ATTIMI... NEL CORSO DI UNA VITA

ATTIMI... NEL CORSO DI UNA VITA

Attimi…
nel corso di una vita



7
Davanti allo Specchio
Quando è successo la prima volta ho avuto paura. La mia vita era già incasinata di suo senza alcun bisogno di ulteriori e indesiderati interventi. Con i miei andava da schifo, mio padre voleva soltanto che io studiassi quanto bastava per trovare un lavoro decente e portare un po’ di soldi a casa. Mia madre invece, voleva solo che studiassi quanto bastava a trovare un lavoro decoroso, magari in un ufficio, dove avrei avuto la fortuna, a suo dire, di conoscere qualche impiegato per bene con cui mi sarei potuta sposare e fare un paio di figli, magari un maschio e una femmina, proprio come me e mio fratello. Già mio fratello lui voleva solo che io mi trovassi un lavoro con uno stipendio sufficiente a pagarmi un affitto. Così gli avrei lasciato la mia camera e lui avrebbe finalmente, come mi ripeteva ogni giorno, potuto abbandonare la sua, che in realtà era un piccolo studio con una finestra vicina al soffitto, di quelle che si aprono solo verso l’alto e da cui non puoi vedere nemmeno il traffico, figuriamoci il cielo o un prato verde. Che lagna di fratello mieloso. Ma in fondo era lui il più piccolo, per cui doveva pagare lo scotto dell’ultimo arrivato. Se aspettava la mia camera doveva prepararsi padella e deambulatore, perché nel suo studio ci sarebbe diventato vecchio.

Vivevo in un marasma di sensazioni e di emozioni che insieme alle prime dolorose e devo dire schifose mestruazioni, erano entrate prepotenti nella mia già miserrima esistenza. Fino all’ultimo avevo sperato che non mi sarebbero mai venute. Quella che le aspettava in realtà era mia madre, pronta a riempirmi la testa di consigli non attesi e soprattutto prontissima a preoccuparsi per me, a proibirmi di uscire, a dirmi di stare attenta a quello che facevo, ai guai in cui mi sarei potuta cacciare e dulcis in fundum che i ragazzi volevano solo quello e che mi sarei dovuta trovare un tipo per bene al momento giusto. Sì a novant’anni. Di questo non doveva certo preoccuparsi, nessuno mi filava manco per sbaglio e quello che i ragazzi avrebbero voluto fare con me, a me faceva schifo solo a pensarlo. Più mi guardavo nello specchio e più mi rendevo conto che se non mi fossi decisa a fare qualcosa, non potevo impedire che da fuori si vedesse benissimo quello che ero dentro, una fallita. Non avrei permesso a nessuno di entrarmi dentro e scoprirlo finché non avessi trovato un rimedio. Chiaramente i miei erano all’oscuro di tutto questo, sembrava che loro non vedessero niente e niente mi chiedevano ed io non andavo certo a raccontargli i miei malesseri e i miei dubbi, ne sarebbero rimasti sconvolti, mi avrebbero preso per pazza e mi avrebbero fatto sentire più fallita che mai. Quei due erano nati nella generazione sbagliata, avrebbero dovuto fare i genitori di loro stessi, la loro mentalità era rimasta negli anni settanta, un po’ di libertà fino ad un attimo prima che potesse diventare piacevole.

Passavo le ore chiusa in camera con le finestre oscurate, la musica a tutto volume creava una bolla impenetrabile intorno ai pensieri, niente e nessuno poteva raggiungermi. Mi mettevo nuda davanti allo specchio, un metro e sessantacinque per sessantacinque chili, mi guardavo e sembravo stranamente normale. Sentivo però che non avrei dovuto rimanere inerte, che da qualche parte qualcosa che non andava c’era sicuramente. Tanto cercai che naturalmente, la magagna che albergava in me si fece viva. Infine la risposta alle mie insistenti domande arrivò come un lampo a squarciarmi la mente e a sconvolgere tutto, più di quanto non lo fosse già stato. La trovai mentre, come dopo ogni allenamento da tre anni a quella parte, rilassavo i miei muscoli sotto l’acqua calda nelle docce della palestra, la mia seconda casa, con le mie compagne intorno, come sorelle per me. Venne a sfidarmi proprio nel luogo dove mi sentivo più sicura, aveva osato troppo e per questo avrei dovuto sconfiggerla ad ogni costo. Finalmente avevo conosciuto la mia nemica. Da quel momento l’avrei combattuta con tutte le mie forze e con ogni mezzo a mia disposizione. Ma ancora non sapevo bene fino a dove sarei potuta arrivare, fino a dove l’ambiguità della vita mi avrebbe portato, fino a dove avrei spinto l’inutile braccio di ferro contro me stessa.

Guardai la Benedetti con degli occhi che devono essere apparsi strani perfino alla mia più cara amica Anna, che colta di sorpresa da quel mio atteggiamento prese a passarmi più volte la mano davanti agli occhi per verificare se vedevo o no, proprio come fanno i bambini piccoli quando giocano a mosca cieca e chi è sotto tenta di sbirciare da dietro la benda legata intorno alla testa. Ma ormai chi gioca più a mosca cieca, non ci abbiamo giocato neppure noi. Ed io, come se realmente fossi stata bendata, continuai a fissare imperterrita la mia compagna, anche attraverso le dita di Anna. La guardavo mentre se ne stava nuda e tranquilla sotto la doccia. Tanto la fissai che lei stessa alla fine se ne accorse e deve avere pensato che ci doveva essere qualcosa di troppo strano nel mio vacuo rimirarla, come se la guardassi con occhi nuovi, come se qualcosa fosse cambiato o che magari fossi diventata improvvisamente lesbica, finché ad un tratto cacciò un urlo furibondo quando si rese conto che le mie pupille erano fisse, incastrate, appiccicate, adesivate sul suo enorme sedere. Si voltò schiacciandosi al muro, coprendosi le pudiche intimità con le mani, come la peggiore delle attrici in un film di serie B degli anni ’70, con la doccia che insisteva nella sua inesorabile tortura, coprendo di acqua il suo corpo bianco, sulle possenti spalle, sulle braccia robuste, sulle sue mani grandi, capaci di colpire così forte la palla, che più di una volta le era capitato di prendere in faccia un avversaria e mandarla in infermeria con il volto coperto di sangue rosso vivo colatole a fiotti dal naso.

Col braccio sinistro si coprì vergognosa quelle due ciabatte seminuove che si ritrovava al posto delle tette, la mano destra invece era delicatamente posata sulla sua dolce “petunia”, così la chiamava lei, o meglio così affermava che la chiamasse il Corsini, quello della V A, che ogni tanto le infilava una mano dentro ai jeans per contare i petali della sua petunia, m’ama, non m’ama, m’ama, non m’ama, oh! Lui invece pensava me la dà, non me la dà, me la dà, non me la dà, oh! E alla fine lei gliel’aveva data davvero. In quel momento invece a me sembrava più un sorcio nero con i capelli rasta che un fiore delicato. Poi fuggì, sotto lo sguardo sbigottito delle altre che non si erano accorte di nulla, tranne naturalmente Anna. A lei non sfuggiva mai niente di quello che succedeva intorno a me. D’altronde era così per entrambe, anch’io sapevo e vedevo tutto ciò che riguardava lei, fin nei minimi particolari. Normale fra due amiche, che dico di più, due sorelle come noi. Proprio come ci sentivamo, così come ci piaceva presentarci ai pivelli che ci sbavavano dietro e ci abbordavano al pub o in disco.

Io rimasi lì, più sconvolta e sbalordita di tutte le altre, isolata nella bolla d’acqua che sgorgava lenta dalla doccia sopra la mia testa, formando intorno a me un guscio che in quel momento non riuscivo a rompere e che da allora mi è rimasto ancora addosso, un pellicola protettiva contro gli sguardi frastornati e increduli delle mie compagne di squadra. Anna continuava a passare la mano su e giù davanti ai miei occhi e mi chiamava insistentemente, cercando di risvegliarmi dal torpore catatonico in cui ero improvvisamente precipitata. Poi si mise davanti a me, si appoggiò alle mie spalle, strinse forte con quelle due pinze che si ritrovava al posto delle mani e prese a scuotere il mio corpo inerte chiedendomi di svegliarmi. Per favore, ti prego, aiutami, queste le parole che uscirono dalla sua bocca prima che divenissero incomprensibili, storpiate dal suo pianto disperato. Dopo quella domenica non ho più visto la Benedetti anche se ho saputo che è venuta a trovarmi insieme al suo ragazzo. Forse lo ha fatto per chiedermi scusa, forse per perdonarmi, forse è venuta solo perché il Corsini ha giocato a m’ama non m’ama con la sua petunia. In fondo non me ne frega niente, non adesso. Dopo forse, dopo, se ci sarà dopo, se ci sarò ancora.

