LA VISIONE

LA VISIONE

LA VISIONE

L’umanità e la religione sono cresciute attraverso i secoli maturando e sviluppandosi l’una grazie all’altra e viceversa. Dalle prime domande esistenziali che si devono esser posti i nostri antenati, fino alla formulazione delle più complesse teologie religiose, l’incremento delle capacità umane ha di volta in volta creato e distrutto, creduto e sfatato, elevato e demolito tutti i miti possibili, senza però con questo arrivare mai all’affermazione di una teoria universalmente riconosciuta. Al contrario ogni fede esistente ha dato vita a sua volta a numerosi altri culti, differenziandoli dal precedente a volte in modo molto lieve, altre ribaltandone drasticamente i fondamenti. Le conoscenze acquisite nel tempo dall’ingegno umano hanno contribuito ad ampliarne le consapevolezze e le aspettative amplificando le illusioni, i sogni e le possibilità e creando di conseguenza nuovi orizzonti per le teorie della fede, continuamente adeguata alle potenzialità dell’uomo e ai suoi desideri.

La religione si ritrova quasi sempre a braccetto con il potere, ripetendo nel tempo e nello spazio un clichè a cui potenti e ministri del culto si sono sempre adeguati ben volentieri. Da sempre è stata utilizzata come fine o come mezzo o come semplice giustificazione per intraprendere guerre di conquista o di repressione, per invadere, per attaccare, per innalzare o per detronizzare, perdendo il più delle volte il suo reale principio di fede, ovvero di legame di ogni singolo uomo e più ancora di un’intera comunità con il dio. Ogni nuovo credo si afferma in spazi e tempi più o meno limitati, in conseguenza ai successi o ai fallimenti dell’autorità centrale. La fede funge da collante tra il popolo e il potere dando solidità alle nazioni in via di costituzione o in espansione, i successi vengono attribuiti al buon volere degli dèi e al sovrano del momento che abilmente se ne accredita i meriti in quanto benedetto, inviato o addirittura figlio del dio. In questo modo consolida il proprio potere concedendone tuttavia, in modo più o meno inconsapevole, assai maggiormente ai ministri del culto da cui diventerà sempre più dipendente. La fede però funge anche da disgregante, quando l’autorità centrale è in crisi o le circostanze sono particolarmente avverse. Le sconfitte o gli eventi naturali sfavorevoli, come carestie o epidemie, mettono in cattiva luce gli abitanti del palazzo, sovente accusati di trasgredire le leggi divine o di non essere poi così ben accetti dagli dèi. Del caos che si viene a creare ne approfittano nuovi credi o fedi meno diffuse, magari portate avanti dagli antagonisti del sovrano. La lotta per il comando è serrata, colpi di stato, rivoluzioni o guerre civili pongono fine all’agonia dello stato, accanto al nuovo signore arriva al potere anche una nuova classe sacerdotale e un novo dio trova posto nel tempio, ma le vecchie fedi sono sempre dure da sradicare e questo alla lunga contribuisce ad una pericolosa frammentazione del potere o della stessa nazione.

