SIKH PANTH
SIKH PANTH

SIKH PANTH

1522 – …

Intorno al 1500 prende vita l’ultima grande religione originale, proprio nel cuore di quel territorio che cultura e fede ha disperso per tutto il mondo fin dalla notte dei tempi. Anche se più volte è stata ritenuta null’altro che sincretismo fra la fede Hindū e l’Islam, la Sikh Panth ha in comune con l’Hinduismo il concetto di rinascite del Samsāra e con l’Islam l’unicità di Dio, per il resto le similitudini sono le stesse che si possono trovare nei raffronti fra ogni tipo di religione e che in definitiva manifestano soltanto l’eterno e infinito desiderio dell’uomo di dare significato e senso alla propria esistenza, quasi sempre nel tentativo di rispondere alle primeve domande: Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e soprattutto perché? La Sikh Panth ha invece la caratteristica di andare oltre liberandosi dalle catene di questi ancestrali interrogativi.

Il periodo storico in cui questa nuova ideologia prende forma è molto particolare e da esso ne rimane profondamente influenzata. Il territorio del subcontinente Indiano vede il consolidamento del potere Islamico, con la conseguente forzata conversione e la distruzione di icone e templi Hindū, dall’altra parte si vive un decadimento dell’Hinduismo sia in termini spirituali che materiali con l’accentramento del potere religioso ma soprattutto politico nelle mani dei Brāhmaņi. Proprio in contrapposizione dell’uso e abuso della religione in termini politici si diffonde la ricerca, a livello personale, di verità che traccino una connessione fra l’umanità e Dio. Si rivelano così su tutto il territorio Indiano presenze individuali che conducendo una vita ascetica, predicativa e non violenta cercano di ricucire quello strappo con la fede, qualunque essa sia, creatosi a causa della riduzione al semplice reiterarsi di riti per il culto Hindū, dell’estremismo violento e oppressivo per l’Islam e dell’arrivo sulle coste indiane dei primi coloni Cristiani che predicano una povertà in terra che mal corrisponde con l’opulenza e l’avidità dei suoi rappresentanti.

Il sentimento che si va diffondendo cerca un legame diretto fra l’umanità e Dio, un Dio supremo che non ha bisogno di manifestarsi o di rappresentarsi, scevro da ogni simbolismo in aperta contrapposizione con la fede Hindū, un Dio misericordioso che volge il suo amato sguardo sui fedeli per esortarli alla santità attraverso le buone azioni e la non violenza, un Dio che non punisce ma che dà al fedele una nuova possibilità di incontro grazie ad una ulteriore vita sulla terra fino alla liberazione finale, un Dio che ama l’intera umanità anche se professa altre fedi, un Dio che è presente per tutti e in tutti, da cercare non nelle esteriorizzazioni del mondo ma dentro di sé, un Dio senza attributi, come recita appunto l’appellativo dato alla filosofia Hindū perseguita e rivelatasi agli asceti e ai pii devoti della più estrema forma spirituale dell’Hinduismo divenuti poi i fautori del Nirguņa Saṃpradāya.

Questi asceti sono definiti prima e appellati poi con il termine Sādhu, Santi, per la leggerezza delle loro parole e l’innocenza delle loro azioni, per la comunione con Dio che riescono a rendere tangibile ai loro discepoli. Uno dei Sādhu più conosciuti è il mistico Sufi Islamico indiano Kabīr, (1440-1518) spesso indicato come eminente autorità influente, capace di aver gettato le basi filosofiche della futura Sikh Panth, ma lo stesso lo si potrebbe dire di qualsiasi altro Sādhu vivente all’epoca o in precedenza, del resto sono numerosi i movimenti che si vengono a creare in questo periodo storico, anche se di questi pochissimi sono sopravvissuti e solo la Sikh Panth è divenuta una vera e propria religione indipendente. Ciò che influenza la Sikh Panth è tutto ciò che si manifesta intorno al suo divulgatore nella sua propria esistenza, nella sua predicazione errante e in quella stanziale in un luogo da lui stesso fondato appositamente per viverla in comunione con l’umanità tutta e con ogni fede, come testimoniano i popolari versetti che ricordano il suo fondatore, “Bābā Nānak śāh faqīr, hindū ka gurū musalmān ka pīr”, “Grande fu l’asceta Gurū Nānak, gurū degli Hindū maestro dei musulmani”.

