occhio c’è la presenza della Śakti come dea personale e come potenza emanatrice dell’universo, a rappresentare la volontà; l’occhio destro è il Prakāśacakra, la ruota di luce emanatrice dei cinque sensi e dei rispettivi organi di emanazione oltre al Manas, la mente e al Buddhi la piena conoscenza, l’occhio del sole, la presenza della Śakti è qui infatti potenza di conoscenza in cui il mondo è già immaginato nella sua completezza anche se non ancora formato; l’occhio sinistro è l’Ānandacakra, la ruota della beatitudine emanatrice degli elementi atti a dare avvio alla creazione del mondo, la Śakti è presente come potenza dell’azione, l’occhio della luna. Queste tre potenze sono simboleggiate anche nel tridente che il dio reca e i suoi seguaci se ne segnano con tre strisce orizzontali, il Tripuņḍra, la fronte e varie parti del corpo per distinguersi dai Vişņuiti che si segnano la fronte con tre strisce verticali, l’Ūrdhvapuņḍra, simbolo delle impronte dei piedi del dio. Nei Purāṇa si mettono in evidenza i vari attributi proprio per mettere in risalto le capacità della divinità e stimolarne l’adorazione devota, la gola è blu per le venefiche sostanze ingerite al momento della creazione del mondo al fine di difendere l’umanità nascente; otto cobra gli stanno attorcigliati perché gli impuri e i pavidi gli restino lontani, questo chiaramente a significare il valore e la pia purezza di spirito che invece caratterizza i suoi fedeli; quasi sempre nudo perché niente ha da nascondere, la sua coscienza divina è pura, impeccabile, mentre invece proprio dopo il primo peccato Adamo ed Eva corsero immediatamente a coprirsi consci della loro nudità immeritata. Un dio terribile all’apparenza ma capace invece di stimolare l’amore universale e la Bhakti che anche per i Śivaiti è indispensabile per la liberazione finale, forse ancora di più visto che proprio Śiva è colui che distrugge il mondo.

Attraverso i Purāṇa Śivaiti si regola la via materiale e spirituale con una serie di pentadi ripetute fino all’ascesi completa e al ricongiungimento con il dio. Si parte dai cinque volti di Śiva, Sadyojāta, il subito nato; Vāmadeva, l’amabile; Aghora, il non terrificante; Tatpuruşa, quel primo uomo; Īśāna, il Signore, i cinque volti che nella vibrazione delle cinque sillabe del mantra in cui si identificano, Namaḩ Śivāya, formano il corpo sonoro del dio. Per raggiungere la Mokşa si deve superare cinque stadi ascetici, quello manifesto, quello immanifesto, il trionfale, del taglio dei legami ed infine della cessazione delle trasmigrazioni attraverso altrettante iniziazioni: risiedere in cinque diverse sedi dove studiare oltre ai testi anche la danza e la recitazione, un santuario, fra la gente comportandosi da folle, in una caverna, in un campo di cremazione e con Śiva stesso. Successivamente ci si deve liberare dalle cinque impurità: la coscienza non reale, il demerito, i motivi di attaccamento alla vita mondana, le deviazioni dal Dharma e il decadimento spirituale; le armi per oltrepassare questo stadio sono la purificazione attraverso le cinque forze: devozione al maestro, quiete, trascendenza degli opposti, meriti e attenzione concentrata e i cinque espedienti: la saturazione di dottrina, la meditazione e i mantra, la Bhakti assoluta verso Dio, il conseguimento della sua benedizione e il comportamento folle per i cui conseguenti maltrattamenti ci si libera dei demeriti addossandoli agli altri a cui si depredano i meriti. In tal modo si arriva ad ottenere le cinque remunerazioni: conoscenza, ascesi, presenza divina all’attenzione, permanenza nell’attenzione ed infine liberazione sentita come liberazione dal dolore, dell’esistenza il Duḩkhānta, e realizzazione del ricongiungimento, la Siddhi. Poi per coloro i quali tutte queste procedure dovessero risultare inutile dispendio d’energia, c’è sempre l’espediente definitivo nel ricevimento della grazia divina indipendentemente dai meriti e dai demeriti, dal Karman positivo o negativo, il favore del dio concede la liberazione a prescindere a chiunque egli voglia, c’è sempre il modo per far andare in paradiso anche disonesti.

Nello svilupparsi dei Purāṇa Śivaiti si attinge a piene mani nella teologia dell’antica scuola dei Pāśupata, i seguaci del clavigero, attributo di Śiva; e a partire dal 600 fino alla fine del medio evo si affina materialmente e spiritualmente tutta la teologia, la cosmogonia e cosmologia a formare le basi del culto attuale. L’idea originaria proviene dal Brāhmaņo Uddyotakara Pāşupatācārya il quale concepisce l’Īśvara, successivamente individuato in Śiva, come Sat perenne, onnipresente e onnipotente, privo di meriti e demeriti, non dotato di corpo fisico, che periodicamente in virtù del Karman degli esseri degli universi precedenti ritiene necessario mettere di nuovo in moto il processo cosmogonico, dando il via a nuove combinazioni atomiche, affinché questi possano completare il loro ciclo di rinascite fino alla liberazione, come se qualcosa fosse rimasto in sospeso e si debba rimediare per correggere le non perfezioni dei mondi che furono, una sorta di controllore che computato il numero degli Ātman non ancora liberi dà loro un ulteriore possibilità; la necessità o il desiderio del Signore è dunque che tutti ritornino a Lui, nessuno escluso, non per grazia ma dando ancora al libero arbitrio la possibilità di condurli alla Mokşa con un infinito ciclo di tentativi. È l’uomo che deve condursi al Signore. Sviluppando queste teologie intorno all’anno 1000 il Maestro Udayana definisce le nove vie per dimostrare l’esistenza di Dio con concetti a volte materiali e altre di fede: essendo il mondo un prodotto, necessariamente deve avere un fattore; essendo il mondo composto da atomi, qualcosa deve aver instaurato il processo di combinazione, io lo chiamerei Big Bang; se il mondo non precipita nel nulla di cui è circondato, qualcuno lo deve per forza sorreggere; se l’umanità è capace di proferire parola, qualcuno deve avergli insegnato tale capacità; essendo i Veda pura verità, il loro autore deve essere impeccabile; i Veda devono avere un autore perenne perché ci sono da sempre; i Veda devono avere un autore perché contengono concetti coerenti; essendo il mondo costituito da atomi, deve esserci un entità che stabilisce le varie combinazioni non casuali ma in base ad un perfetto enumeratore; se un argomentazione asserisce l’esistenza di Īśvara, questa è corretta, se ne asserisce il contrario questa è contraddittoria perché se Īśvara non esiste, dati tutti i fattori precedenti, deve necessariamente esserci un’altra pari entità capace di tutto ciò, che si voglia o meno definirlo Īśvara, questi lo diviene per sua stessa essenza. Non fa una grinza! A conclusione della propria teoria Udayana chiede perdono e assoluzione, non per sé ma per tutti coloro che non credono in Śiva pur essendo continuamente beneficiari della sua grazia e coloro che lo aborriscono perché per odiarlo devono comunque conoscerlo, solo la benevolenza del dio li traverserà verso la liberazione.