Fra i popoli che meglio hanno aggirato l’ostacolo della diversità dei culti, Egizi e Romani si sono rivelati acuti allievi degli errori altrui. La politica di questi imperi è stata strettamente interdipendente con la religione che più che mai in questi casi è diventata “religione di stato”. L’espansione di conquista portò necessariamente al contatto con culture e fedi diverse, con nuovi dèi e nuovi riti e il rischio di un conflitto con le popolazioni occupate, anche se facilmente domabile, avrebbe comunque contribuito a complicare il duro rapporto derivante dall’invasione. Per scelta politica, per puro opportunismo e volendo, con un pizzico di democrazia, ogni nuova divinità viene accolta con favore ad ingrossare le file del pantheon. Gli Egizi si limitano a modificarne i nomi aggiungendo prefissi o suffissi e convincendo gli ignari idolatri che il dio a loro presentato altri non è che la stessa divinità indigena in una veste rinnovata e ancor più potente. I Romani addirittura accettano in pieno i culti dei territori occupati fino ad arrivare a cercare dèi, cui erigere templi o fabbricare simulacri, da adorare accanto alle proprie divinità, in modo da ingraziarsi qualunque nume in una sorta di danza della scaramanzia portata all’eccesso. Il rispetto delle divinità è nullo, il rapporto si riduce ad offerte o sacrifici con il solo scopo di ottenere favori, gloria e potere. Qualunque dio va bene finché tutto va bene, ma al primo disappunto crolla il dio, crolla la fede o crolla il potente, per questo servono tanti dèi, ci vuole un rimpiazzo nelle alte sfere ma anche tra le statue dei templi. Arriverà un altro duce con una diversa divinità accompagnata da una pletora di sacerdoti e oracoli a vessare e ingannare il popolo intero che magari pur con fede sincera, nella propria umile ignoranza, si trova costretto a volgere le venerazioni verso il dio più in voga del momento pur di salvaguardare la propria sussistenza. A Roma si continueranno comunque ad adorare quante più divinità possibile in un’orgia di festeggiamenti e riti sacrificali che avranno spesso la pura finalità del divertimento.

Concreta o astratta, reale o mitica, tangibile o illusoria, anche la religione come tutto ciò che dall’uomo è stato creato o conosciuto, è stata distorta per i puri interessi personali o delle diverse nazioni, perdendo per le grandi masse il vero e proprio significato escatologico qualunque esso possa essere stato o possa essere per tutte le religioni esistite e per quelle ancora esistenti. Spesso solo nell’intimità e in pieno contrasto con il comportamento tenuto, ogni uomo confida nella propria unica religione, pregando e raccomandandosi, promettendo e ripromettendosi atti che difficilmente nel mondo che scorre disinteressato fuori da ognuno di noi, potrà mantenere. Pochi sono coloro che hanno saputo davvero tener fede alla propria fede attenendosi ai precetti divini, ancorché redatti dagli stessi uomini. Budda, Santi, venerabili ed eremiti sovente solo nell’isolamento e con l’ammirazione ma più spesso con la denigrazione degli altri, hanno saputo mantenersi puri per l’ottenimento del premio finale, fulcro di ogni grande religione. L’intento di questa analisi è quello di effettuare un’indagine razionale e asettica del fenomeno religioso, dalla “creazione” ad oggi. Scoprire, illustrare, ammirare e criticare senza giudicare il culto in quanto tale ma valutando l’uso improprio che ne hanno fatto gli uomini, non prendendo in considerazione alcuna la possibilità o meno che questa o quella religione o fede possa essere vera o meno o che i fondamenti di un culto abbiano delle radici storiche che ne possano in qualche modo dimostrare una maggiore attendibilità. Questa non solo non è la mia intenzione ma risulterebbe alquanto difficile se non impossibile da confermare, senza poter essere smentito immediatamente da chiunque se non addirittura da me stesso poche righe dopo.

Non è un trattato di Teologia, non si basa su studi effettuati sul campo, non è il risultato di anni passati su libri antichi, traducendo testi Sumeri o Maya. È la presa diretta. È il rapporto fra uomo e Dio. Fra l’uomo quotidiano, che ogni giorno deve combattere la propria guerra, naufragando fra impegni, debiti, amori, fame e rabbia e il Dio immutato, che da sempre, come da dietro un diafano velo, continua ad osservare e sembra non intervenire mai. Ecco questa è la visione. Andare oltre quel velo è la visione. Capire, sentire, contare quante volte quel velo è stato strappato, permettendoci di non negarne l’esistenza e toccando con mano la Sua presenza accanto a noi. Questa è la visione. Prendere atto di quante volte quel velo è stato dipinto di nero, per impedire di vedere Dio. Credendo di impedire a Lui di vederci. Come fanno i bambini che tappandosi gli occhi credono, non potendo vedere, di non poter essere visti. Dio strumento, Dio soggiogato, Dio bestemmiato. Questa è la visione. Capire, sentire, contare quante volte l’uomo si è dato regole e leggi, spacciandole per divine e, pur avendole ideate, elaborate e scritte esso stesso, non è stato capace di seguirle ugualmente. Toccare con mano la miseria dell’animo umano, che pretende un Dio a propria immagine e somiglianza, per poter giudicare in Lui le nostre debolezze. Dio strumento, Dio alibi, Dio bistrattato, sfruttato, manipolato, allontanato. Un Dio a cui abbiamo disubbidito dal primo momento in cui gli abbiamo dato la possibilità di rivelarsi a noi. Un Dio il quale ha avuto un solo unico, semplice, universale difetto, era Lui il Dio, mentre invece volevamo esserlo noi.