La Sikh Panth è talmente legata al percorso storico di quel preciso territorio in quell’esatto momento e in quelli che ne seguiranno che risulta praticamente impossibile parlarne senza doverla ridurre ad una mera cronologia dei fatti, fatti che ne hanno peculiarmente influenzato la sua rivelazione e la sua propria formazione, l’invasione Islamica, le innumerevoli correnti o Saṃpradāya, l’autoritarismo dei Brāhmaņi, l’allontanamento delle masse popolari dalla fede Hindū ufficiale per ricercare il contatto con Dio attraverso riti e scaramanzie popolari, l’assoggettamento imposto ad una diversa fede che nella violenza trova la sua massima espressione in aperto contrasto con la mitezza dell’Hinduismo, lo sbarco di Vasco da Gama a Kolkata, Calcutta, nel 1498 che dà l’avvio allo stravolgimento culturale e religioso del colonialismo europeo. I vari Saṃpradāya che si vanno creando concedono lo spazio fisico e temporale per l’incontro con Dio ma non è nel chiuso di una congregazione che trova ispirazione la Sikh Panth, non è nell’autocelebrarsi, nel difendersi dalle critiche e nel rivolgerle alle altre correnti, non è nella staticità ma è nella conoscenza che si riconosce Dio, questo rende la Sikh Panth capace di introiettare il desiderio di Dio attraverso l’evidenza di Dio intorno a noi. 

GURŪ NĀNAK

Gurū Nānak o meglio Nānak Dev Ji, nasce il 15 aprile 1469 a Rāi Bhoi Kī Talvaņḑi nel Paṅjāb, l’odierna Nankana Sahib, di famiglia Khatrī, un Jāti dedita al commercio di casta Kşatriya, dunque benestante e anche beneamato come si evince dal suo nome che trasforma in realtà un appellativo. Gurū, maestro, è chiaramente il titolo che devotamente gli assegneranno i sui seguaci, Nānak invece è il vezzeggiativo con cui è chiamato all’interno della famiglia e dal quale non si è più potuto o voluto separare e il cui significato si può tradurre con “cocco di nonno”. Gurū Nānak diviene il suo nome proprio e come tale già si atteggia da bambino. Le Janaṃsākhī narrano la sua nascita come quella di un Avatāra accompagnato da esseri divini, fatto che si discosta totalmente dalla fede Sikh ma che manifesta un’incombente influenza Hindū, che già in tenera età dispensa sapienza e profondità d’animo. In questo periodo l’India è travagliata dalle dominazioni islamiche che portano alla distruzione iconoclasta delle simbologie Hindū e a forzate conversioni di massa che danno luogo ad una tipologia religiosa che sì professa l’Islam ma con le caratteristiche peculiari Hindū, è in quest’atmosfera che Nānak cresce, nella commistione religiosa ricolma di dubbi e nell’incertezza dei fondamenti della fede. La famiglia riconosce immediatamente in lui la spiccata spiritualità e lo avvia alla vita religiosa fin da piccolo. In età adulta sposa Mata Sulakhni la quale dà alla luce i due figli di Nānak, Sri Chand e Lakhmi Chand, lavora come magazziniere con l’applicazione e la dedizione che mette in ogni sua azione, sia mondana che religiosa e osserva scrupolosamente i dettami della fede Hindū, tanto da ottenere il rispetto della comunità per la sua profonda spiritualità spesso accompagnata da rapimenti mistici anche mentre attende alle sue occupazioni, fino alla definitiva e sconvolgente estasi avvenuta nel 1500. All’età di trent’anni si immerge in una visione mistica dalla quale riaffiora con la domanda che lo porta alla ricerca della via che porti all’unione con Dio. “Non esiste Hindū non esiste Musulmano, quale via allora dovrei seguire? Seguirò la via di Dio, Dio non è né Hindū né Musulmano e la via che io seguirò è quella di Dio.” In seguito a questa rivelazione Gurū Nānak comincia a viaggiare dando vita giorno dopo giorno, conoscenza dopo conoscenza alla Sikh Panth, entrando in stretto contatto con culture diverse e approfondendo la sua esperienza nei culti Hindū, Islamico, Buddhista e Jainista, vivendo il misticismo dei Sufi Musulmani e degli Yogin Hinduisti. Raggiunge le regioni orientali del Bengala e dell’Assam, per dirigersi poi a sud nello Sri Lanka e al nord per visitare il Kashmir, il Ladakh e il Tibet, concludendo il suo itinerario a ovest visitando Baghdad, La Mecca, Medina e la penisola arabica prima di tornare al suolo natio e fondare nel 1522 una città, Kartārpur, la città del Creatore, sul fiume Rāvī nell’odierno Pakistan, dove comincia la sua opera di evangelizzazione, giusto in tempo per vedere la sua patria calpestata e depredate dalle armate turco-mongole dell’islamico Zahir-ud-din Muhammad Babur.