Era l’ultima domenica di campionato per la squadra di pallavolo di cui facevo parte da tre anni, la “Juniores Female”, che nome però! Quando vincevamo ci mettevamo a urlare tutte nude sotto la doccia: Juniores Fa male, Juniores Fa male… e schizzavamo dappertutto. Gridavamo, schizzavamo e correvamo per tutti gli spogliatoi e più di una volta siamo riuscite a far arrivare l’acqua nei corridoi e perfino negli spogliatoi delle nostre abbacchiate e deluse avversarie. Con un fantasmagorico girone pieno di vittorie eravamo riuscite a conquistare i Play Off anche se poi ci eravamo mediocremente lasciate sfuggire la finale perdendo contro quelle finte donne della Libertas, ma non rinunciando alla migliore soddisfazione, battere le stronze della Virtus. Quelle la virtù non sanno neppure dove sta di casa. Sono solo delle troiette che la danno a tutti e vengono in campo perfino truccate. A quel punto del campionato per noi non c’era più niente da fare, avevamo perso una partita di troppo, proprio quando io ero a letto con la febbre, loro invece si giocavano la finale. Se la Libertas avesse vinto con il Palladio, la squadra della scuola, un branco di imbranate e la Virtus ci avesse sconfitto se la sarebbero guadagnate loro la partita dell’anno. Noi invece ce l’abbiamo messa tutta per negare loro questa soddisfazione, anche se non per merito mio. Sono scese in campo nella loro tenuta migliore, quella delle grandi occasioni, tuta rosa di acetato con finiture e bande laterali in blu. Che shock! Noi invece al solito, tuta celeste scolastica e sotto la divisa classica, maglia blu, pantaloncini rossi a bande bianche. Soliti riti, abbracci scongiuri grida Juniores Fa male e poi tutte in posizione. È lì che sono crollata. Improvvisamente davanti a me sono riuscita a vedere solo degli enormi sederi e non sono stata capace di pensare ad altro per tutto il tempo. La Virtus ha battuto, io non mi sono mossa e hanno fatto il primo punto. Al terzo errore l’allenatore mi ha tolto e non sono più rientrata. Abbiamo vinto, anzi meglio dire hanno vinto, tre set a zero e poi tutte a festeggiare, ma io non avevo più niente per cui far bisboccia. Me ne sono stata tutto il tempo seduta su quella panchina dura a guardarle giocare, ma non ho visto niente altro che degli enormi sederi. Eravamo tutte delle gran culone!

Quando sono entrata negli spogliatoi ho inconsciamente compiuto il gesto che mi ha cambiato la vita e mi ha portato su questo letto di ospedale in tre mesi. Ancora una volta mi sono guardata allo specchio e mi sono vista come avevo visto tutte le altre. Una ragazza appoggiata su un sedere enorme. Ero disgustosa e di lì ad una settimana sarei dovuta andare al mare. Con quale coraggio mi sarei mai potuta mettere un costume, un bikini poi sarebbe stato assolutamente impensabile. Ovunque e dovunque avrei fatto vedere di me soltanto la mia ciccia, sessantacinque chili per un metro e sessantacinque di altezza, un’obbrobriosa palla di grasso.

Uscii in silenzio dal palazzetto, Anna accanto a me continuava a farmi mille domande. Anna che sapeva che non avrebbe avuto risposte, che avrebbe continuato a starmi vicino, a cercare di farmi capire, a dirmi il milione di cose che avremmo ancora fatto insieme. Anna che piangeva a vedermi perdere ventotto chili in tre mesi e che comunque era l’unica che in ospedale si presentava senza qualcosa da mangiare, l’unica che aveva capito che non avevo bisogno che mi si dicesse apertamente e sguaiatamente che sarebbe stato meglio se avessi mangiato qualcosa. Come faceva mio padre, scaraventando per la stanza i vestiti più grandi di me che lui aveva pagato con i suoi sudati guadagni da umile e onesto operaio. E neppure velatamente, come mia madre che continuando a far finta di niente si presentava ogni giorno con una leccornia da sottoporre all’approvazione delle mie mascelle ma che puntualmente irrancidiva nell’ultimo ripiano del frigorifero. Anna che mi tiene la mano per ore e piange vedendo come sono ridotta. Ma almeno adesso non sono più una grassona. Avrei voluto perdere almeno altri due chili, ma mi hanno portato di forza in ospedale e io non ho potuto oppormi. Mi mancano le forze e non riesco a capire perché, ogni giorno mi fanno salire su quella maledetta bilancia che continua nuovamente a salire e adesso sono già tornata alla bellezza di quaranta chili. Stanno rovinando tutto, tutto ciò che ero riuscita a costruire, con forza e determinazione, con tattica e decisione ma forse soprattutto con tanta, tanta disperazione.

Anna piange accanto a me, non mi dice che sono più bella, non mi dice che ero più bella prima, ma nei suoi occhi leggo la paura, la paura che dovrei avere io, la paura che improvvisamente possa accadermi qualcosa di male. Ogni giorno ho guardato dentro quegli occhi e piano piano mi sono accorta del significato del suo sguardo, di quel suo modo melanconico di guardarmi, come se fosse l’ultima volta, come se quella stessa sera dovessi morire. Poi è bastato un attimo. Ho rivissuto quest’ultimo anno e negli occhi di Anna ho rivisto la mia vita, ho ripensato ai ragazzi che ci provavano quando fino a tre mesi prima ero convinta che nessuno si fosse mai accorto di me, ho rivisto gli occhi azzurri di quello sconosciuto che mi guardavano in discoteca, l’ho visto avvicinarsi e fuggire quando mi sono voltata con la mia smorfia da donna superiore e ho dato le spalle a lui e alle sue speranze ma in fondo anche alle mie. Avevo rifiutato quello che ero perché ancora una volta avevo avuto paura di sbagliare, mi ero creata un alibi convincendomi che quello che stavo facendo era per migliorarmi mentre in realtà stavo soltanto costruendo il muro che mi avrebbe isolato da tutto, impedendomi così di dover affrontare la vita, di dover affrontare loro che innocentemente e inconsciamente mi avevano portato a credere in tutto questo. Mia madre che voleva vestirmi come una donna, o meglio come lei credeva che vestissero ancora le donne, gonna al ginocchio e scarpe basse, mai i jeans, erano roba da ragazzi. Mio padre che continuava a sbattermi in faccia i suoi soldi e il fatto che se volevo spenderli non avrei potuto farlo in trucchi, vestiti e tutte quelle stronzate che gli portavo in casa. Non ero mai riuscita a farli contenti, tutto quello che a me sembrava oro, loro la trasformavano in merda. Ogni volta che ero felice sapevano farmi tenere i piedi per terra, anche se io avevo voglia di volare. Vedrai, mi dicevano, la vita è una cosa seria, devi toglierti dalla testa tutti i tuoi sogni, studia sodo e trovati un lavoro fisso, quando avrai figli capirai. Forse e per questo che le mie prime mestruazioni sono state la mia grande sconfitta, le loro profezie si stavano avverando, ma io non volevo un figlio, non volevo capire, non volevo crescere, volevo solo piacere come mai avevo sentito di piacere, non volevo diventare ottanta chili come mia madre o come mia cugina. Una santa, tutta casa, lavoro, figli e marito. Sì ma il marito la sera se ne va a casa di un’altra perchè a mia cugina non ci si può più avvicinare tanto è grassa. Io sarei stata magra, magra come nessun’altra e nessuno avrebbe potuto fare a meno di me. Non potevo più guardare la mia immagine riflessa nello specchio perché quello che ci vedevo era la realizzazione dei sogni dei miei genitori, una ragazza normale che avrebbe sposato un ragazzo mediocre, avrebbe fatto tre figli e sarebbe diventata un baule mentre il marito si faceva un’altra. Non avrebbero mai vinto, li avrei sconfitti e anche delusi e questo mi faceva male ma il piacere stava proprio lì. Insistevano così tanto a dirmi che li deludevo che altro non potevo fare in realtà che accondiscendere al loro peggior desiderio. Tradire le loro aspettative per potermi sentir dire: te l’avevo detto e crogiolarmi nell’incapacità di potergli a mia volta dire: scusate, perdonatemi, aiutatemi. Così avrei potuto deludere pure me stessa completando a meraviglia il cerchio perfetto dell’incomprensione. Ma in questa guerra a senso unico l’unica sconfitta alla fine ero solo io. In questo modo avevo perso la pallavolo, l’unico antro magico in cui ero davvero super, l’orgoglio della squadra, forse un passaggio di categoria, in due anni la serie A. Questo mi aveva promesso, meleggiandomi, il mio allenatore ma i miei non me lo avrebbero mai permesso. Allora meglio perdere tutto per colpa mia piuttosto che farmelo vietare ancora una volta da loro.