Questa è la visione. Capire, sentire, contare quante e quali volte abbiamo lasciato che Lui ci indicasse la strada e quando invece ne abbiamo voluta tracciare una nostra. Ma questo non differenziando fra fede e fede ma tra atto e atto, fra versetto e versetto, fra parola e parola, dall’Alaska alla Nuova Zelanda, quante volte siamo riusciti a travisarne la volontà. Questa è la visione, la visione della teoria. La teoria che ci vede tutti quanti fratelli di fede ma incapaci di riconoscersi nell’altro, di comprenderlo e di farsi capire, incapaci di strappare quel velo e lasciare che Dio si mostri a noi, lasciare che noi possiamo vederci in Lui, incapaci di esser Dio, per questo non lo siamo.

La sensazione provata, intanto che in maniera del tutto autodidatta, approfondivo le mie conoscenze nell’intricato mondo della religione e delle migliaia di connessioni dirette o traversali che lo legano ad ogni attività umana, è quella di un leggero soffio di vento, di vita, di sapienza e conoscenza che da sempre sia spirato intorno alla nostra esistenza influenzando e coinvolgendo uomini, tribù, popoli e nazioni in un occupazione assolutamente non necessaria per il sostentamento ma che man mano che questo alito di vento diventava tempesta e poi uragano, affascinava un sempre maggior numero di persone fino a coinvolgere l’intera umanità. È proprio questa voglia, necessità, desiderio, passione e non ultima fede, innata o inculcata, cercata o donata, trovata o perduta, presente in ogni essere umano che ha destato in me una morbosa curiosità che ben presto si è trasformata in interesse e poi in ammirazione verso ogni forma di culto del nostro pianeta. Accorgersi quanto, nella loro diversità i riti, le adorazioni, le fedi e le stesse religioni per quanto a volte aspramente in aperto contrasto tra loro, siano alla fine così simili le une alle altre. Quasi come se a cambiare fosse l’umanità e non il dio, quasi come se, da diecimila anni a questa parte, in fondo stessimo adorando, onorando e pregando lo stesso identico dio, pur chiamandolo con nomi diversi, pur dandogli le più disparate sembianze, pur volendolo di volta in volta creatore, demone, pregno di bontà o acuto esaminatore.

Il dio che si presenta nelle diverse culture è strettamente connesso al grado di civiltà, di conoscenza e di potere di cui la città, lo stato o la nazione godono e a quelli che sono gli interessi, le potenzialità e le mire di coloro che ne sono al comando. Un dio costruito ad arte, confezionato per i bisogni terreni, un dio che soddisfa le nostre esigenze. Un dio che rappresenta infine l’umanità stessa e la sua intima essenza. Un dio concepito a propria immagine e somiglianza, tanto da arrivare a formulare l’ipotesi che il dio abbia formato noi a propria immagine e somiglianza. Invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia, una moltiplicazione esponenziale di religioni che si frantumano a loro volta in correnti, fiumi, rigagnoli, fino ad arrivare al culto personale e unico in noi stessi e con questo ad una fede inossidabile verso “noi dio”, verso una propria deificazione che può portare o ad avvicinarsi al dio, chiunque esso sia da noi riconosciuto, testimoniato come il solo capace di darci questa incommensurabile peculiarità della quale se ne ammette in toto il merito al dio stesso o ad allontanarsi inesorabilmente dalla divinità qualunque essa sia da noi misconosciuta, accecati dallo strapotere di cui ci riteniamo noi stessi artefici.