Le sue parole cominciano ad attirare i primi fedeli che percepiscono in lui la santità della conoscenza, senza però mai identificarlo in un Avatāra, cioè una manifestazione di Dio in lui, ma la manifestazione di Dio attraverso la sua fede. Il suo pensiero religioso si incentra nella meditazione sulla natura di Dio, in una particolare concezione della natura dell’uomo e nell’indicazione di una via per la salvezza. Nel frattempo il sultanato di Delhi lascia il posto all’erede del Mongolo Tamerlano, l’imperatore islamico Bābar il quale scacciato dalla sua terra nell’Uzbekistan invade e conquista l’India, travolgendo i primevi invasori nella battaglia di Panipat il 20 aprile 1526. Fonda il suo nuovo impero e la dinastia Muġal dei Gran Mogol che acuisce nel Paṅjāb le angherie della religione Islamica. Dopo le guerre di conquista i rapporti religiosi rimarranno sufficientemente equilibrati, il pressante proselitismo islamico è ben ostacolato dalla radicata fede Hindū e dove non arrivano le capacità della nuova fede gli invasori si accontentano di applicare la capitazione, ossia il pagamento di una tassa per i non Islamici e di una pacifica convivenza con i miti e sottomessi Hindū, l’ascesa al trono di Aurangzeb nel 1658 demolirà invece ogni intesa fra i popoli del subcontinente indiano dando il via ad una feroce guerra religiosa.

Prima della sua morte Nānak compie un gesto che esterna in pieno la sua concezione di fede nominando come suo successore non uno dei figli ma il più pio dei suoi seguaci, Lahiṅā, dandogli il nome di Aṅgad il quale, dalla scomparsa del Gurū fondatore il 7 settembre 1539, procede nella diffusione della fede mantenendo intatti gli ideali principali del suo predecessore: la Sevā, il servizio reso ai bisognosi e a Dio, il canto degli Inni, il rifiuto delle Caste, il pasto comune nel Laṅgar e la scrittura Gurmukhī per la redazione dei canti e delle preghiere. Queste peculiarità che appaiono in un primo momento solo prettamente spirituali, si rivelano invece essenziali per la formazione della coscienza etnica Sikh in contrapposizione agli usi Hindū e Islamici e successivamente basilari per il consolidamento del senso di appartenenza ad una realtà nuova, sana, vigorosa e da difendere, forte di quel senso di unità nazionale che darà loro la possibilità di affrontare le vicende storiche che li attendono. Sotto la sua guida i giovani Sikh fortificano il loro corpo con allenamenti ginnici volti alla purificazione spirituale ma che si riveleranno poi i primi rudimenti per la formazione di quel corpo militare che si andrà creando.

Nel 1552 il terzo Gurū, Amar Dās, riceve da Aṅgad la consegna del sapere, avvia una riorganizzazione che prende già le forme di una riforma statale come se la nazione Sikh si stesse autonomamente modellando nel corso degli eventi e nel grembo dei suoi presenti e futuri oppressori. Divide il territorio in diocesi, Maṅjī, con a capo di ognuna di esse un Mahant, abolisce la Pardā e la Satī sancendo la definitiva unicità della fede distinguendola risolutamente da quella Hindū e dall’Islam.

Alla sua morte diviene Gurū il genero Rām Dās, avviando con questa nomina la pratica dell’ereditarietà nella carica di guida spirituale, confermando così in via definitiva il concetto di nazione, retta e guidata da una dinastia religiosa. Stabilisce la sua sede a Rāmdāspur dove dà inizio alla costruzione di un tempio conferendo alla Sikh Panth il carattere definivo di fede con un suo proprio unico centro.