Tra le tante scuole protośivaite alcune vanno a formare e successivamente ad attenersi ad una serie di testi definiti Āgama, ritenuti addirittura Śruti del dio Śiva, enunciata dai suoi cinque volti, ovviamente la stessa esposizione porta a concezioni Dvaita, Advaita e Dvaitādvaita, per non farsi mancare nulla ma in fondo perché mai ci deve essere un solo modo per entrare in contatto con Dio? Negli Āgama la visione universale aggiunge all’originale struttura di venticinque principi teologici, i Tattva, del Sāṃkhya una ulteriore serie di nove dei quali cinque sono considerati quelli puri, temporalmente situati nella protocosmogonia e addirittura la descrizione della creazione come metafora stessa della presa di conoscenza di Śiva come di quella umana. Da Anuttaraśiva, lo Śiva senza ulteriore, l’insormontabile, procede lo Śivatattva, l’essenza, unica e indivisa della coscienza divina, la Cit; Dio esiste, affermazione valida sia come presupposto cosmogonico, sia come autoconstatazione della divinità stessa che per il pio devoto. Proseguendo si raggiunge lo Śaktitattva, la conoscenza, io sono, si concepisce la potenzialità insita nel dio, nel mondo e nell’uomo. Si arriva allo Sadāśivatattva, la consistenza, momento in cui il dio assume forma materiale, gli atomi del mondo cominciano a combinarsi e l’uomo a trascendere il proprio corpo. Finalmente giunge lo Īśvaratattva, la manifestazione, Dio è presente, il mondo si forma, l’Ātman conosce il Bráhman. Si conclude con lo Vidyātattva, l’azione, l’io divino si proietta nella creazione, il mondo appare e l’Ātman e il Bráhman ritornano alla loro unicità per procedere nell’infinito ciclo. Nell’evolversi della teologia prima il re Bhojadeva di Dhārā nel 1050, poi Aghora Śivācārya nel 1150 e Meykaņţa Deva nel 1220 strutturano la forma del Śaivasiddhānta, le conclusioni su Śiva, in cui il dio diviene l’Ātman individuale unito e distinto quale dono verso il devoto il quale trascende l’errata identificazione nel corpo e nell’anima per lasciarsi riempire dal dio e identificarsi con egli e da oggetto d’amore del dio divenire amante del dio attraverso la più pura e devota Bhakti, rimuovere la propria identità terrena e giungere alla conoscenza che Dio è in lui e lui è indissolubilmente in Śiva, affermando addirittura che in una teoria assolutamente Dvaita, questo sia il vero e assoluto Advaita, il Demiurgo si unisce alla creatura creando la più pura essenza.

Le correnti continuano a separarsi e moltiplicarsi raggiungendo ogni più remoto angolo dell’India dal Kāśmir al Tamiļ e le teologie teorizzate coprono ogni possibilità creativa, tra queste spicca la scuola del Krama, la successione, in cui il procedere delle fasi di manifestazione e riassorbimento è assicurato dal procedere regolare della ruota delle dodici Kālī. La corrente prevede che gli insegnamenti più riservati, che potremmo universalizzare con Misteri, viene attuato attraverso le Yoginī, di scuola Tantrica, mediante un coito rituale capace di distendere la Kuņḑalinī fino al sistema nervoso centrale per raggiungere l’estasi della conoscenza. Il rapporto sessuale è regolato da precise fasi spirituali eseguibili solo dopo una profonda conoscenza delle pratiche Tantra. Nei preliminari gli stimoli sensoriali sviluppano uno stato di attenzione concentrata nell’azione ma distaccata dalla sua funzione mondana, il coito prosegue con fasi di azione e di quiescenza in cui gli amanti entrano in contatto con il proprio sé, tali fasi sono in questa parte discordi fra i due. Una lunga comune quiescenza favorisce la trasformazione del sé in essenza di Śiva e Śakti. Il movimento riprende con fasi a questo punto concordi di azione e quiescenza in cui il sé diviene attore. Azione e quiescenza vengono superati all’infinito grazie alla definitiva beatitudine resa possibile dalla completa distensione della Kuņḑalinī la quale oltrepassato il corpo fisico raggiunge il loto invisibile posto dodici dita sopra la testa, il luogo dove Śiva dimora; l’essenza, il sé, l’Ātman ha raggiunto e si è unito indissolubilmente con il Bráhman, l’estasi è completa l’orgasmo è cosmico e non fisico, l’eiaculazione non è prevista. Di tutto il Tantra, che è ben altra cosa, questa è l’unica pratica universalmente conosciuta tanto da credere comunemente che il Tantra sia solo e soltanto una modalità di controllo della durata del rapporto sessuale che troppi in occidente ritengono di poter attuare. In realtà anche solo questa pratica ritengo sia estremamente inattuabile qualora non ci sia una reale, mistica, profonda, non raggiungibile nel nostro mondo moderno, unione spirituale con un’entità, qualsiasi essa sia, devotamente bramata e colmata di Bhakti come solo un Hindù nato, cresciuto e indottrinato in un ambiente Hindù sarebbe capace di fare.

La corrente Induista del Tantrismo si sviluppa intorno al I secolo d.c. e gli viene assegnato il nome in base alla sua divulgazione attraverso libri, appunto in Hindù tantra. Il Tantra mira alla realizzazione personale presentandosi come mezzo materiale per ottenere il compimento perfetto della vita. Il superamento della misera condizione umana avviene attraverso le pratiche Yoga, l’alchimia, la magia e la costruzione di manufatti raffiguranti le divinità. La devozione della fede viene rivolta verso divinità femminili, in modo particolare Kāli, Durgā, Pārvatī, Lakşmī. Le dee infatti incarnano la Śakti, la potenza e l’energia di cui le divinità maschili non possono fare a meno per agire nel mondo e la cui loro propria è infatti significata e costituita delle dee, nel Tantrismo la Śakti rappresenta specificamente la potenza femminile di Śiva. A livello personale il Tantra volge ad esaltare l’energia divina che può attuare la trasformazione a condizione che quella individuale intima sia risvegliata e messa in atto. Questa potenzialità è rappresentata dalla Kuņḑalinī, l’attorcigliata, che nella visione Tantrica e raffigurata da un serpente acciambellato alla base della spina dorsale, alla quale attraverso un rito di iniziazione con azioni magiche e spirituali da parte di un Guru viene data la scossa che le dona la capacità di distendersi. Il Guru dona poi all’iniziato un Mantra le cui vibrazioni sonore permetteranno successivamente il risveglio della Śakti e l’adepto, sempre sotto il controllo del Guru, potrà intraprendere il percorso della realizzazione perfetta. Dopo numerosi esercizi spirituali accompagnati dal Mantra personale, si ritiene che la Kuņdalinī si sia distesa lungo la colonna vertebrale fino a raggiungere il cranio ove risiede la parte maschile della divinità. Si ottiene in questo modo la fusione dell’individuo con la divinità ottenendo la perfezione, la Siddhi. La fama del Tantra è arrivata velocemente a scandalizzare l’occidente in quanto fra i riti e le pratiche per il risveglio della Kuņdalinī ve ne sono molte dense di magia ma soprattutto di sesso e anche di sacrifici cruenti. L’utilizzo di questi mezzi è giustificato con il fine di raggiungere la rinuncia al dominio sugli altri e, proprio con l’esasperazione delle pratiche erotiche, di superare l’attrazione sessuale e il desiderio. Si può ben comprendere i turbamenti dell’occidente in quanto anche nella stessa India questa ramificazione estrema dell’Hindù è stata più volte osteggiata, nonostante l’abitudine Hindù sia quella di accogliere ogni nuova ideologia questa ha oltrepassato anche i limiti della benevolenza indiana. Forzatamente riformata dall’esterno, addolcita per essere reintegrata fra le branche dell’Hindù, si ripresenta ciclicamente fra la miriade di dottrine Induiste e ogni tanto se ne riaffaccia una che si rifà in qualche modo al più integrale, originario Tantrismo.