Sono confusa. Anna è qui accanto a me è uno straccio mi sa che qualche chilo l’ha perso anche lei.

Adesso provo a parlarle, devo dirle una cosa importante, non vorrei spaventarla, sono due settimane che non apro bocca, spero che non si metta a fare i salti di gioia, che mi creda e che non svenga. Se ce la faccio a far uscire almeno un flebile rantolino, credo di avere le uniche parole che in questo momento la potrebbero far star meglio per me. Adesso mi volto verso di lei e glielo dico, perchè non ce la faccio davvero più, spero che sia l’inizio della fine, sarà contenta anche la psicologa e forse saranno contenti anche i miei genitori, almeno stavolta. Adesso voglio solo ritornare ad alzarmi, a camminare e a giocare, anche senza la serie A. Ricominciare a guardare i ragazzi e farmi guardare da loro e chi se ne frega di quello che pensano, voglio solo ritornare a vivere, a ridere, a scherzare con Anna e a mangiare, perché mi è venuta davvero fame!


 
6
Consumato Latin Lover

Oggi sono triste. Molto triste. Veronica mi ha chiamato al cellulare, maledetto aggeggio infernale e ha detto chiaro e tondo che non vuole vedermi più. E che è inutile mandarle un altro mazzo di rose con le scuse e quattro paroline copiate chissà dove, perché l’ultimo è finito dritto nel cestino dei rifiuti e il biglietto ha fatto il giro di tutti i negozi. E quegli stronzi non vedono l’ora che faccia la mia solita capatina settimanale per potermi prendere tutti quanti per il culo. La settimana passata mi ha visto che facevo lo scemo con Marina, anzi il polipo come dice lei, anzi il polipo e la cozza ha voluto sottolineare. Il problema però non sarebbe stato quello, d'altronde Marina fa la scema con tutti, il fatto è che è capitata lì, proprio in quello stramaledettissimo momento anche Alessia. Alessia è una perbene, di lei ci si può fidare, così dice Veronica. Insomma Alessia ha visto me e Marina e c’è rimasta di merda, così ha attaccato bottone con Veronica, per l’appunto, le due stronze! Inizia a parlare e gli sciorina lì un telenovela, dove chiaramente il personaggio principale è il sottoscritto e gli spiattella tutta la storia. Sono mesi che le faccio il filo, gli mando un mazzo di fiori ogni martedì, certo il lunedì sono chiusi, che gliela meno sul fatto che la differenza di età non conta, Alessia ha ventidue anni, e via avanti con tutte le sdolcinate puntate che ero stato capace di metter su per riuscire a strapparle un’appuntamento. E con le unghie e con i denti ce l’avevo fatta, la data per il mitico incontro sarebbe stata per il prossimo lunedì. A Veronica avevo fatto credere che lunedì c’era la presentazione della nuova collezione in azienda e che non sarei sicuramente riuscito a tornare in tempo nemmeno per una cenetta, l’avrei raggiunta nel suo appartamentino direttamente per il dopo cena. Veronica aveva storto il naso ma alla fine aveva accettato, sarebbe stato un gran bel lunedì. Sarebbe, ma non poi non lo è stato! Alessia va avanti per dieci quindici minuti inveendo contro di me mentre insieme continuano a spiare il primo incontro, un caffè seduti al bar, che dopo la bellezza di otto mesi ero riuscito a combinare con quella strafica di Marina, che sì fa la scema con tutti ma non la da a nessuno me compreso, adesso poi. A quel punto Veronica ha cacciato un urlo, ha messo una mano sulla bocca di Alessia e ha cominciato a vuotare il suo di sacchi spifferandole ogni cosa, ogni cosa di noi due.

Veronica è un anno che sta con me, ci vediamo ogni lunedì, quasi aggiungerei io, abbiamo anche trascorso insieme lo scorso Natale e una meravigliosa settimana a Sahrm, chissà se le ha detto che ho pagato tutto io. Insomma un altro quarto d’ora di storie e poi tutte e due si sono avvicinate al nostro tavolo. È il radar, il radar che non funziona più come una volta, non mi sarebbe mai successo prima. Avrei annusato il pericolo in tempo e sicuramente avrei trovato un modo gentile e di effetto per allontanarmi velocemente dal bar, magari con la scusa di una telefonata in arrivo e un oh cavolo qui non c’è campo, mi faccio vivo io adesso devo andare, e via lontano dai guai! Mi sarei allontanato in tempo e tutto sarebbe scivolato via liscio come sempre. Ma la minigonna di Marina era troppo corta e il radar è andato in tilt. Quando con la coda dell’occhio ho visto Alessia ero ancora abbastanza lucido e la mia mente da calcolatore ha immediatamente rifiutato ciò che vedeva, del resto non poteva essere lei non avrebbe avuto la pausa prima di venti minuti. Quando però ho riconosciuto Veronica i conti non tornavano più, lei l’aveva già fatta la pausa, non facevano in tempo ad aprire che già erano tutte di nuovo a prendere un caffè, non poteva essere lì. Era tutto calcolato, Veronica pausa alle nove e trenta e poi a diritto fino all’una, spuntino veloce e via fino a fine turno. Alessia non faceva pausa fino all’una e un quarto, piccolo pranzo e avanti fino alle quattro del pomeriggio. Marina faceva un lungo break a mezzogiorno e adesso ci stavamo gustando un bel caffè e, prima che Veronica potesse spuntare da qualche parte, nel giro di due minuti mi sarei magicamente volatilizzato facendo credere a Marina che ero io quello da rincorrere. No, non potevano essere loro, decisamente, non in quel momento non… a meno che… come fuoriuscito da un improvviso risveglio mi chiesi che ore fossero e finalmente detti un’occhiata ai numeroni dell’orologio regalatomi da Veronica, appunto, che inesorabili si sostituivano l’uno all’altro senza darmi tregua. Quei traditori maligni e beffardi urlavano un grido che sentivo solo io. Sono le una e ventisette, sono le una e ventisette, sono le una e ventisette! Coglione! Non erano una visione, ero stato io a lasciar scivolare inesorabilmente il tempo lunghi i fianchi di Marina o mentre mi perdevo, affondando gli occhi in quella voragine rosea e soda fra i suoi enormi seni.

Non ricordo più quante me ne hanno dette tutte e tre, ho assolutamente cancellato i miei balbettii e le mie scuse abbozzate, non ero per niente preparato ad affrontare quell’impari incontro che mi vedeva battuto già al primo gong! Alle due ero riuscito ad andarmene dal centro commerciale quasi in catalessi, come in stato di ebbrezza avanzata, ubriaco di tutte le parole che mi erano state rivolte da tre donne che inveivano contro di me contemporaneamente, trentatre minuti di bombardamento serrato. Alessia ha pure alzato le mani, anche se non è riuscita a colpirmi. Ci mancava solo una sberla, sarebbe stata la ciliegina sulla torta della mia peggior umiliazione. Un tempo sarei riuscito a calmarle tutte e tre, mi era già capitato qualcosa di simile anche se non in flagranza di reato. Sarei riuscito a districarmi nella selva oscura delle accuse e me ne sarei andato via con calma ed eleganza e con tre nuovi appuntamenti. Ma in quel momento non riuscivo a pensare che a Veronica, al nostro bellissimo Natale, alle meravigliose vacanze a Sharm e a tutto ciò che improvvisamente vedevo sfuggirmi tra le dita come la sabbia fine del deserto. A tutto ciò che avevo continuato stupidamente a portare avanti solo perché era l’unica cosa che ero veramente capace di fare, vendere. I vestiti o me non faceva nessuna differenza.