Nel 1581 il minore dei suoi figli, Arjan, diviene il quinto Gurū. Completa l’opera del padre sia in termini materiali con la costruzione del tempio dell’Harimandir ad Amritsar che a caratteri spirituali con la redazione dell’Ādi Granth, il libro sacro contenente gli Inni lasciati dai suoi predecessori e nel quale sono inclusi anche testi di mistici Hindū e Islamici a dimostrazione del carattere universale della fede. Dirige il nascente stato Sikh più come capo politico che spirituale, organizza le prime truppe ed entra in contatto diretto con gli invasori Islamici dell’impero Muġal, i rapporti rimarranno pacifici fino alla morte dell’imperatore Akbar ma il suo successore, il meno tollerante Jahāngīr darà l’avvio alle ostilità verso quel popolo che sembra proprio voglia ritagliarsi una fetta di autonomia all’interno dei suoi possedimenti. Arjan viene accusato per il potere che si sta costruendo e viene trucidato nel 1606. Il martirio del quinto Gurū provoca all’interno del quieto movimento Sikh uno spostamento negli intenti cultuali che verrà accentuato e accelerato dagli eventi storici, dalla pacifica diffusione della Sabadu si passa presto alla violenza con l’affermazione del diritto a difendersi.

Il figlio Har Govind non smentisce la sua discendenza, che a questo punto esprime la necessità del carattere ereditario della carica di Gurū, in quanto soltanto una dinastia avrebbe potuto dare ai Sikh la possibilità di una coesione, anche militare, per opporsi al di gran lunga superiore potere Islamico. Fonda la citta di Hargobindpur in territorio Jaṭ espandendo il controllo nella regione quasi come una sfida o una vendetta per la morte del padre. La reazione Islamica non si lascia attendere e Har Govind è costretto a ritirarsi sulle montagne nella città di Kīratpur che diviene il castello dei Gurū, la rocca da difendere strenuamente dove si ammassano in preghiera legioni di fedeli armati. 

L’HARIMANDIR AD AMRITSAR

Nel 1644 muore lasciando il titolo di Gurū al nipote Har Rāi che continua a vivere costretto in luoghi impervi per la propria salvaguardia e per il mantenimento dell’unità nazionale. Le scaramucce fra i due contendenti continuano ma nel 1658 Aurangzeb sale al potere dell’impero Muġal con un colpo di stato e dà il via una campagna di repressione e persecuzione religiosa decimando tutte le comunità non Musulmane dell’India. Invece che dissuadere o indebolire Har Rāi e i suoi fedeli questa campagna di pulizia etnica ne fortifica l’unione tanto che da questo momento ogni fedele, ogni Sikh è a tutti gli effetti un soldato. Il popolo Sikh completa la sua trasformazione in nazione teomilitare, la fede diviene l’arma di difesa attraverso la difesa armata, la non violenza predicata diviene ricerca della non violenza attraverso l’abbattimento di tutto ciò che osta il suo raggiungimento. Un incongruenza così affascinante che impedisce di vederne il tratto umano travalicare quello spirituale, la difesa della fede contro non la repressione ma la sua propria estinzione permette l’uso di quella violenza che tradisce gli ideali di Nānak ma ne permette allo stesso tempo la sopravvivenza.

L’ottavo Gurū è dal 1661 Har Krishan, il minore dei figli di Hār Rai il quale già nel 1664 muore all’età di soli otto anni mentre è agli arresti domiciliari a Delhi. Passa allora alla guida della nazione Sikh Teg Bahādur figlio di Har Govind. La sua profonda spiritualità lo costringe ad allontanarsi dagli scontri nel tentativo di ritrovare nella purezza della fede la via della pacificazione. Dopo un periodo errante quasi a ricercare le orme di Nānak si traferisce nel Bengala lontano dal suo paese e dalla persecuzione Musulmana. Quando però la ferocia Islamica esplode nella distruzione dei templi e in un perversa repressione che mette in pericolo la vita stessa dei fedeli si rende necessaria la sua presenza in patria come simbolo di resistenza, come guida spirituale ma necessariamente anche militare e come aggregante dell’unità nazionale. Il suo rientro però è disastroso e drammatico, viene catturato per ordine di Aurangzeb e decapitato per il suo rifiuto di convertirsi all’Islam, un atto che se si fosse verificato avrebbe potuto compromettere l’esistenza della fede Sikh, un martirio che ne decreta la invece la sua potenza.