Il culto della dea porta alla redazione anche di Purāṇa Śākta ispirati e dedicati alla potenza femminile energia del mondo. Le prime tracce della Grande Dea si leggono nel Mārkaņḑeyapurāṇa risalente al 300 circa in un’aggiunta successiva del 500 in cui la dea viene rappresentata nella sua manifestazione guerriera di Durgā ma identificata un una lunga serie di attributi peculiari della potenza della Śakti: coscienza, comprensione, assopimento, pazienza, nascita, calma, amabilità, buona sorte ed errore; riconoscendo in quest’ultimo la capacità della potenza divina femminile di redimere anche gli aspetti negativi dell’agire umano. Intorno al 500 appare anche il Kālikāpurāṇa, i cui rimaneggiamenti continuano fino al 1000 approfondendo soprattutto l’aspetto dei riti Tantrici dedicati alla Śakti e presentandola nella sua forma più femminile di Kāmeśvari, la Signora dell’Amore. Nel Devībhāgavatapurāṇa del 1100 circa la dea diviene la similitudine dell’Īśvara dalle numerosissime forme, la dea è l’Īśvara e le sue forme diventano di pari capacità dei corrispettivi maschili, il testo enumera le diverse modalità di culto per ognuna di esse. Finalmente la Śakti assurge al giusto riconoscimento, la letteratura solitamente riservata ai Brāhmaņi e orientata prettamente verso l’universo maschile arriva a interessarsene solo tardi ma nel culto popolare la dea è destinataria di una devozione di gran lunga superiore a quella riservata alle grandi divinità rivelate dai Brāhmaņi. L’apparato dottrinale della Śakti è attentamente ripreso dal culto Śivaita e si differenzia fra le sue varie forme in base alle pratiche ascetiche ottenute attraverso lo Yoga che diviene parte integrante dei riti e della preghiera dedicate alle varie manifestazioni di Umā, la Śakti di Śiva. Le principali correnti si suddividono in due vie; la condotta di destra, quella dei Dakşiņācārin, dove le viene riconosciuto l’attributo di Tripurā, colei che è prima ancora della Trimūrti, assegnandole la funzione essenziale di aver concepito il mondo, rappresentando il momento in una struttura grafica di 43 triangoli che si intersecano racchiudendo al centro il Bindu, il divino sperma di vibrazioni le cui onde si manifestano in suoni e luci, da qui gli universi si propagano e si riassorbono nella loro ciclicità e la condotta di sinistra, quella dei Vāmācārin, volta verso atteggiamenti molto trasgressivi rispetto a gran parte del culto Hindù nella quale oltre a pratiche includenti il coito è presente l’assunzione rituale di carne, pesce e alcoolici. In questa corrente si distingue per fama quella dei Kaula, dal nome della famiglia che ha dato origine al culto, devoti alla dea Kālī la più terrificante manifestazione della Śakti, sfociata nella famigerata setta dei Thug dediti a riti magici, assassinii e sacrifici umani, facendolo diventare agli occhi occidentali soltanto un culto demoniaco. La corrente dei Kulālikāmnaya, che fa riferimento all’arte dei vasai, ceto di provenienza del culto, la definisce Kubjikā, la curva, facendo riferimento alla posizione adottata da Umā dopo che Śiva le chiede di iniziarlo, questo culto risalente al 1100 è colmo del simbolismo sessuale tipico delle pratiche Tantra. Kālī invece è potenza e energia e risiede in ogni uomo, messo quotidianamente alla prova dagli istinti primordiali rappresentati dalla dea, solo la sua capacità di superarli può portare i benefici sperati, solo il superamento delle tentazioni può avviare alla via per la liberazione. Il culto di Kālī va oltre la scellerata idolatria e moltiplica testi e preghiere in numero superiore alle altre divinità, fino a identificare le dieci forme della Śakti nella Grande Gnosi ed eleggere Kālī a massima conoscenza, se conosci le tue paure, i tuoi limiti, i tuoi errori conosci la via per superarli e giungere alla liberazione finale scevro da ogni terreno desiderio che questi possono ispirare. Il culto della Śakti identificato in Kālī è così radicato che ancora la sua terrificante divinità è destinataria della più fervente Bhakti, vista come dea della morte alla fine identifica in pieno la vera via per la liberazione e le preghiere a lei rivolte altro non cercano se non ottenere la prima per raggiungere la seconda. La completa devozione in questo tipo di culto si evince chiaramente in un cantico dedicatole nel 1750 dal poeta Rāmprasād nel quale l’abbandono alla potenza della divinità è assoluto, “Kālī! Tu ami i campi di cremazione, e io ho fatto un campo di cremazione nel mio cuore, affinché tu infestatrice dei luoghi funebri, possa danzarvi per sempre. Madre, non ci sono più desideri nel mio cuore, solo vi arde la fiamma dei roghi! Madre, ho tenuto le ceneri dappertutto, per invitarti: vieni, Madre, con Śiva vincitore della morte sotto i piedi, vieni a danzare al ritmo del tamburo! Prasāda attende ad occhi chiusi.” Solo la più profonda fede può far giungere ad invocare una tale preghiera, la certezza ascetica di aver raggiunto la conoscenza, la verità e il completo superamento dei desideri terreni e celesti, l’accettazione e la sottomissione alla divinità ultima che permetta infine il meritato passaggio alla Mokşa, il definitivo arrestarsi del ciclo delle rinascite e il riassorbimento con il Bráhman, l’unione unica e definitiva con il tutto, la meraviglia della vita rivelata con la morte che è vita universale ed eterna. 