La fede è qualcosa che va al di là delle semplici cose mondane e materiali, è, come dice la parola stessa, affidarsi ad un’entità superiore che riteniamo più capace di noi, più competente e senza alcun dubbio più potente. È confidarsi con un’essenza che spesso riteniamo l’unica in grado di comprenderci, di assisterci, di concederci la forza e l’energia per affrontare la vita e tutti gli ostacoli che troviamo ad attenderci lungo il nostro percorso. È confidare nell’aiuto indiscusso, nell’assistenza, nel conforto e nella forza di questo essere superiore la cui onnipotenza è messa al nostro servizio. La cultura, intesa come vera e propria conoscenza, il progresso, le superstizioni via via sfatate nel corso dei secoli e l’autocoscienza dell’umanità, hanno da una parte maturato ma dall’altra snaturato il rapporto con il dio. Le prime civiltà, o ancor meno i villaggi se non i piccoli agglomerati di capanne, dopo aver sentito crescere in loro la necessità di un’entità superiore o quando questo è stato possibile, dopo averne constatato l’ineluttabile presenza, hanno cercato immediatamente di instaurare un rapporto con la divinità. La semplicità dei primi riti è platealmente innocente, l’unico mezzo di preghiera è riconosciuto nell’offerta, una cerimonia che anche successivamente non ha mai smesso di manifestare la sua inossidabile opportunità di dialogo con il dio, offerte di cibo, sacrifici, promesse, intenzioni che non sempre, o meglio, quasi mai arrivano realmente pure dal profondo delle nostre coscienze. L’opportunismo oltre ad una spudorata credulità, dovuta in gran parte anche all’ignoranza, hanno portato sempre più e sempre più facilmente ad instaurare un rapporto di “do ut des”. La divinità diventa una fabbricatrice di benessere equamente remunerata, almeno secondo la tesi dell’adoratore. I doni e le offerte vengono presentati con il solo scopo di ottenere la grazia desiderata, cibo, pioggia, raccolti, potere, successo, vittoria. L’ottenimento di quanto richiesto porta nuovi doni al dio, nuove offerte e sacrifici, nuove promesse e naturalmente anche nuove richieste. Il ciclo giunge a conclusione soltanto nel momento in cui la grazia non si manifesta, allora la colpa viene riversata soltanto sulla divinità, il cui potere non è stato sufficiente a contrastare i demoni avversi o gli dèi adorati dagli antagonisti. La fede perde ogni suo significato escatologico, il dio viene spogliato di ogni suo significato celeste e si trasforma in un pozzo senza fondo da cui si pretende di attingere all’infinito per soddisfare ogni bisogno. Un dio travisato e sfruttato verso cui si impreca ogni volta che un ostacolo si frappone fra noi e l’obbiettivo che ci siamo preposti, ogni volta che questo ostacolo si rivela più alto di quanto noi potremmo mai arrivare ma la colpa o il demerito sarà solo ed esclusivamente della divinità che perde inesorabilmente la sua onnipotenza. La crescita delle capacità religiose si manifesta nel momento in cui il dio continua ad essere considerato presente anche nelle avversità, quando si arriva a concepire quanto siano importanti le nostre capacità e quanto diviene indispensabile unirle ai buoni auspici richiesti. È a questo punto che la religione diviene fede, complementare alle nostre azioni e non più mezzo per il raggiungimento di scopi ma tramite attraverso il quale plasmare i nostri bisogni in desideri e invocazioni di assistenza per riuscire a soddisfarli. Il dio diviene capace di assisterci e non più obbligato a soddisfarci, le offerte si trasformano in ringraziamenti, in suppliche e in atti di fede anche se non sempre, o meglio, quasi mai l’adoratore riesce a trattenere una vera e propria richiesta concreta, pur nella consapevolezza che non potrà essere esaudita se non sussistono presupposti reali e capacità proprie da mettere in gioco. Il dio diventa un compagno con cui condividere gioie e pene per il raggiungimento del fine ultimo, anche se non in ogni occasione e non sempre in ogni credo. Sia le tre religioni monoteistiche che le grandi fedi dell’oriente però mirano al raggiungimento di quello stato di benessere eterno, identificato nel paradiso, che altro non è che la dimostrazione dell’amore divino verso l’umanità. Mezzi diversi, concezioni diverse e differenti stili di vita, comportamenti, leggi e divieti che variano da fede a fede ma che infine cercano, in modi che dalle altre religioni possono essere visti come non consoni, inopportuni, blasfemi o addirittura eretici, di portare a compimento quella misteriosa missione che ci è stata affidata su questa terra. Il potere escatologico diviene il miraggio verso cui ogni religione, se correttamente e correntemente praticata, desidera portare il proprio fedele, qualunque esso sia e qualunque sia il mezzo richiesto da ogni singolo credo per poterlo raggiungere. L’adorazione perde il limite della paura, un comportamento contrario alle prescrizioni della fede non equivale più a scatenare le ire furibonde della divinità ma a perderne il suo appoggio. Non è più il dio a dover dimostrare il suo potere ma l’uomo ad accertare, constatare e manifestare la propria fedeltà, trovando in questa la fiducia nelle proprie capacità di ottenere il riconoscimento ultimo, quello di trovarsi finalmente di fronte al dio stesso.