Un tempo era diverso c’erano negozi ovunque, nei centri delle città, nelle piazze affollate di turisti, lungo i viali dei piccoli paesi di provincia, ovunque e soprattutto distanti l’uno dall’altro. In quei negozi, negozi veri, ci potevi trovare delle Signore padrone con la esse maiuscola, vere donne, magari un po’ in là con gli anni ma sempre ben tenute, appariscenti e maliziose con qualche ruga in più forse ma con stile, eleganza e con tutta la merce in mostra. E che gran merce, anche senza l’aiuto del bisturi. Adesso solo centri commerciali, negozi uno uguale all’altro, uno di seguito all’altro, una inaugurato dopo un altro che ha chiuso. Dentro ci trovi decine e decine di giovani commesse, tutte belline, tutte carine, tutte con la pancia di fuori e l’orecchino all’ombellico ma quasi sempre senza un argomento in comune con cui attaccare. A prima vista un gran bell’allevamento da cui piluccare avidamente, in realtà un enorme pagliaio da setacciare disperatamente alla ricerca di quell’unico preziosissimo ago. E dire che io quell’ago l’avevo veramente trovato, mi aveva punto con la sua esuberanza ma era affondato in me con la sua dolcezza e la sincerità che facevano di Veronica una donna, una donna unica. Invece ho voluto continuare a rovistare in quel guazzabuglio di ombelichi e mi sono perso nel frastuono incessante delle infinite storie fantastiche che credevo di raccontare a loro ma che in fondo erano rivolte solo a me stesso. Non ero più capace di smettere, anche se dopo che ho incontrato Veronica non ho mai compicciato niente di serio con nessun’altra. Ma non riuscivo a fermarmi e mi rituffavo senza sapere il perché, in quel mondo che mi assomigliava sempre di meno e che forse anche per questo tentavo vanamente di far mio. Cellulari che squillano, sms uno via l’altro, risatine. Ci provi e queste non capiscono o fanno finta di non capire. Oppure capiscono ma non riescono a credere che tu ci stia provando in quel modo, con quell’atteggiamento un po’ rispettoso un po’ paraculo, così antico, antiquato, arcaico, un dinosauro dell’approccio. Sono venticinque anni che mi appresto al primo contatto sempre allo stesso modo, pacato, gentile e raffinato ed ho sempre ottenuto il risultato che mi aspettavo. Ma adesso non funziona più ed ogni sconfitta non ha fatto altro che rafforzare la mia testarda voglia di insistere. Nonostante tutto, nonostante Veronica. Avevo il mio metodo, era sempre stato così semplice, non poteva improvvisamente smettere di funzionare, non potevo e non volevo e crederci.

Mi aveva insegnato il povero Alfredo, pace all’anima sua. Grande venditore e grande scopatore, aveva la mia età quando è morto, un brutto incidente in mezzo alla nebbia, una corsa da un letto all’altro accelerando troppo. Io avevo quasi vent’anni e lui mi portava con se ogni giorno, a imparare il lavoro e a rimorchiare per i paesi della piana del Po. Un po’ di Emilia un po’ di Veneto, una donna in ogni porto, un mazzo di fiori per ognuna, una poesiola, una galanteria e il gioco era fatto. Adesso è cambiato tutto, le donne non hanno più bisogno di romanticherie, vogliono la loro libertà, che le porti in palestra e le vada a riprendere, ma vogliono sudare da sole. Le Signore sono scomparse sostituite da manichini in silicone con le tette tre misure sopra la media e le labbra capaci di contenere quaranta albanesi in fuga. Intorno una masnada di bambinette apprendiste che mentre ti avvicini hanno già fatto il resoconto delle firme che ti porti addosso: scarpe, cintura, orologio, bracciale e adesso devi far vedere pure l’etichetta delle mutande. E io appeso alla mia ciambella ero riuscito a sopravvive in questo oceano inospitale, consolandomi con il ricordo dei miei vecchi successi, facendo la conta di quante ce n’erano state e illudendomi che ce ne sarebbero state altrettante, anche se gli ultimi due anni erano stati davvero di magra. Alla fine ne avevo trovata una, o forse era lei che aveva trovato me. Questo tanto desiderato incontro mi aveva dato nuova carica ma invece che lasciarmi avvolgere dalle strane sensazioni che intorpidivano e beavano il mio corpo e la mia mente, ho utilizzato quella carica nel solo modo che mi si confaceva, riprendendo la caccia con rinnovato vigore. Non ho combinato un bel niente ma ogni giorno sprecavo inutili ore attaccato a labbra, a seni, a gambe che non avrei mai toccato ma che sentivo di non poter smettere di inseguire. E dopo tutto questo mi sono ritrovato nel più banale dei finali, accorgersi di quanto valeva davvero per te quello che hai appena perduto.

Ma oggi sono triste. Molto triste. Veronica mi ha chiamato e ha detto chiaro e tondo che non vuole vedermi più. Un tempo sarebbe stata una liberazione, in fondo un rapporto troppo lungo impediva di poterti dedicare con le dovute attenzioni alle relazioni che stavi coltivando. Uh, quante mi hanno lasciato e quanti sospiri di sollievo ho tirato subito dopo aver finto un disperato tentativo di riavvicinamento. Quelle che ti lasciavano erano le migliori, erano quelle che se ti ripresentavi dopo sei mesi, andavi a colpo sicuro e poi… addio! Metodo Alfredo, metodo sicuro. Mi ricordo ancora la scenata di Denise, ferma e impettita sulla soglia del suo negozio a urlare e gesticolare come le riusciva tanto bene, con tutta la piazza a guardare prima lei e poi me, sorridendo soddisfatta di quel nuovo pettegolezzo da far circolare. Con Denise ho trascorso altre tre magnifiche serate sfrenate con precisa cadenza semestrale, metodo Alfredo, metodo sicuro. Poi sono io che sono diventato sempre più insicuro, fino a Veronica fino a credere che tutto fosse come prima, fino a non capire che ero io il primo a non volere che tutto fosse ancora come prima. Mi è mancato quell’attimo, quello in cui concepisci e capisci, senza rinnegare il passato, che giusto o sbagliato, è e rimarrà meravigliosamente passato, senza alcun obbligo di continuare a viverlo. Abbandonarlo con un saluto e senza rammarico, gettarsi attraverso il presente in quello che il futuro ti vorrà regalare. Ma io ho voluto continuare a vivere la vita di Alfredo, proseguire da dove lui era stato costretto ad interrompere, per vivere quella parte di vita che gli era stato impedito di continuare, per dimostrare che ero grande quanto lui, che valevo quanto avrei voluto dimostrargli di valere quando era ancora in vita. Per quello che mi aveva insegnato, per ciò che avevo imparato. Ma poi realmente cos’era tutto ciò che avevo vissuto? A quale lezione avevo assistito? Quali regole e soprattutto per quale fine se adesso, un passo dopo la parola fine, mi ritrovo da solo. Solo, dopo aver vissuto ogni momento in funzione del passato, non guardando mai avanti. Mentre invece, se soltanto avessi alzato lo sguardo, avrei potuto scorgere un attimo della mia vita e forse, con la sua mano nella mia, avrei potuto vedere accanto a me Veronica.