SATYA SAI BABA
DALL’HINDU’ ALL’UNIVERSO

Per secoli l’Hindù continua ad evolversi su sé stesso sufficientemente scevro da influenze esterne, nonostante le leggende che vedono il martirio dell’Apostolo Tommaso a Madras nel 68, in un luogo che ancora oggi ne ricorda l’evento e l’effettivo manifestarsi di colonie Cristiane nel 500 oltre all’arrivo dei Pharsi Mazdeisti nel 1000 e alla dominazione Islamica nel 1200. La completa chiusura della cultura Hindù riesce a maturare da sola il proprio destino almeno fino al 1600 con l’arrivo dei monaci Gesuiti Roberto de Nobili e Giuseppe Costantino Beschi i quali riescono a lasciarsi compenetrare dal messaggio dell’ideale del Saṃnyāsa e nel contempo gettare le basi per un primo vero dialogo fra le due religioni vissute in maniera paritaria. È però solo con l’arrivo delle potenze coloniali che si crea la prima forzata frattura nel credo Hindù. A parte Portoghesi e Olandesi che vivono l’incontro solo a carattere commerciale, sono gli Inglesi, veri e propri nuovi dominatori, a diffondere le ideologie Cristiane ponendole come fonte di una religione superiore e strumento di emancipazione dalle aberranti ingiustizie Hindù. Più che la forza della convinzione può invece la modernità portata dagli invasori, fautrice di nuove possibilità e opportunità che produce necessariamente un cambiamento nella società civile Indiana. È nel 1800, quando la dominazione Inglese raggiunge quasi ogni luogo del subcontinente, che infine nascono le prime concrete variabili eterodosse oltre, di conseguenza, anche quelle più conservatrici. Nonostante il dominio Inglese il primo movimento che porta alla rivisitazione Induista in chiave interreligiosa è però la Brāhma Sabhā, la società del Brāhma, fondato da Rāmmohan Rāy nel 1828 particolarmente stimolato dalla lettura del Corano; già nel 1815 fonda l’Ātmīya Sabhā, l’assemblea spirituale, attraverso la quale diffonde il rifiuto dell’idolatria e del culto delle immagini per tornare al puro monoteismo di stile Vedāntico, approfondisce anche la sua conoscenza del cristianesimo e appunto nel 1828 lancia la sua nuova idea di Hindù volto alla spiritualità e sfrondato di tutte le inutili formalità, contrario alla superiorità del cristianesimo ma allo stesso tempo in opposizione al concetto di unicità nella conoscenza della verità ostentata dalla casta Brāhmanica. Alla morte di Rāmmohan Rāy gli succede alla guida del movimento Debendranāth Ţhākur nel 1843 il quale ne muta il nome in Brāhma Samāj e poi in Calcutta Brāhma Samāj. Dopo un periodo di teologia monoteistica sullo stile Cristiano si riaffaccia lentamente la necessità di un’identità Hindù che riporta inevitabilmente l’associazione verso le tradizioni Induiste. L’ingresso nel movimento di Keśab Candra Sen ne provoca con il tempo la scissione in due ramificazioni, una fedele alle ideologie conservatrici di Debendranāth Ţhākur dando vita al nuovo movimento di tradizione Hindù dal nome di Ādi Brāhma Samāj, e una progressista Cattolica animata appunto da Keśab Candra Sen il quale fonda la Brāhma Samāj of India. Da questo momento, in puro stile Indiano, cominciano a moltiplicarsi i movimenti riformatori pronti all’apertura interreligiosa per poi ritornare sotto l’ala protettrice dei Veda e da lì riaprirsi ancora. La Mānav Dharma Sabhā, nel 1844, alla ricerca di ciò che sia vero in ogni religione, la Paramahaṃsa Sabhā nel 1849 la quale si pone come obiettivo di dare un’etica umana alla religione fornendola di una sorta di comandamenti che vanno da “Dio soltanto deve essere adorato” e “La religione deve basarsi sull’amore” fino a “L’umanità è una sola casta” e “Il giusto tipo di conoscenza deve essere impartito a tutti”. Nel 1867 sulle ceneri dei precedenti movimenti nasce la Prārthanā Samāj che con più forza manifesta quelli che al di là delle ideologie religiose sono i veri fini delle associazioni finora nate che più o meno palesemente hanno tutte cercato di sradicare le principali, croniche, incongruenti e anacronistiche radici Hindù, il superamento della suddivisione in Vaŗna, il riconoscimento sociale della classe degli intoccabili e delle donne, l’istruzione scolastica femminile, la possibilità di un nuovo matrimonio per le vedove e l’abolizione di quelli delle fanciulle oltre che l’abbandono dell’orribile pratica della Satī. Nascono ancora nuovi movimenti come l’Ārya Samāj, nel 1875 volta alla ricerca delle radici Vedāntiche sfrondate dalle mitologie dei Purāņa e poi, emanando dieci principi di chiara influenza Cristiana ma di puro contenuto Vedāntico, nel 1886 la Dev Samāj, in aperto contrasto con l’Ārya Samāj riportando gli intenti sull’uguaglianza di tutti gli uomini in stile Cristiano, per poi però trasformare il suo fondatore Satyānanda Agnihotrī in un Gurū e divinizzarlo. Nel 1875 l’ucraina Helena Petrovna Blavatsky e l’inglese Henry Steel Scott fondano a New York la Società Teosofica con l’intento di promuovere attraverso l’Hindù la fratellanza umana universale, lo studio comparato delle religioni delle filosofie e delle scienze antiche intese come diverse espressioni di un'unica verità e analizzare le leggi della natura per sviluppare nell’uomo le latenti potenzialità divine. Nel 1879 portano le loro idee in India con un discreto successo dovuto in parte alla considerazione paritaria di tutte le religioni. Con l’uscita di scena di Helena Petrovna Blavatsky e la morte di Henry Steel Scott nel 1888, prende le redini dell’associazione l’irlandese Annie Besant. Coinvolta politicamente, aderisce all’Indian National Congress nel 1914 dopo aver portato avanti numerose campagne di emancipazione sociale e contribuisce in maniera sostanziosa a quelle di non cooperazione di Mohandās Karamchand Gāndhī sviluppando e arricchendo di iscritti il movimento. Negli anni che seguono crolla però tutta l’ideologia teosofica quando si caldeggia la divinità di Jiḑḑu Kŗşņamūrti proclamato Maestro Universale e incarnazione di Buddha e Cristo. Jiḑḑu Kŗşņamūrti, dapprima compiacente, nel 1929 si allontana dall’associazione e rinuncia alla carica divina per continuare la vita ascetica in semplice solitudine, il suo abbandono provoca un’emorragia nella prestigiosa associazione relegandola tra le tante ancora operanti in India.

Di maggior rilievo è invece la Rāmakŗşņa Mission, un’associazione fondata nel 1897 da Narendranāth Datta il quale assume il nome Svāmī Vivekānanda, sulle orme tracciate dal suo Maestro Rāmakŗşņa Paramahaṃsa al secolo Gadādhar Chatreji. L’associazione promuove i valori della cultura Brāhmanica inserendo alcune peculiarità del messaggio Cristiano, grande devoto della Madre Divina Rāmakŗşņa è prima sacerdote in un tempio Śivaita per poi passare alla fede Śakti e rimanere affascinato dalla mistica Sūfī Islamica e dal Cristianesimo. Si convince in questo modo che in fondo tutte le forme di spiritualità si equivalgono pur tendendo in modi diversi ad un’unica realtà assoluta. All’età di 35 anni si unisce finalmente con la moglie, sposata per volontà della famiglia a 23 anni, e la sua intensa devozione alla Madre Divina lo spinge a vedere in lei l’immagine della dea e vivere il matrimonio come un irripetibile esperienza spirituale a completamento della sua pratica ascetica. Come per i Veda originari diffonde la sua verità solo per via orale dimostrando una coinvolgente abilità oratoria e ricorrendo sovente anche a parabole. Muore nel 1886 ma la sublimità delle sue filosofie basate sulla Bhakti Induista e sulla carità Cristiana continua a diffondersi fino alla necessaria istituzione dell’associazione che ancora oggi opera in proprio e in complemento con le associazioni Cristiane. Influenzati dalla tipica e mi viene da dire innocente, caratteristica Hindù i fedeli vedono in Rāmakŗşņa un Avatāra di Vişņu venuto al mondo a diffondere la verità spirituale dopo Rāma, Kŗşņa, Buddha e Cristo e questa commistione religiosa porta i devoti a manifestare la loro Bhakti attraverso preghiere appartenenti a liturgie di confessioni diverse. L’attività della Rāmakŗşņa Mission continua ancora oggi con numerose missioni sparse per il mondo prodighe di opere caritatevoli e benefiche al pari di quelle Cristiane.