Il decimo e ultimo Gurū diviene così Govind Siṅgh colui che ancora una volta dà una svolta spirituale e nazionale al suo popolo, questa in modo assolutamente definitivo. Nel 1699, durante il raduno annuale Sikh ad Ānandpur, con un rito che si rivelerà ben architettato per stimolare la completa fiducia nel Gurū, Govind Siṅgh chiede chi fra i fedeli presenti sia disposto a dare la sua vita per lui, uno dopo l’altro si presentano in cinque e a turno vengono introdotti all’interno di una tenda da cui ne esce il solo Gurū con la spada macchiata di sangue. Alla fine della cerimonia i cinque fedeli escono incolumi dalla tenda presentando le capre sgozzate al loro posto e Govind Siṅgh dichiara che questi sono il nucleo fondamentale di una nuova confraternita, militarizzata, armata, ugualitaria, il Khālsā, la comunità dei puri. A confermare l’uguaglianza all’interno della Sikh Panth è la diversa estrazione sociale dei suoi componenti, un Khatrī della Casta dei commercianti, la stessa a cui appartenevano i Gurū, un Jāt della cospicua Casta degli agricoltori armati, e tre Sūdra i servi e gli intoccabili della tradizione Hindū, non c’è differenza nella Sikh Panth, non c’è differenza davanti a Dio, davanti a Dio siamo tutti uguali. Il nucleo degli iniziati è nominato da Govind Siṅgh, Paṅji Piāre, i cinque amati, il Gurū li battezza con l’Ammritu e da essi viene battezzato, poi a seguire migliaia di Sikh si sottopongono alla stessa cerimonia rafforzando l’unità nazionale e accettando la difesa armata e organizzata. Govind Siṅgh emana un decreto per la nuova via, un percorso che parte dalla purezza corporale per aprire la strada alla ricerca spirituale, viene proibito il tabacco, la carne di animali uccisi con il metodo Islamico e l’unione carnale con le donne Musulmane. Da quel momento i membri del Khālsā si sarebbero contraddistinti esteriormente con cinque simboli inconfondibili i Paṅj Kakke, le cinque K. Kes, capelli e barba intonsi per incutere terrore, Khaṅgā, un pettine per raccogliere i fluenti capelli infilati dentro quel turbante che ancora oggi è il più esteriore dei simboli non ufficiali che li rappresenta; Kirpān, la spada con cui combattere gli oppressori; Kaŗā, il braccialetto di metallo con cui esternare i propri emblemi; Kach, il calzone corto, pratico nelle battaglia. L’assoluta uguaglianza del Khālsā si afferma includendovi anche fedeli di sesso femminile, nessuno è escluso davanti a Dio, nessuno è escluso dalla battaglia, ognuno deve dare il proprio contributo a difesa della Sikh Panth, gli uomini divengo leoni, Siṅgh, le donne principesse, Kaur. Per perfezionare il criterio dell’uguaglianza viene concesso pieno rispetto e completa accettazione a coloro che non fanno propria la nuova via, sono i Sahajdārī, coloro che hanno comunque facilitazioni per il raggiungimento della Mukti in quanto comunque fedeli alla Sikh Panth ancorché non appartenenti al Khālsā, anche chi non vuole o non può concedersi completamente alla difesa e alla battaglia è uguale agli altri davanti a Dio. In precedenza Govind Siṅgh aveva già avviato una campagna militare contro l’Islam nata sotto il buon auspicio di una prima vittoria conseguita nel 1686 nella battaglia di Bhangani a cui però seguirono numerose sconfitte durante i venti anni successivi culminate in una disastrosa disfatta che però segna, con il conseguente rafforzamento etnico, il rinascimento spirituale e nazionale Sikh.

Poco prima della sua morte avvenuta nel 1708, il Gurū Govind Siṅgh, privo di ogni discendente diretto a causa della guerra contro l’impero Muġal, compie l’ultimo atto teologico che stravolge la Sikh Panth, desautorando l’uomo da ogni potere spirituale e assegnandolo al libro, quell’Ādi Granth che nel corso del tempo è stato integrato degli Inni e dei pensieri dei dieci Gurū e che di conseguenza diviene Gurū esso stesso, il Gurū Granth Sāhib, il libro diventa Verbo e strumento di Dio. Dalle sue parole dipendono le azioni dell’autorità secolare che Govind Siṅgh crea, il Gurū Panth, l’assemblea del Khālsā che riunita con il libro è parola di Dio. Un drastico cambiamento necessario per la lotta contro l’oppressore Islamico e conseguenza della sempre maggior partecipazione alla nazione Sikh dell’etnia Jāt, composta da contadini guerrieri.