Nonostante la mia cultura di provenienza sia quella Cristiana Cattolica e questa sia in effetti la mia fede ed il mio credo, c’è da parte mia la più grande apertura possibile alla critica anche nei confronti della mia stessa religione. Al di là di quello che è il mio coinvolgimento emotivo durante le funzioni o nella pratica delle preghiere della sera, non ritengo impossibile per me addentrarmi in un approfondimento razionale e oggettivo delle mutazioni, variegazioni e ripetizioni del primo accenno di fede manifestatosi sulla terra. Al contrario la mia fede accompagna questo studio rafforzandosi ulteriormente e contrastando proprio la criticità di quanto andrò di volta in volta ad affermare.

Questo accade per lo stesso motivo per cui ognuno di noi crede. La fede, come dice la parola stessa è qualcosa che, ancorché inculcataci durante l’infanzia, va oltre quella che può essere la dimostrazione materiale dei fondamenti della fede stessa. I libri, i riti, le funzioni che sono alla base di ogni tipo di credo sono solamente artificiosi ammennicoli utilizzati per convincere gli altri e noi stessi della concretezza dei nostri pensieri, quando in realtà risulta per noi difficilissimo se non impossibile credere realmente a quello in cui abbiamo fede. Ma è più forte di noi e non è possibile dare una spiegazione logica del nostro comportamento perché non c’è nella maniera più assoluta la possibilità di dimostrare che Dio, Ganesh, Allah o Giove esistano realmente, come allo stesso modo non è possibile dimostrare il contrario.