Sulla scia delle associazioni religiose spirituali vedono la luce anche molte nuove confessioni prettamente Induiste anche se sempre con influenze filocristiane, che spesso si risolvono in quelle che sono comunemente chiamate in occidente con l’appellativo di Sette, caratterizzate dalla divinizzazione del Maestro e spesso, ma non sempre, con un malcelato fine di lucro. Fra le più spirituali quella del culto dello Yoga integrale propugnata nella prima metà del 1900 da Aurobindo Ghosh, conosciuto come Śrī Aurobindo, attraverso la quale non mirare all’annullamento di fronte alla magnificenza divina ma volgere alla perfezione per divenire parte integrante dell’Essere Universale. Non manca di ottenere la stessa devozione il contemporaneo Ramaņa Maharşi il quale nell’assoluto silenzio del suo eremitaggio diviene esempio per stuoli di fedeli. Negli stessi anni si sviluppa e si espande per tutto il subcontinente la spiritualità assoluta di Mohandās Karamchand Gāndhī fino ad attribuirgli l’appellativo di Mahātmā, Grande Spirito, il quale conduce un’estrema campagna politica non solo indiana ma addirittura universale, di uguaglianza e di azione e reazione non violenta, che ha però basi profondissime nella sua fede Hindù e nella sua assoluta devozione alla Bhagavad-gītā, attraverso cui interpretare e diffondere il vero Amore.

Di ben altra fatta la diffusissima associazione, con oltre dieci milioni di adepti, fondata da Sai Baba e volta all’adorazione dell’unico Dio nelle forme e con i mezzi di ciascuna religione e diffusa in tutto il mondo dal discepolo Sathya Sai Baba al quale è attribuito alla sua morte nel 2011 a 85 anni, un patrimonio personale di svariati miliardi di dollari in liquidi oltre a numerose proprietà, accuse di frode fiscale, truffa, pedofilia e associazione mafiosa nonostante la concreta e spirituale fondatezza delle ideologie diffuse, delle innumerevoli opere di beneficenza a favore delle classi meno agiate, delle scuole e degli ospedali costruiti e degli aiuti alle popolazioni disagiate dell’India. Sathya Sai Baba soleva dire che le sue ricchezze altro non erano se non la manifestazione delle ricompense ricevute, non il frutto delle truffe perpetuate ai danni degli sciocchi, demotivati e demoralizzati ricchi occidentali e i suoi miracoli, tacciati alla stregua di numeri di prestidigitazione, il modo per avvicinare la gente alla vera spiritualità, non manipolazione di menti fragili. Un vero peccato, una grande potenzialità macchiata da modalità operative troppo lontane dal Dharma dei Veda.

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Ciò che rimane oggi di tutto questo, è tutto questo. Dopo la divisione del subcontinente indiano in tre parti nel 1947, a nord ovest il Pakistan e a est il Bangla Desh, entrambi musulmani con al centro l’India Hindù e la dichiarazione di indipendenza del 1950 l’Hindù si è rinchiuso nelle tradizioni rurali e nei monasteri dove i Brāhmaņi sono ancora considerati divinità in terra. Sopravvivono i vari Samāj sia all’interno che sparsi per il mondo in una visione dell’Hindù ancora ascetica mentre in patria dopo l’indipendenza e in barba ai buoni propositi del Mahātmā Gāndhī raggiunta la parità di diritti politica di tutti gli Hindù, intoccabili o meno, femmine o meno, il modernismo in puro stile occidentale ha creato una nuova suddivisione in caste sempre esistita in India ma mai finora subita come negativa, la suddivisione fra poveri e ricchi, fra informatici e rurali, spaccando completamente il rapporto tradizionale con la religione. Sopravvivono i pochi Saṃskāra ancora celebrati, la nascita il matrimonio e i riti funebri oltre all’iniziazione per il solo ambiente Brāhmanico. Si accresce il popolo dei Gurū e degli Yogin delle più svariate scuole di pensiero, i quali attraverso l’ascesi ancora oggi trovano il puro amore per Dio dopo aver liberato da ogni finalità materiale la propria esistenza, i Sādhu che continuano a divulgare per il paese le verità dei Veda, riconoscibili dalle loro vesti, ocra per i Śaiva e bianco per i Vaişņava e la nudità per i più estremisti riconoscibili solo dal Tripuņḑra Śaiva e dal Ūrdhvapuņḑra Vaişņava. Resiste la pratica religiosa nelle zone rurali dove ancora gli anziani si ritirano nella solitudine del Vānaprastha e i templi sono visitati quotidianamente e i Vaŗna hanno ancora il loro significato. Nelle città industrializzate, cosmopolite e informatizzate invece conta solo la posizione sociale raggiunta e l’espulsione dalla casta non ha ormai più alcun significato anche se rimane forte l’attaccamento alle tradizioni religiose ancorché raramente praticate. La pratica religiosa si concentra nei pellegrinaggi effettuati solitamente per la richiesta di una grazia o per il ringraziamento seguente ad una ricevuta, questo impone spesso grandi viaggi, ancor oggi eseguiti senza mezzi di trasporto, in quanto il tempio da visitare non è quello più vicino ma quello dedicato alla divinità prediletta nella funzione specifica della grazia in questione. Nelle zone rurali ancora i templi giovano delle quotidiane visite dei fedeli a fine giornata ma spesso il culto si riduce alla sola Pūjā come atto di autosuggestione che porta alla rimozione del diaframma fra l’uomo e Dio e al riconoscimento di Dio in noi e in tutti noi e in tutto ciò che ci circonda, concedendo di poter immergersi completamente in Dio. Rimane la Dāna come atto di carità a volte eseguito anche oltre le possibilità economiche, soprattutto durante i pellegrinaggi ai templi, rimane la Gańgā che scorre in cielo in terra e in ogni luogo e per questo presente in ogni stilla d’acqua utile per tutti i tipi di purificazione e Abhişeka. La Vacca Sacra che ancora viene accudita e venerata in quanto considerati atti che comportano la beatitudine in divenire. Rimane l’avversione per l’Islam che negli anni successivi all’indipendenza ha portato un crescente nazionalismo e una discriminazione razziale capace di moti insurrezionali, di predicare la conversione forzata o la deportazione in Pakistan di tutti gli Islamici.

Alla fine, l’Hindù nella quotidianità urbana resta quasi unicamente una questione di ortoprassi, di mero comportamento morale sulla base di ciò che è sopravvissuto del Dharma. Inutile e non essenziale finché l’India ha goduto dei robusti confini di montagne invalicabili e oceani sconfinati il Dogma e la gerarchia clericale sono diventati oggi il fulcro mancante per una vera e propria religione capace di autoalimentarsi, sostenersi e divulgarsi con almeno una relativa uniformità, mentre invece l’Hindù continua ad espandersi esponenzialmente allontanandosi sempre più dalle Verità dei Rishis percorrendo strade che troppo spesso portano all’identificazione terrena in Dio senza aver prima realmente conosciuto l’uomo. Intanto da qualche parte in India un Brāhmaņo attende ai suoi compiti rituali e un Sādhu, o un Gurū o uno Yogin si annulla esaltandosi, compiendo l’ultimo passo verso la verità, la conoscenza e Dio. 