 
5
La Vigna

Ancora non riesco a credere che sia successo veramente, ormai anche i brutti sogni si sono fatti così rari da farmi dimenticare quel giorno tremendo, ma i primi tempi… oddio i primi tempi è stato tutto veramente un incubo. Come quelli che tre o quattro volte per notte mi facevano svegliare di soprassalto, urlando dalla paura e talmente sudato da avere l’impressione di essere ancora là, dieci metri sotto il livello del mare intrappolato nella fusoliera squarciata di quel maledetto aereo. Per fortuna ci portarono in salvo talmente lontano da casa da costringerci a prendere nuovamente un aereo per tornare in Italia, altrimenti, ancora a distanza di un anno, non so se avrei il coraggio di rimettere piede dentro a quel tubo di acciaio così imponente ma allo stesso tempo così delicato. Abbiamo fatto di tutto per dimenticare, sia io che Giulia mia moglie e dopo tutto questo tempo e un po’ di aiuto medico, finalmente invece possiamo ricordarlo. Almeno noi possiamo ricordare e parlarne, gli altri no, gli altri sono quasi tutti morti. Ci siamo salvati solo in diciotto e ancora non riesco a capire come e perché.

Scrivo adesso perchè solo ieri ci siamo rivisti tutti insieme, ad un anno esatto dalla tragedia. Abbiamo parlato un po’ anche delle beghe penali e civili, di tribunali e avvocati, ma in fondo non era questo quello che interessava a tutti noi, tanto fra un paio di mesi comincerà il processo vero e proprio e in quell’occasione avremo modo di incontrarci ancora ma ci saranno altre cose di cui parlare, altre da dire ed ascoltare, diversa sarà l’emozione per i motivi più terreni che ci porteranno là insieme a i parenti di quelli che non ce l’hanno fatta. E allora sarà ancora più dura, vedere quei volti disperati di madri, figli, fratelli e sorelle che ci guarderanno con odio e rammarico, a loro modo invidiosi del fatto che noi siamo sopravvissuti e i loro cari no. Saranno lì a sperare di vivere un brutto sogno da cui risvegliarsi accanto alle persone che amano e compiangere indifferenti la nostra stupida, inutile morte. Sarà uno straziante e drammatico modo di ritrovarsi, ieri invece è stata una celebrazione, quella della nostra rinascita.

Abbiamo pregato, per noi, ringraziando del grande dono di questa seconda vita e per i centocinquantadue che non ce l’anno fatta, per i quali speriamo ce ne possa essere un’altra ovunque sia, luminosa ed eterna. Abbiamo riso qualche volta, anche se all’inizio la tensione rendeva l’aria quasi solida, impenetrabile a qualsiasi emozione, poi sono stati come sempre i bambini, Filippo ed Elena, a rompere il ghiaccio, felicissimi di essersi ritrovati, di poter giocare a rincorrersi intorno al tavolo al quale i grandi, come sempre, parlavano di cose troppo serie e barbose per loro. Abbiamo pianto molto ma non è stata una cena di disperati era una riunione di fortunati, di scampati, di persone che da allora hanno dato alla vita un valore completamente nuovo e diverso da quello di un tempo. Tutti tranne i piccoletti, forse loro hanno davvero dimenticato, non solo accantonato quel tremendo giorno di agosto. Hanno giocato tutta la sera insieme divertendosi con niente altro che loro stessi e un paio di sedie e a un certo punto ho avuto un brivido di terrore che mi ha catapultato nel passato, per un attimo mi è parso che avessero avvicinato le sedie l’una all’altra e fingessero di essere i piloti di un areoplano. Fra tutte sono proprio le loro facce che non potrò mai dimenticare, incastonate dentro ai giubbini di salvataggio, occhi sgranati, bocche spalancate e urlanti, illuminate dalla luce della vita, il sole della rinascita che stavamo per intraprendere, il faro abbagliante e caldo dell’elicottero che ci stava venendo a salvare.

Era un volo charter, come ce ne sono migliaia ogni giorno in ogni momento, il numero non mi è mai voluto entrare in mente, nonostante l’abbia letto e riletto un milione di volte. Sui giornali, sulle carte processuali, sui referti della polizia marocchina e di quella spagnola. Era il volo non mi ricordo, un charter come tanti altri e come alcuni altri a un certo punto è venuto giù, le sue grandi ali argentate hanno smesso di sbattere, come quelle di un airone colpito a morte da un inconsapevole cacciatore. Cedimento strutturale del meccanismo di iniezione. Questo è stato il verdetto degli esperti e se il tribunale lo confermerà o no sarà il punto di partenza di tutte le cause civili possibili ed ipotizzabili che ne deriveranno, trascinando all’infinito il tormento dei parenti, nel ricordo di quei momenti inutili e delle immagini strazianti che li accompagneranno per sempre nelle loro menti al posto dei sorrisi degli abbracci e degli attimi vissuti assieme. Tutte quelle briciole di vita che per ognuno di loro avevano un significato, cancellate da un tuffo nel mare profondo.

In parole povere l’aereo era talmente usurato e malandato che non ce l’ha fatta più, i motori si sono spenti e tanti saluti a tutti. Noi oltre a tutta la fortuna del mondo ed alla grazia infinita di Dio, dobbiamo la nostra vita al buon caro Ahmed, che ha avuto la forza e la freddezza di riuscire a far planare quel bestione fino ad un pelo dal mare. A dire la verità il nome sarebbe molto più complesso ma come tutti i nomi musulmani tiene celato in mezzo a se qualcosa che fa riferimento a Dio, Halla, che alla fine dopo mille distorsioni e variazioni si risolve in un semplice Ahmed, che guidi una carovana nel deserto o un bestione di acciaio tra le dune dei cieli. Questo suo dono divino gli ha dato il sangue freddo di ragionare anziché disperarsi, io avrei indossato il paracadute in fretta e furia per gettarmi dal finestrino all’insaputa di tutti e chi s’è visto s’è visto. Per fortuna io lavoro da uno spedizioniere, non potete nemmeno immaginare quanta merce faccio volare ogni giorno, ma non guido io, ci sono migliaia di Ahmed che sanno quello che stanno facendo e il nostro lo sapeva, decisamente sì. Aveva cominciato la manovra mezz’ora prima che il peggio accadesse ed ha fatto quello che gli è stato possibile per cercare di salvarci tutti, lui compreso e c’era quasi riuscito. Se avesse guidato un aereo un po’ meglio tenuto sarebbe andata diversamente ma quel catorcio nonostante il pilota abbia effettuato un perfetto atterraggio scivolando sull’acqua, come tutti abbiamo avuto la sensazione, tanto che qualcuno ha pure abbozzato un applauso un minuto prima di venire inghiottito dal mare, si è spezzato in tre ed è finito il putiferio. Un attimo di silenzio, dopo i minuti interminabili e colmi di grida di aiuto, di urla strazianti di facce impaurite che hanno accompagnato quella lunghissima discesa da aliante e poi è accaduto ciò che di più spaventoso può turbare gli incubi insicuri di una notte agitata. Chi non ha mai sognato di cadere? Ma la fantasia ha il buon gusto di fermarsi un istante prima dell’inevitabile facendoci svegliare sudati e ansanti nel buio confortevole di una camera. Noi abbiamo vissuto tutto quello che nei sogni turbati dal polpettone, dai rimproveri del capo, dalle ansie d’amore viene evitato, abbiamo concretizzato l’incredibile completando i sogni interrotti di tutti, un attimo di silenzio e poi è cominciato il finimondo.

Eravamo partiti da Marrakech alle 17.35 stanchi e accaldati, dopo una settimana di tour nel meraviglioso entroterra marocchino, con i suoi colori ed i suoi profumi inconfondibili, una breve visita alla ultime propaggini sabbiose di Sahara e per finire il meritato riposo, una settimana di mare ad Agadir in un villaggio piccolo ma piacevolissimo dove ci eravamo divertiti un mondo creando una compagnia spassosa, come riesce sempre facile in occasioni come queste. Una valida alternativa alle pesanti nebbie mattutine che impedivano di abbronzare e ci costringevano a passare ore e ore infagottati fra parei e asciugamani imbronciati e infreddoliti sulle nostre sdraio ma imperterriti ogni mattina e alle fredde, no meglio dire gelate acque dell’atlantico dove solo alcuni bambini e pochi intrepidi bagnanti si inoltravano per una nuotata, solo moto d’acqua e surf per i turisti stranieri. Il mare però non rimaneva solitario e malinconico, era pieno di famiglie di marocchini in vacanza, torme di bambini schiamazzanti e gruppi di ragazzi e ragazze come su ogni spiaggia del mondo.