La fede è come l’amore ma più dell’amore. Sapreste dare una spiegazione razionale all’amore che avete provato, provate e proverete per qualcuno? Perché è bella, perché è simpatico, perché è una persona di sani principi, lavora sodo, perché balla bene, canta, fa ridere e fa l’amore da dio! E nello stesso momento in cui pronunciate queste parole cercate immediatamente un’altra definizione, un altro aggettivo perché vi rendete conto che ciò che avete detto non è esatto, o meglio non è completo, più ancora non è solo quello è anche… . Non c’è. Non esiste una spiegazione razionale che possa definire il motivo per cui desideriamo così ardentemente di condividere la nostra vita con un’altra persona. Accettando per di più da questo essere, per noi così essenziale ma che invade la nostra intimità, tutto ciò che, se ci fosse fatto da qualsiasi altra persona ce la renderebbe dannatamente insopportabile. La fede è ancora di più, perché nella vita molti possono essere gli amori. Provati, sentiti, ricambiati, concretizzati e più o meno duraturi. Ma la fede è unica e sola. È verso Dio. Chiunque egli sia e comunque lo si voglia chiamare. L’apostasia è un delitto inesistente. Si fugge da una cultura o da una cerchia di correligionari impositori o al contrario deboli, non dalla fede, non dall’amore che manifesto o nascosto è alla base di ogni credo. Cambia la figura presso la quale ci inginocchiamo ma la nostra fede rimane immutata. I comandamenti, che siano due, dieci o mille, sono solo limitazioni civiche che il genere umano si è autoimposto per una civile e pacifica o meno convivenza con il resto del mondo. Molte delle leggi imposte da ogni credo il più delle volte rispecchiano necessità e problematiche che non trovano più nemmeno riscontro nel mondo moderno e quelle che oggi sarebbero necessarie vi possono trovare un rimando o un richiamo soltanto se opportunamente ricercato in un’interpretazione a volte al limite del plausibile. Una religione che dovesse nascere oggi avrebbe sicuramente tra i comandamenti intimazioni come: non inquinare, non sprecare l’acqua, non sfruttare il lavoro degli altri. Ma ognuno di noi crede fermamente nei comandamenti della propria fede, io compreso, perché è così, perché è normale, perché è una fede e non necessita di spiegazioni o motivazioni e se le basi non sono così attuali basta approfondire il senso delle parole e possiamo ritrovare in editti di cinquemila o di cinquecento anni fa gli insegnamenti per un corretto uso della vita moderna.

Diversi ma ancora una volta simili sono i fini ultimi di ogni religione. L’escatologia, cioè lo scopo finale della realizzazione di una vita religiosa è comunque e dovunque la ricezione di un premio. Sotto varie forme il Paradiso, il nirvana o le verdi praterie, sono il raggiungimento di una vita retta condotta secondo le regole della propria religione. Quindi in ogni caso la vita presente è vista come una sorte di passaggio, un periodo di prova più o meno breve, più o meno lungo, in cui la nostra essenza, l’anima o comunque si voglia intendere e definire la parte non razionale ma spirituale della nostra vita, viene messa alla prova o è costretta a subire la vita, per ottenere, raggiungere, meritare il premio finale, l’eternità. L’eternità, come qualsiasi altra cosa nella fede, è tutto e il contrario di tutto. È vivere nella luce, è rivivere infinitamente la nostra stessa vita senza tutto quello che ci ha contrastato e dato pena e dolore, è ristorarsi beato sotto un albero di frutti davanti ad un fiume di miele sollazzato dalla visione di vergini e panorami evocativi. Può ancora essere il niente assoluto che comunque dinanzi ai tormenti della vita terrena diventa pace, pace senza fine, beatitudine sempiterna. E qui giungo ad un affermazione che si ripeterà più volte nel corso di questa analisi, ovvero che anche il niente è qualcosa, forse ancor di più, il niente è il tutto e più ancora il niente può arrivare ad essere più del tutto, in quanto essendo niente è l’unica cosa veramente assoluta e completa, così perfetta da essere assolutamente senza contenuto e quindi piena di se stessa, come lo sarebbe l’universo se non esistesse, sarebbe niente ma allo stesso tempo l’unica cosa non esistente e proprio questa stessa affermazione lo farebbe esistere. È il nostro pensiero, la nostra essenza, la nostra fede che lo fa esistere è il fatto stesso che crediamo a rendere tutto reale. Se credessimo che il mondo non esiste allora non esisterebbe ma per lo stesso motivo esisterebbe proprio perché crediamo che non ci sia. Siamo quindi noi stessi a dar vita all’universo, è il nostro pensiero, il nostro essere, la nostra intimità che rende tangibile anche ciò che non lo appare, anche ciò che non appare, ciò che non si vede ma si crede. È credere che rende reale la nostra fede, per questo non ha bisogno di spiegazioni, anzi le disdegna, perché tentano inutilmente di dare significati ad affermazioni che sono reali nella misura in cui non debbano essere dimostrate.