MOHANDAS KARAMCHAND GANDHI
SMUOVE IL POPOLO HINDU’ MA E’ DI RELIGIONE JAINA

GLOSSARIO

Advaita: non dualismo, il Bráhman e l’Ātman sono un’unica essenza destinata a riunirsi.

Ahimsā: l’astensione dalla violenza.

Artha: il potere giustamente esercitato.

Āśrama: i vari stadi della vita Hindù.

Ātman: l’io umano, l’anima.

Avatāra: manifestazione materiale divina, i più famosi sono Kŗşņa e Rāma. Matsya, il pesce, ammonisce l’umanità al tempo del diluvio; Kūrma, la tartaruga, salva i tesori dal diluvio; Varāha, il cinghiale, solleva la terra dal diluvio; Narasimha, l’uomo leone, sconfigge i demoni; Vāmana, il nano, anche lui sconfigge i demoni; Paruśarāma, Rāma con l’ascia, sconfigge gli Ksatriya che minacciano il mondo; Rāma-Chandra, la virtù personificata, combatte il male; Kŗşņa, Avatāra/dio, il più popolare, la vera devozione; Buddha, l’illuminato, nella persona del Gautama Buddha; Kalki, il salvatore, giunge al termine del Kalyuga per ripristinare il Dharma.

Bhakti: fede, devozione assoluta.

Brahmacārin: lo studente religioso.

Bráhman: l’essenza primaria originaria, il tutto, la realtà assoluta antecedente ad ogni altra entità; l’origine, la causa e il fine di ogni esistenza.

Brāhmaņo: sacerdote, appartenente alla classe sacerdotale, che ha studiato e vissuto per divenirlo.

Dāna: l’elemosina.

Devayāna: via che porta agli déi, comportamento retto che porta al Nirvana, fine del Samsāra, fine delle rinascite.

Dharma: la regola di vita, la salvezza, l’equilibrio universale, il dovere del fedele.

Dharmaśāstra: appendici postscismatiche attualizzate e contestualizzate col nuovo periodo storico.

Dharmasūtra: le appendici canoniche dei Veda.

Dvaita: dualismo, il Bráhman e l’Ātman non sono un’unica essenza; sono due in uno; sono due parti della divinità, uno è il Demiurgo creatore del mondo imperfetto l’altro il salvatore dell’umanità, la loro riunione in unica essenza porterà alla fine di questo mondo e alla rinascita.

Dvaitādvaita: dualismo non dualismo.

Gārhasthya: lo sposato.

Guru: sacerdote domestico ossia al servizio pubblico grazie al riconoscimento popolare della sua importanza.

Işţa-devatā: divinità d’elezione, il proprio dio principale personale per ogni Hindù.

Itīhāsa: “così dunque fu” testi relativamente moderni che ricalcano i Veda.

Karman: l’agire, le azioni che a seconda che si attengano o meno al Dharma influenzano il destino dell’uomo portandolo al Pitŗyana o al Devayāna.

Mauna: stato di tranche.

Mímāmsā: esegesi, analisi critica di un testo.

Mokşa: liberazione dal ciclo delle rinascite.

Muni: asceta

Pasupata: i seguaci di Śiva il clavigero.

Pitŗyana: via che porta ai padri, comportamento retto che porta al Paradiso in attesa di una nuova rinascita.

Prakŗti: la sostanza, il materiale, il pragmatico.

Purāņa: la rielaborazione allegorica dei testi antichi, i Veda, indirizzati all'educazione religiosa dei non Dvija, i Śudra e le donne, ai quali non era permesso lo studio e l’ascolto dei Veda. Gli antichi racconti elaborati o adattati nel corso dell’epoca classica fra il IV e il XII secolo. Fulcro dei testi è la creazione del mondo, il suo annientamento ciclico e la ricreazione in una nuova era cosmica.

Puruşa: anima del mondo, il senso spirituale, il primo uomo dalle cui membra nascono i Vaŗna.

Puruşārtha: i fini dell’uomo, gli obbiettivi perseguiti con le nostre azioni, il potere stesso di perseguirle rettamente.

Sādhu: i buoni.

Samnyāsa: la rinuncia in attesa della morte.

Samnyāsin: il rinunciante, l’eremita, lo stilita, colui che si isola del mondo per dedicarsi definitivamente alla ricerca di sé per trovarvi l’Atman e raggiungere la Mokşa.

Sampradāya: confessione, ramo evolutivo della fede originale. Comunemente tradotto in occidente con il termine dispregiativo di setta.

Samsāra: il ciclo di morti e rinascite, il lento e ciclico fluire e rifluire attraverso numerose vite.

Satya: la veracità.

Śmŗti: la memoria, l’insieme dei testi e delle tradizioni che non appartengono alla Śruti ma che a questa comunque si attengono. Tutte le elaborazioni teologiche che non sono di origine divina ma che sono state affidate alla memoria perché ritenute degne di essere ricordate.

Śramaņa: asceti laici ma anche indovini, maghi e falsi Guru.

Śruti: l’ascolto, l’ascoltato e l’ascoltare. L’ascolto della parola, la parola ascoltata e l’ascoltare la parola. Questa parola è il Veda, dunque le scritture nella totalità della sua originaria origine verbale tramandata dai Rishis che hanno compartecipato in prima persona alla rivelazione fatta direttamente da Dio. L’espressione sonora del Dharma, il Verbo.

Tapas: il calore, l’energia.

Upadeśa: l’insegnamento salvifico.

Upanişad: speculazione sui Veda, letteralmente raffigura l‘atto dell’insegnamento, sedere in basso vicino al maestro.

Vairāgin: coloro che praticano il distacco.

Vānaprastha: l’anziano esiliatosi.

Vaŗna: colore, la suddivisione in caste della società Hindù. All’apice i Brāhmaņi, i sacerdoti, il Sacro della tripartizione dell’orientalista Dumezil; seguono gli Kşatriya, l’esercito e la forza politica, il Militare; infine, i Vaiśya, i commercianti e gli artigiani, l’Economico. Si aggiungono poi i Sūdra, i servi e i fuori casta, gli intoccabili eredi degli indigeni Indiani conquistati e assoggettati.

Yoga: insieme delle modalità atte all’introspezione, alla ricerca di sé. Dalla radice Yuj, mettere al giogo. Il metodo per mettere al giogo, tutti i desideri e le mondanità per raggiungere la Mokşa.

Yuga: generazioni degli déi in senso temporale, mille Yuga dura la notte di Brahmā, il suo periodo di latenza, mille Yuga dura il giorno di Brahmā il periodo di attività ricreativa dell’universo. Ogni Yuga è suddiviso in quattro sub-Yuga di 4.000, 3.000, 2.000 e 1.000 anni divini, oltre mille anni divini prima e dopo per un totale di 12.000 anni divini composti ciascuno da 360 giorni divini della durata di un anno umano ciascuno, il che porta il computo a 4.320.000 anni umani per uno Yuga e a 4.320.000.000 la durata del giorno e della notte di Brahmā. Più o meno l’età attuale della terra il che avvalora il posizionamento dell’epoca attuale in quella prossima alla fine del giorno di Brahmā, la fine del mondo.