Sull’aereo c’era tutto il gruppo, i più pazzi erano sicuramente Sandra e Carlo, due tipi incredibili di Urbino, sempre a fumare, dalle sigarette ai sigari fino ai rarissimi narghilè con quanto era possibile e legale metterci dentro, la piccola Elena la loro figlia, costretta a fare da padre e madre ai due sgangherati genitori che si ritrovava, in fondo però una famiglia felice. Si volevano molto bene e si vedeva e se ne vogliono ancor di più ora dopo essere risorti tutti assieme dalle acque. Sull’aereo occupavano la penultima fila di sinistra. Poi c’erano Mirko e Paola di Milano, bancari e con un po’ di puzza sotto il naso ma simpatici. Con loro viaggiava Filippo, il figlio, un signorino di nove anni, uno più di Elena, pirla era la parola che più di ogni altra usciva da quella sua boccaccia ma ogni volta che la apriva erano risate assicurate. Ogni mattino si presentava in spiaggia con una tenuta diversa, sempre tutto in tinta, dalle ciabattine al cappellino, per non parlare poi degli occhiali da sole, credo di avergliene visti almeno tre paia diverse al giorno, forse aveva una valigia solo per quelli, ogni volta che rientrava in camera se ne usciva con un paio nuovi, naturalmente sempre in tono con la mise del giorno.

Come ti cambia la vita e quello che ti fa passare, si sono licenziati entrambi, hanno venduto tutto ed hanno aperto un agriturismo vicino a Bolgheri, l’anno prossimo trapianteranno dei filari di vite. Quel giorno saremo sicuramente tutti là a fare i provetti contadini, chissà quante ne combineremo e chissà Filippo ed Elena cosa si inventeranno tra polli, galline e maiali. Comunque faremo del nostro meglio, soprattutto quando sarà ora di pranzo, ci delizieremo con qualche leccornia arrostita sull’aia e un buon bicchiere o forse due di Sassicaia dalla vigna del vicino, un assaggio di quello che le nostre mani vorrebbero poter ottenere con quella di Mirko e Paola.

Loro occupavano la penultima fila di destra, Filippo aveva il posto vicino al corridoio dall’altra parte a far casino con lui, come sempre, una spumeggiante Elena. Dietro c’erano Antonio e Lisa, i fidanzatini, i più giovani del gruppo, allegri e spassosi in ogni situazione. Erano stati un po’ l’anima della vacanza, Antonio trovava sempre qualcosa di divertente da fare ogni volta che la stanca e la fiacca si facevano sentire. A Marrakech aveva rubato un cammello in piena piazza Jem el Fna e quella volta ce la siamo davvero vista brutta, tanto che c’è voluto l’intervento di tutto il gruppo per far capire alla guida che era solo uno scherzo senza malizia e questa a sua volta a dovuto convincere il cammelliere, tra parentesi ci è costato cinque euro a testa che non abbiamo assolutamente voluto indietro, quando lo spettacolo è avvincente e spassoso merita il suo prezzo. A Rabat era riuscito a far spogliare una guardia per farsi fare una foto in divisa davanti al mausoleo a Mohammed V, qui non ci avrebbe salvato nessuno, se qualcuno ci avesse scoperto saremmo finiti tutti quanti a spalare sabbia a vita nel Sahara. Lisa avrebbe ballato anche senza musica, a dire la verità ogni tanto lo faceva, ed era capace di coinvolgere tutti quanti nel suo sfrenato dimenarsi, ha fatto ballare persino me che conto i passi anche per camminare, Giulia ha detto che pur di abbracciare una ragazza giovane come Lisa avrei danzato anche con tutù e scarpette, la solita maligna. Ultima fila lato destro, Antonio al finestrino a fare la telecronaca della trasvolata, quando non era in piedi a coordinare le operazioni di divertimento, Lisa accanto a lui e poi Giulia, con i suoi occhi luminosi e il suo meraviglioso sorriso a sminuire qualsiasi panorama si potesse godere da quell’altezza.

Dall’altra parte del corridoio io a guardare Giulia tutto il tempo. Accanto a me il mio fratello di vacanza Lucio, scapolo, ragioniere, sfigatissimo. Ci siamo trovati e ci siamo piaciuti, a dire il vero i primi giorni ho temuto fosse gay, poi l’ho trovato in camera mia a scopare con Fabiola maestra elementare di Catania, siciliana verace e caliente, pelo ovunque in abbondanza ma veramente bella. Lucio è di Trieste ma con Fabiola si sono già incontrati diverse volte da Mirko e Paola e se tanto mi da tanto ci sarà presto un trasloco, almeno appena a Fabiola daranno il trasferimento in Toscana, tanto Lucio ha già il posto assicurato, receptionist e tuttofare all’agriturismo “La Seconda Vita”. Lucio era sfigatissimo ma la sfortuna questa volta l’ha lasciata a casa, definitivamente. Siamo tutti convinti che se ci siamo salvati è proprio grazie a lui, il suo incontro con Fabiola gli ha tolto di dosso tutte le maledizioni che si portava dietro e gli ha regalato l’amore, l’allegria e una nuova vita. Tipico scapolo, non single, perché i single sono sempre alla moda, ballano, bevono drink e scherzano, lui invece era proprio il tipico scapolo che vive da solo in una casa troppo grande per le sue esigenze. Ha indossato lo stesso completo per l’intero tour, bermuda kaki maglietta beige, almeno fino al terzo giorno e gilet mimetico milletasche con infilato dentro tutto l’armamentario per la fotografia. Una persona perbene, molto colta con i piedi piantati per terra ma un sacco di fantasia che fino ad allora riusciva a materializzare solo con le foto. Fabiola ne è stata affascinata fin dal primo giorno, d’altra parte Lucio è un bell’uomo solo che la sua troppa esagerata timidezza gli aveva tarpato le ali fino a convincerlo di essere senza speranza. Fabiola aveva preso la sua timidezza, la vana speranza e la sfiga, ne aveva fatto un fagotto e l’aveva gettato nelle nebbie dell’atlantico il secondo giorno ad Agadir e visto che come ha raccontato poi, lui non la baciava allora ci ha pensato lei.

Lucio viaggiava con l’amico Marino, professore di Inglese alle medie in un paesino vicino Trieste, lui si che era single, si porta a spasso Lucio per attirare le donne e poi colpisce come una zanzara, zac! Adesso dovrà mettere la testa a posto o trovarsi un nuovo compare. C’era lui nella loro camera a scopare con Maria quel giorno, per questo Lucio si era infilato in camera nostra a mia insaputa, perché loro dicono di no ma sono sicuro che Giulia era al corrente di tutto, chi altri avrebbe potuto dargli le chiavi epoi lei è sempre stata un inciuciona, avrebbe fatto carte false pur di metterli insieme e alla fine c’è riuscita. Anche Maria è di Catania, anche lei è maestra elementare, anche lei ha pelo nero ovunque, specialmente sotto il naso ma al contrario di Fabiola non è una gran bellezza, per lo meno a mio modesto parere. Fabiola era seduta accanto a Lucio una parola a noi un occhio al finestrino. Marino e Maria sedevano sulla sinistra davanti a Mirko e Paola, erano impegnati a lasciarsi dopo l’avventura estiva, più che altro era Marino che scaricava Maria, in realtà non si sarebbero mai lasciati perché prima di arrivare alla rottura del loro rapporto si è spezzato in due l’aereo e non hanno mai più avuto necessità di dirsi niente in merito, si sono allontanati piano piano e adesso sono due buoni amici, almeno quando sono in gruppo con noi. Giulia mi ha assicurato che ogni tanto si vedono, lui è cambiato molto dopo quanto è accaduto e anche se continua a fare lo scapolo impenitente in quel di Trieste si è legato moltissimo a Maria. Se lo dice lei sicuramente è la pura verità, io come al solito nel campo degli intrighi amorosi non riesco mai a vedere cosa succede sotto al tavolo.