Quando ho formulato questa mia ipotesi credevo di aver palesato una teoria rivoluzionaria, di aver esposto un pensiero che avrebbe fatto rimanere tutti a bocca aperta, poi mi sono trovato faccia a faccia con Platone, una lotta impari con un colosso di queste dimensioni, il padre se non il figlio della filosofia. Leggendo alcune sue opere mi sono imbattuto in qualcosa che mi è sembrata una teoria veramente rivoluzionaria capace di farmi rimanere letteralmente a bocca aperta. Scorrendo le righe dell’opera “Parmenide” di Platone ho ritrovato, in un’esposizione decisamente molto molto più ampia di quanto io avrei mai potuto fare, tutto quello che nel mio piccolo avevo argomentato sulle similitudini fra tutto e niente. Se l’uno è, niente è; se l’uno non è, tutto è. Grazie a lui mi sono sentito piccolo e grande allo stesso tempo, niente e tutto ed ho capito di far parte di questo mondo e dell’altro.

Tremila anni fa c’era già chi affrontava argomenti complessi e completi come quelli del tutto e del niente, dando spiegazioni esaurienti e chiare e questo non ha cambiato il mondo. La comprensione che ne è derivata mi porta ancora in modo naturale a confermare la mia intenzione, quella di effettuare una semplice analisi ed un’elencazione critica e il più possibile “super partes” delle fedi e di come l’uomo ci si è addentrato. Farlo dando e prendendo. Dando quello che sento, prendendo quello che mi fa sentire.

O forse il mondo è cambiato?

Non so quanto profonda possa essere la mia fede, quanto io possa essere più o meno fedele nei confronti del resto dell’umanità, ma non credo che possa essere misurata. Né la mia, né quella degli altri. Perché è incondizionata. È la nostra condotta di vita che ci porta ad essere buoni o cattivi, angeli o demoni, a meritarci l’inferno o il paradiso, anche contro la nostra stessa fede. Se esiste una punizione divina, l’unica spiegazione è che ci sia da parte dell’uomo la possibilità di agire diversamente da quanto il dio ritiene giusto, per cui questo vuol dire che possiamo vivere nella fede ma allo stesso tempo agire al di fuori di essa e meritarci il castigo che ci viene comminato: l’inferno, la dannazione, l’inesistenza, il caos, l’infelicità ininterrotta, la tribolazione perenne.

Credere in tutto questo è praticamente impossibile, ma la fede lo rende invece reale e concreto. Siamo abituati ad avere dimostrazioni scientifiche di tutto ciò che ci viene proposto: come funziona un orologio, come si muove un treno, come si scinde un atomo. E crediamo a tutto questo perché abbiamo una spiegazione perché lo possiamo vedere, toccare provare. Allora vorremmo anche altre spiegazioni perché il tempo passa, perché lo spazio deve essere attraversato, perché c’è qualcosa di più piccolo di quello che sembra essere il più piccolo e dove smette di esserci qualcosa di piccolo, dove smette di esserci qualcosa di grande, dove finisce l’infinito, come può finire l’infinito e se non finisce mai come può essere, cosa c’è infinitamente lontano da noi e se lo spazio si può piegare allora ha dei limiti. E cosa c’è oltre questi limiti? Niente? Allora, cos’è il niente? Come può esistere se è niente?

Ma non occorre andare tanto lontano, non importa scervellarsi in astruse questioni o complicati enigmi e misteri, basta porsi alcune semplicissime domande.

Perché il fuoco brucia? Perché l’acqua bolle? Perché la luce illumina?

Nessuno saprà risponderci, potranno solo mostrarci come. Come reagiscono gli elementi affinché tutto questo accada, qual’è il procedimento e quali atomi rendono tutto ciò possibile ma non potranno mai spiegare il perché.

Come, è una spiegazione razionale. Perché, è un mistero spirituale.

Non aver bisogno di risposte, è fede.