AMBIKĀ: moglie di Śiva. Dalla sua fronte scaturisce una manifestazione di Durgā che annienta tutti i demoni capeggiati da Sumbha e Nisumbha.

BALARĀMA: Rāma il vigoroso, fratello maggiore di Kŗşņa. Figli di Vişņu nati il primo da un capello bianco e per questo chiaro di pelle e il secondo da un capello nero e per questo di carnagione scura.

BHAGAVĀN: dio supremo per il culto Bhāgavata, identificato in Vişņu e nella sua incarnazione in Kŗşņa .

BHAIRAVA: guardiano celeste ipostasi della fronte di Śiva, suo Vāhana è un cane. Otto braccia, canini sporgenti, serpenti e teschi come ornamenti.

BHŪMI: dea della terra, sposa di Vişņu insieme a Lakshmī.

BHŪTAS: demoni capaci di assumere qualsiasi forma, portano sventure e malattie solo le offerte placano le loro ire. Al comando di questa schiera demoniaca vi è Kalkuti ma il vero signore dei demoni è Śiva in una delle sue manifestazioni più atroci.

BRAHMĀ: personificazione del Bráhman, in origine il capo della Trimurti in quanto creatore e dio supremo degli dèi. Con quattro volti e quattro braccia con cui tiene i quattro Veda. Tiene un recipiente con l’acqua del sacro fiume Gange e un Akshamālā, sua vāhana è un’oca. La sua sposa è Sarasvatī. Con il tempo perde d’importanza divenendo dio della saggezza e precursore dei Brāhmaņi.

BRÁHMAN: il verbo, la parola magica, la formula sacra da recitare, il veicolo attraverso il quale i Brāhmaņi compiono i loro riti e gli dèi recepiscono le preghiere. La forza della parola. “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.” Giovanni (1, 1-3). Con le Upanişad diviene il principio reggente anzi lo stesso creatore, l’essenza dell’universo, la causalità dell’esistenza, la realtà ineluttabile, l’entità superiore trascendente e immanente, l’assoluto, il tutto e il niente, creatore e creato, Dio in quanto onnicomprendente. La sostanza di cui sono infuse tutte le cose, anche l’uomo in cui prende il nome di Ātman, la cui ricerca è il fine dell’esistenza stessa mediante la comprensione dell’identità di Bráhman e Ātman, di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio.

DATTĀTREYA: divinità in cui si fondono peculiarità specifiche della Trimurti, Vişņu nella sua emanazione che toglie i peccati, Śiva in quella distruttrice del tempo, Brahmā come padre degli déi. Asceta con tre teste e sei braccia degli déi che incarna recanti i loro attributi.

DÉVADĀSĪ: serve del dio. Dagli occidentali conquistatori viste solo come prostitute sacre. Artiste, cantanti, ballerine, intrattenitrici al servizio del dio al cui tempio sono affiliate in una sorta di casta matriarcale che tramanda di madre in figlia la funzione ma anche ai figli affidando a loro le servitù più pesanti. La loro appartenenza al tempio e la loro devozione al dio le porta a concedersi nella completezza agli ordini del dio o meglio di colui che porta la parola del dio, il Brāhmaņo il cui potere aumenta con le concessioni prestate ai facoltosi sostenitori del tempio. Poteva quindi capitare, anche se questa non era la regola, che tra gli intrattenimenti concessi nel tempio o al domicilio del donatore, il quale doveva arrivare a sentirsi completamente soddisfatto in ogni suo senso, ci fossero anche quelli sessuali, prestati però sia dalle donne che dagli uomini.

DEVĪ: appellativo della sposa di Śiva, ma anche in generale di tutte le dee personificazioni di eventi naturali o ipostasi di altri dèi. La sua manifestazione benevola veste da sposa, quella mortale si adorna di serpenti e teschi. Nelle credenze popolari diviene la madre del mondo identificata nelle varie dee locali. Nella sua manifestazione di Ambikā tiene in braccio un bambino.

GANESHA: dio della scrittura e della saggezza, colui che supera tutti gli ostacoli. Figlio di Pārvāti e di Śiva e al comando del suo seguito. Ha forma di elefante con una sola zanna e il ventre prominente, suo Vāhana un topo. Reca fra gli altri l’Akshamālā, la zanna spezzata e un cappio con cui lega gli inganni. Invocato per superare ogni tipo di prova ritenuta estremamente ardua.

GARUDA: Vāhana di Vişņu, principe degli uccelli, acerrimo nemico dei serpenti, aquila dal corpo dorato simboleggia il sole.

HANUMAN: scimmia divinizzata, Indra lo colpisce frantumandogli la mascella perché tenta di cogliere il sole credendolo commestibile. Ministro delle scimmie Sugriva e alleato di Rāma per sconfiggere l’isola di Lankā la cui dea sopraffatta è raffigurata sotto il piede sinistro.

HARIHARA: divinità doppia incarna gli attributi di Vişņu e Śiva. Hari-Vişņu reca nella sinistra la ruota simbolo dell’eterno ciclo vitale, Hara-Śiva ha nella destra il tridente.

HARIHARIHARIVĀHANODBHAVA: divinità composita recante gli attributi dei suoi componenti volti a donare salute e saggezza. Il dio siede sulle spalle di Vişņu posto sul suo vāhana Garuda il quale a sua volta sovrasta un leone. Il nome non è altro che la descrizione della figura: Hari sta su Hari-Vişņu che sta sul suo vāhana il quale sta sul leone Hari.

IŚVARA: appellativo del supremo signore dell’universo, solitamente rivolto a Śiva. La fede verso di lui come proprio dio supremo porta alla liberazione dal ciclo delle rinascite. In alcuni culti paralleli indica il dio supremo.

JAGANNĀTHA: Vişņu incarnato in Kŗşņa , durante la festa del carro a lui dedicata viene portata in processione la sua immagine, grande testa occhi sporgenti, moncherini al posto delle braccia e priva degli arti inferiori, durante la cerimonia sono abolite le differenze di casta.

KABANDHA: demone supremo, Indra lo riduce ad un enorme tronco con l’avida bocca nel mezzo, spingendogli dentro il corpo la testa e gli arti.

KĀLĪ: grande madre, manifestazione minacciosa di Durgā, rappresentata mentre col piede sinistro calpesta il suo sposo Śiva. Pelle nera, capelli infuocati, lingua sporgente e una collana di teschi ne rappresentano l’aspetto terrificante insieme alle molteplici braccia che brandiscono armi tranne due in contrastante posa pacificatrice. Il culto degli assassini Thug le ha offerto sacrifici umani fino ai primi del 1900. Come Kālarātrī simboleggia l’energia che avvolge il tutto nella creazione e nella distruzione del mondo; in lei è vista la manifestazione visibile che porta all’invisibile, assoluto Bráhman.

KALKI: l’lutimo Avatāra di Vişņu, il decimo. Verrà a dare inizio alla fine del mondo quando la nostra società avrà raggiunto il più infimo dei livelli.

KAUMĀRĪ: dea femminile dell’emanazione di Skanda, Kumāra nella forma benevola, quella maligna impersona l’accecamento.