Accanto a loro sedevano Vincenzo, Beatrice, Gianna e Fausto. Sono di Roma, tutti impiegati in varie aziende, non erano con il nostro tour, li abbiamo conosciuti al villaggio e come accade spesso abbiamo legato con loro solo gli ultimi giorni, quando hanno smesso di parlare solo di lavoro e si sono messi a giocare con noi ai turisti. Fu Giulia a promuovere l’idea di sedersi nelle ultime file, da li avrebbe dominato tutto lo spazio visivo disponibile, dentro e fuori dall’aereo. Aveva salvato Lucio dalla sfiga cronica, facendolo innamorare di Fabiola e ha salvato tutti noi da una tragica fine. Solo diciotto persone sono scampate, le ultime tre file di quello stramaledetto volo charter Marrakech Roma.

Avvertii un forte sobbalzo, feci finta di non considerarlo con quella superiorità strafottente di chi ha gia volato e non fa più caso ai vuoti d’aria e con la coda dell’occhio si guarda intorno per vedere chi ha avuto paura e si fa grosso della sua sicurezza. Dieci minuti dopo me la sono fatta sotto dalla paura e non è un eufemismo, sentii il seggiolino scaldarsi e inumidirsi poi non ci fu più il tempo di fare niente. Non era un vuoto d’aria, era il motore di destra che ci stava salutando. Hostess e steward cominciarono a correre su e giù per il corridoio, si accesero le luci che invitavano ad allacciare le cinture di sicurezza e avvertivano di non fumare, anche il motore di destra aveva deciso di smettere di fumare, mai saggia decisione fu presa in un momento meno opportuno. Dopo dieci minuti l’andirivieni delle hostess cominciava a creare un po’ di disturbo nella maggior parte dei passeggeri, il panico stava per scatenarsi. Passarono altri cinque minuti e ci fu un nuovo sobbalzo molto più forte del primo, il motore di sinistra stufo di sobbarcarsi l’intero lavoro era andato a fare compagnia a quello di destra nella zona non fumatori. Guasto al meccanismo di iniezione, così fu rilevato dall’indagine che seguì al disastro, nonostante il pieno il serbatoio si rifiutava di passare il carburante ai motori, che indispettiti e permalosi decisero di spegnersi. In quei quindici minuti il mitico Ahmed, il suo Dio l’abbia in gloria, era riuscito a scendere dalla quota di crociera di quasi diecimila metri a meno di duemila ed aveva dimezzato la velocità. Il miracolo però lo compì riuscendo ad abbassarsi ancora a motori spenti, planando vertiginosamente senza mai precipitare. Lui ci ha salvato la vita, diciotto vite ed è ha donato la sua.

Dopo che si fu spento il secondo motore l’aereo cominciò a pendere verso la punta ma Ahmed riuscì a non farlo piegare da nessuna parte, a quel punto tutti avevano capito quello che stava accadendo e scoppiò il finimondo. La gente urlava e si dimenava, noi urlavamo e ci dimenavamo, poi improvvisamente Antonio ci gridò di prendere i giubbotti salvagente sotto i sedili e di restare con le cinture di sicurezza allacciate. Chi gli avrà mai regalato tutto quel sangue freddo, tanto da poterlo trasmettere anche a noi che come bravi soldati ipnotizzati ubbidimmo all’ordine. Vedevamo il mare avvicinarsi rapidamente, troppo rapidamente, erano le 19,35 il sole era basso dietro di noi e rendeva incredibilmente luccicante quel mare dorato dentro il quale stavamo per tuffarci indesiderati e senza desiderarlo.

Le maschere per l’ossigeno oscillavano come tanti pendoli impazziti penzoloni al soffitto dell’aereo, chi sveniva, chi vomitava, chi urlava e noi impietriti dall’ordine perentorio di Antonio avevamo indossando i giubbetti salvagente come tanti stupidi idioti ad una prova di evacuazione, come se non stesse succedendo realmente.

Lo schianto fu tremendo il contraccolpo ci frustò tutti ben bene, spezzandoci la schiena vertebra per vertebra, il rumore fu assordante e mentre il mondo stava finendo Antonio gridò di sganciare le cinture. L’aereo si spezzò in due, l’acqua e la violenza dell’urto spazzarono via le file davanti a noi. La fusoliera rimbalzò sull’acqua e si infilò a capofitto nel mare in un tempo infinitamente breve, portandosi dietro il suo carico di vite legate ben strette con le cintura di sicurezza. La parte posteriore fece pressappoco lo stesso ma quando andò ad infilarsi nel mare non aveva una punta con cui farsi largo, l’acqua entrò fino a poche file da noi, travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontrava, la coda rimase immobile per qualche secondo poi si ribaltò completamente prendendo ad inabissarsi all’indietro mentre noi già cominciavamo a muoverci verso l’incredibile buco che si era aperto sull’azzurro scuro di quel tramonto estivo. Io e Lucio scattammo nel corridoio prendemmo su i bambini e cominciammo a correre prima che la risalita lungo il corridoio divenisse troppo ripida. Elena in braccio e Giulia a farsi trascinare per mano urlante e impaurita quanto me. Abbiamo scalato quei pochi metri arrancando fra i detriti, siamo arrivati uno dopo l’altro a conquistare la cima di quella montagna metallica per buttarci in mare e nuotare più veloci possibile. Poi tutto è svanito nel mare agitato risucchiando anche alcuni di noi sott’acqua, ci siamo legati gambe e braccia tutti assieme e abbiamo resistito al vortice che voleva travolgerci con in avido gorgo finale. Poi abbiamo pianto, abbiamo gridato, abbiamo sofferto freddo e abbiamo avuto paura, tanta paura tantissima.

La cosa magica é che sia Filippo che Elena hanno recuperato i loro piccoli bagagli personali, gli unici capitati a portata di mano nel convulso momento della riemersione li ha ritrovati entrambi Antonio. Chi altri poteva essere capace di un prodigio come questo.

I primi soccorsi sono arrivati dopo due lunghissime ore in balia del mare, impauriti, felici, increduli, uniti. Stavamo abbracciati per riuscire a scaldarci tutti con il contatto dei corpi e per tenere i bambini all’asciutto sopra di noi, non so quanto ancora avremmo potuto resistere ma non ce ne fu bisogno. Il resto è scritto su tutti i giornali, su i referti della polizia e sulle carte processuali, ma da nessuna parte sta scritto come è potuto accadere, quante infinite combinazioni inimmaginabili ci hanno portato intorno ad un tavolo ieri sera. Nessuno di noi riesce a capire come abbiamo fatto a scampare a quel disastro, nessuno crederebbe mai di poter rivivere quei momenti, quegli attimi pieni di decisioni e di istinto che ci hanno portato in salvo.

La vita davvero è un soffio leggero che quando lo senti è già passato. Amate, amate voi stessi e chi vi sta intorno, chiunque esso sia, la vita è troppo meravigliosa e breve per perdere tempo a preoccuparsi. Costruite e amate. Amate e lasciate qualcosa dietro di voi, un figlio, un libro, un sorriso o una vigna.


 
4
Caro Diario


Giovedì 7:
Stasera mi ha davvero umiliata. È un mese che continua a ripetermi le solite storielle. Che devo stare tranquilla, che adesso le parla, che ormai è arrivato il momento di chiarire tutto e che nemmeno lui ce la fa più a sostenere lo stress dei nostri sotterfugi. Vorrebbe vivermi alla luce del sole, andare in centro tenendomi per mano, ridere e scherzare davanti ad una tazza di caffè, mentre il mondo ci gira intorno incurante di noi e del nostro folle, stupendo, meraviglioso amore. Amore. Sì ma quale amore, se solo dopo che l’abbiamo fatto mi ha confessato che non le ha ancora detto nulla.
Non c’è stato il modo, non il momento, non il luogo adatto per poterle dire con tranquillità tutto quello che da mesi si tiene dentro. Tutto, tutto di noi, che abbiamo un futuro insieme, che abbiamo interessi in comune, che vogliamo le stesse cose e vogliamo farle in due, noi due. Ma quale noi due è possibile se continuiamo a trascinare inutilmente questo rapporto senza dargli la possibilità di esprimersi e di farsi valere. Lui prima però doveva soddisfarsi, il porco e solo dopo che ha fatto il suo comodo mi ha tirato la mazzata, mentre ancora mi beavo di noi, volata dritta al settimo cielo a cullarmi dentro stupide fantasie da ragazzina, piene di giri intorno al mondo mano nella mano.
Non le ho parlato e adesso non è nemmeno il momento di farle capire niente… questo ha saputo dirmi dopo che avevamo fatto l’amore. Non ho potuto dargli modo di continuare, quelle parole mi hanno risucchiato dal mio mondo di inutili sogni per scaraventarmi violentemente a terra. Nel tempo che a lui è occorso per sgranare gli occhi e spalancare la bocca per assumere quell’espressione da ebete sorpreso, io mi sono alzata, lavata, vestita e l’ho lasciato da solo in quella squallida camera, sporca di sesso delle centinaia di stupidi come noi, come me, che vanno lì a cercare chissà cosa ed escono senza aver trovato niente. Non voglio vederlo, non voglio più vederlo ne sentirlo e voglio scordarmi che esiste e che sia mai esistito.