KŖŞŅA: lo scuro. Eroe divinizzato, ottavo Avatāra di Vişņu. Figlio di Vasudeva e di Devaki. Incarnazione di Aditi, madre degli déi fratello di Balarāma. Suoi appellativi sono Govinda, vaccaro, e Gopāla, protettore delle vacche. I Purānas raccontano le sue gesta fin da bambino e proprio queste sono le più raffigurate soprattutto Kŗşņa che suona il flauto, simbolo dell’uomo in cui è stato soffiato l’alito divino per suonare in armonia con la divinità. Kŗşņa muore colpito incidentalmente da una freccia, nell’unica parte vulnerabile del suo corpo, il tallone. Memoria Indoeuropea che si ripresenterà in Grecia con l’eroe divinizzato Achille.

KSHETRAPALA: manifestazione di Śiva adorata dai ceti inferiori, protegge i campi e i luoghi sacri, lo accompagna un cane.

MAHĀLAKSHMI: divinità suprema femminile dei culti Tantrici, incarna la grande dea madre.

MĀNASA: dea dei serpenti ma anche della fertilità. Protegge dai morsi dei serpenti.

NĀRĀYANA: essere supremo, un po’ Brahmā un po’ Vişņu mentre naviga su una foglia di banano succhiandosi l’alluce, simbolismo dell’eternità, dà origine all’universo con la sua energia creatrice. Non ha attributi perché le sue qualità in divenire non sono ancora visibili.

PARASHU-RĀMA: sesta incarnazione di Vişņu. Rāma con la scure, pone fine alla tirannide della casta guerriera Kshatriyas per dare il potere a quella sacerdotale dei Brāhmaņi.

PRETA: spiriti dannati dei morti dall’orribile aspetto, vivono nello Yamaloka il regno di Yama, simboleggiano l’ignoranza del Ka.

RĀDHĀ: pastorella sposa di Kŗşņa, il loro legame rappresenta il rapporto di Dio con ogni singola Anima. Adorata come dea in alcuni culti Vişņuiti.

RĀHU: demone dell’eclissi. Su di un carro trainato da otto cavalli neri rincorre, con le fauci spalancate, sole e luna, quando riesce ad ingoiarne uno avviene l’eclissi.

RĀMA: lo scuro, settima incarnazione del dio Vişņu. Sconfigge il re dei demoni Rakshas per liberare la compagna Sitā. Il culto di Rāma si rivolge a lui come dio supremo venuto per salvare il mondo dalla miseria e dal peccato. Dio personale a cui il fedele si rivolge intimamente.

RĀVANA: principe dei demoni Rakşas con dieci teste e venti braccia. Grazie all’ascesi Brahmā gli concede l’immortalità, per annullare questo privilegio Vişņu si incarna in Rāma.

SATĪ: figlia di Daksha e moglie di Śiva. Il conflitto fra i due la distrugge fino a portarla a cercare la morte. Vişņu ne fa a pezzi il cadavere e lei si reincarna in Pārvatī. Satī è l’appellativo delle vedove che si lasciano ardere sulla pira del marito, in quanto anch’ella ottiene la morte grazie al fuoco.

SĀVITAR: dio dello spazio celeste, incita uomini e animali alle attività. Divinità solare, viaggia su un carro dorato e con le sue braccia d’oro che arrivano fino ai confini del cielo dona l’immortalità agli déi e ricchezze agli uomini.

SĀVITRĪ: dea personificazione della metrica degli inni sacri. Figlia di Sūrya e moglie di Brahmā.

SĪTĀ: dea dell’agricoltura, incarnazione di Lakshmī. Nasce per propria volontà da un campo arato. Moglie di Rāma viene rapita da Rāvana re dei Rakşas ma dopo la liberazione viene tacciata di adulterio ed è costretta a tornare alla madre terra. La credenza popolare le rende giustizia soprannominandola Kumari, vergine.

ŚIVA: il benevolo. Antecedente alla colonizzazione Ariana, si trasforma in Rudra. Nell’Hindù forma la Trimurti con Vişņu e Brahmā. In lui si fondono numerosi déi che divengono suoi appellativi, Ugra il distruttivo, Mahākāla la morte, Mahāyogin il grande asceta, Natarāja il danzatore, Pāshupati la fertilità, Nandin il toro. Si presenta nudo cosparso di cenere con una collana di teschi. Nella visione Ardhanariśvara incarna le caratteristiche maschili e femminili. La sinistra è femminile con uno specchio e il seno prominente, la destra è maschile e reca il tridente del potere. Caratteristica unica è il suo terzo occhio posto in fronte. Dio della procreazione suo simbolo è il Linga, l’organo sessuale maschile, sua compagna Durgā. Il suo complemento universale è la Sákti attraverso il quale è adorato come dio supremo. Suo eccelso appellativo è Parameshvara, il padrone al disopra di tutto, in quanto causa primaria del tutto e del sé dell’essenza universale.

TRIMŪRTI: la triade formata da Brahmā il creatore del mondo, Vişņu il conservatore e Śiva il distruttore. Per la filosofia Sāmkhya non sono altro che tre forme della stessa entità. Per la credenza popolare sono tre diverse manifestazioni dell’unico Dio supremo Īśvara. Per la filosofia Indiana rappresentano la polvere della creazione, la bontà della conservazione e l’oscurità della distruzione. La sillaba mistica OM, tipica delle pratiche trascendentali Yoga, non è altro che la traslitterazione della sillaba indiana AUM, dove A sta per Brahmā, U per Vişņu e M per Śiva. La connessione fra l’etimologia della parola Trimūrti, tre immagini, e la concezione Hindù di considerare ogni immagine come una manifestazione divina determina il profondo significato della Trimūrti definendola “triplice manifestazione divina”.

VIŞŅU: colui che penetra tutto, colui che attraversa il mondo in tre passi, simboleggia il sole nelle tre fasi principali: alba, zenith e tramonto. Forma la Trimurti con Brahmā e Śiva. Il suo culto è uno dei più importanti in tutta l’India, determinandolo come il dio supremo, questo lo porta ad avere numerosi appellativi e manifestazioni, Hari il dio, Purosottama dio supremo, Jagannātha signore dell’universo, Somnātha signore sella luna. Il conservatore, combatte i demoni e ristabilisce l’ordine universale anche tramite i suoi Avatāras. I Purāanas elencano dieci diversi Avātara: Matsya il pesce, Kūrma la tartaruga, Varāha il cinghiale, Narashima l’uomo leone, Vāmana il nano, Parashu-Rāma, Rāma, Kŗşņa , Buddha, e Kalki. Solitamente raffigurato con quattro braccia in cui reca una clava, una conchiglia, il cui suono atterrisce i demoni, il disco chakra, e il loto. Suo Vāhana l’uccello Garuda, il suo giaciglio è Annata. La mano destra rivolta in alto a garantire l’esaudirsi delle promesse, la sinistra verso il basso in ascolto dei desideri, un segno di vicinanza all’umanità. Per questo e per la capacità riconosciutagli di rendersi presente sulla terra tramite gli Avātara, la sua fede è molto diffusa, ogni sua manifestazione è testimonianza della vicinanza di Vişņu all’umanità, addirittura per molti Hindù il Cristianesimo non è che una delle tante forme di Vişņuismo e Gesù un suo Avatāra.