Venerdì 8:
Oggi mi ha mandato ventisette messaggi. Ah, oggi si preoccupa per me, perché non se ne è preoccupato ieri sera o il giorno prima magari e preoccupandosi per me, perchè non ha detto tutto a sua moglie, anzi alla sua padrona. Fabio fai questo, Fabio fai quello, portami qui, portami là e non lasciarmi per un'altra! Ce la vedo con quei capelli da strega, rossi come il fuoco di notte, tutti arruffati, ma non si pettina mai? Sembra ci sia passato in mezzo un gatto rabbioso che rincorre il suo topo. Se mi capita a tiro gliela faccio vedere io la rabbia, uno a uno gli strappo quei capelli, sempre che non sia una parrucca, così mi rimangono in mano tutti insieme e non ci penso più.
Ventotto. Ti amo, ti penso, mi manchi, sii paziente. Perché continui a prendermi in giro? Adesso spengo il telefono e faccio finire questa tortura.

Sabato 9:
È uno stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo! Tanto lo so che non la lascerà mai. E’ inutile che continui a mandarmi messaggi. Perché non la smette, non posso nemmeno accendere il telefono che subito comincia a fare quel dannato beep beep. Non lo voglio, non ci voglio pensare, non voglio pensare a niente, stasera mi spengo e non ci sono per nessuno, nemmeno per me stessa. Adesso chiudo anche questo stramaledetto diario pieno di tutti i momenti meravigliosi che ho passato con lui, di tutti i sogni che poi immancabilmente si sono trasformate in sadiche illusioni. Sono andata a rileggere quello che ho scritto il cinque del mese passato, era sabato e la strega era andata al paese dalla mamma. Certo che quando vuole, e soprattutto può, sa come fare a rendermi felice. Lago, passeggiata e amore intenso fino a notte fonda, poi però tremendo rientro in città e separazione.
A pensarci bene però quando mi ha lasciata sola sul marciapiede davanti casa, lì per lì ero al settimo cielo, ma adesso mi rivedo triste, chiusa nel mio vestitino bianco, strinto all’inverosimile che si sarebbero potute vedere le mutande se Fabio non me le avesse strappate a morsi. Stava cominciando a piovere io guardavo la sua nuca nel riquadro del finestrino posteriore dell’auto che si allontanava, i fari rossi mi accecavano un po’ ma davano al tutto quell’alone di mistero che in quel momento mi faceva sentire parte di un intricata trama da film di spionaggio. Noi eravamo i buoni e la facevamo alle spalle della cattiva. Adesso mi guardo, ferma sul marciapiede, come se fossi una qualunque automobilista che attraversava l’incrocio nel buio di una sera piovosa qualunque e vedo una donna in punta di piedi che saluta verso il niente, verso nessuno e mi sembra ridicola. Misera e ridicola. Illusa, misera e ridicola. Eppure quella sera sono stata davvero bene, mi ha fatto sentire come se fosse un giorno qualunque di una settimana di un tempo infinito, senza che dovessimo partire, senza dover tornare, come se fossimo noi sempre e comunque e mi ha fatta sentire amata.
È uno stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo! Ma io sono completamente, totalmente, maledettamente innamorata di lui e in questo momento non sono in grado di riuscire a veder chiaro nella nostra situazione. Lascio il telefono spento. Domattina lo riaccenderò e con calma mi rileggerò i suoi messaggi, con estrema calma, senza farmi prendere dall’orgoglio e dalla rabbia. Non posso rischiare di perdere tutto questo per colpa mia

Domenica 10:
Cazzo vuoi rispondere! Questo è stato l’ultimo messaggio che mi ha mandato ieri sera. Alle nove e quarantacinque. Probabilmente era nel bagno di qualche ristorante del centro, uno di quelli in cui non mi può portare. Avranno mangiato a lume di candela o magari insieme ad altri amici, come noi non facciamo mai. E poi tornati a casa avranno fatto l’amore. Anche se a me dice che non lo fanno più. Ma a questo punto non so più se credergli o no.
Adesso provo a chiamarlo.
Non risponde! Deve essere insieme a lei chissà dov’è. Oggi è una meravigliosa giornata di sole, saranno andati al lago o magari sono in qualche centro commerciale a fare shopping. Sì, dev’essere così, la sanguisuga gli starà spillando un po’ di soldi e lui per non farla arrabbiare striscerà quella cartina in silenzio. Beh, che questo silenzio almeno gli porti consiglio e si renda corto che lei lo sta solo consumando senza dargli un briciolo di amore. Io invece se lo avessi per me ventiquattr’ore al giorno tutti i giorni saprei come farlo stare bene, come coccolarlo, come lasciarlo divertire insieme e me. Ma come fa lui a non capire e a non prendere il toro, anzi la vacca per le corna e spiattellargi in faccia tutta la verità. Sarebbe così semplice. Io non ti amo, amo un'altra, fra noi è finita, addio. Poi sarebbe un gran casino ma almeno sarebbe un punto di partenza.
Chissà cosa stanno facendo adesso. Io non riesco più nemmeno ad annoiarmi davanti alla televisione. In ogni programma non fanno altro che parlare di amore, di coppie che si lasciano e si prendono, di sesso, di quanto fa bene, che tutti lo fanno o che nessuno lo fa. E a me non rimane altro che uno stupido telecomando che non ubbidisce ai miei desideri. Puff. E lei non c’è più. Puff e lui e tutto per me. E ci andiamo noi in centro a mangiare a lume di candela. Continua a non rispondere, questo vuol dire che è sicuramente con lei e che se lo sta tenendo ben stretto. Mi sa che questa volta ho esagerato. Cavolo l’ho lasciato lì come un pesce nel secchio, senza alcuna possibilità d’uscita. Me la sono filata, un po’ da codarda a dire il vero, anche se ero così incazzata che se fossi rimasta lì avrei detto e fatto cose di cui poi mi sarei sicuramente pentita, ma almeno avremmo parlato. Sicuramente lui aveva qualcos’altro da dirmi, certo non poteva essere solo … sai non le ho ancora detto niente! Magari era, non le ho potuto dire niente ma… e poi magari qualche notizia positiva. Il piano B! Le spie hanno sempre un piano B a portata di mano, qualcosa da studiare e organizzare assieme. Invece l’ho piantato in quella misera stanza da solo. Certo qualcosa doveva esserci sicuramente altrimenti non mi avrebbe mandato ventisette, no ventotto messaggini a dire il vero ventinove ma l’ultimo non lo prendo in considerazione, a quel punto doveva essere veramente arrabbiato. Sono stata una stupida. Scema scema scema scema, ma come ho potuto perdere il controllo in questo modo.
Ho provato di nuovo ma non risponde. Sarà meglio che spenga la televisone, ovunque giri ci sono solo immagini di gente che si abbraccia, che si ama e che sta facendo l’amore. Non ho proprio voglia di morire d’invidia in questo momento.
Non risponde non risponde. Maledizione. Ho combinato un bel casino, adesso chissà se lui vorrà ancora un’isterica come me. Ti prego rispondi, ti prego rispondi! Niente, l’utente da lei amato non è al momento raggiungibile. Speriamo possano raggiungerlo almeno i miei pensieri e lo riportino da me. Non me ne importa niente se sta ancor