Nel corso dei decenni seguenti il Paṅjāb è teatro di numerose guerre fra Sikh e Musulmani che vedono alternarsi brevi periodi di indipendenza a sanguinose repressioni, la guerra contro l’Islam continua anche con un nuovo nemico, l’afghano Aḥmad Śāh Abdalī che intraprende una guerra santa Musulmana per la conquista del Paṅjāb, l’unità nazionale Sikh resiste anche a queste nuove invasioni e addirittura nel 1799 Raņjit Siṅgh fonda un regno Sikh, accentrando su di se ogni potere spirituale e secolare estinguendo di fatto il dogma istituito da Govind Siṅgh che concedeva il potere all’assemblea riunita con il libro e limitandolo alle sue proprie decisioni prese in osservanza e in presenza del Gurū Granth Sāhib, stravolgendo in questo modo ogni motivazione spirituale che aveva indotto il decimo Gurū a trasferire il potere dall’uomo al Verbo. Non c’è pace però per i Sikh, i vecchi nemici vengono sconfitti e sostituiti da un nuovo invasore, gli Europei sono all’apice del loro espansionismo coloniale e la regione Indiana cade nelle mani dell’Inghilterra che ne deciderà le sorti per i due secoli successivi depredandola moralmente e materialmente, dal furto del Koh-i-Noor, camuffato da acquisto grazie ad un vitalizio concesso al convertito Cristiano Dalip Singh, fino all’abominio compiuto nel 1947 a seguito della concessione dell’indipendenza all’intero subcontinente, l’incompetenza e la voluta non conoscenza di una regione da sfruttare e non con cui integrarsi portano all’orribile evento definito Partition.

La commistione e la convivenza di così diverse religioni in India non viene compresa dagli Inglesi i quali, in un delirio di onnipotenza ritengono di individuare solo due religioni tralasciando e accantonando tutte le altre correnti definendole spregiatamente “Sette”, nella loro non richiesta magnanimità ritengono di non dover lasciare questo paese di ignoranti in un caos che provocherebbe solo guerre civili e anarchia compromettendo i lucrosi traffici commerciali dell’Impero Britannico che sarebbero continuati con le nascenti nazioni. Il territorio viene più o meno equamente suddiviso in proporzione ai rispettivi fedeli fra Islamici e Hindū, nasce il Pakistan musulmano unito al lontano Bangla Desh da cui si distacca quasi immediatamente, prende forma l’odierna India che mantiene i rapporti commerciali con il vecchio conquistatore. Decine di milioni di persone sono costrette ad abbandonare i propri luoghi natii per motivi religiosi e altre decine di milioni non hanno più un luogo che li accetta nella loro personale identità civile e religiosa, i Sikh vengono smembrati, il loro territorio viene assegnato in parte al Pakistan e in parte all’India, un cuscinetto nemico di entrambi posto a confine fra due entità politiche diverse e avverse che cominciano immediatamente una guerra fredda per rivendicare ognuno per se il territorio del Punjab, dichiarando il tal modo il comune disprezzo religioso ed etnico verso i Sikh veri proprietari etnici, politici e religiosi della loro regione. Ancora oggi dopo cinquecento anni dalla predicazione di Nānak il territorio del Paṅjāb rimane teatro di guerre, rivoluzioni, terrorismo e crude repressioni da parte del governo Indiano, finanche a provocare nel 1984 la profanazione dell’Harimandir ad Amritsar e l’eccidio di migliaia di Sikh, un atto che porta alcuni mesi dopo all’assassinio del primo ministro indiano Indira Gandhi e alla conseguente ulteriore repressione e massacro di Sikh. Il Khālistān, il paese dei puri, l’unione nazionale Sikh, indipendente e autonoma appare sempre più una lontana chimera.

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Gurū Nānak nasce sul finire del medioevo Indiano, un momento in cui fioriscono nuove visioni religiose a osteggiare il conservatorismo dei Brāhmaņi esploso come unico e ultimo baluardo Hindū contro l’avanzata della fede Islamica ovvia conseguenza dell’invasione Musulmana. È un momento vigoroso in tutto il mondo, la peste ha falcidiato l’umanità portandosi via anche i legami con l’ottuso tradizionalismo fino ad allora opportunamente coltivato per il mantenimento del potere. In Europa si vive il Rinascimento, le nuove idee portano sviluppo alla scienza e alla tecnica e pur galleggiando su un mare di superstizioni e di ortodossie religiose i popoli dell’occidente partono alla scoperta del mondo e delle sue meraviglie naturali e scientifiche, scoprendo che oltre loro c’è un occidente ulteriore. A oriente invece la tecnologia è lungi dal divenire strumento universale, i Cinesi custodiscono gelosamente quanto possono le loro innovazioni e l’Islam si bada bene dal divulgare eccessivamente le proprie conoscenze che saranno invece messe a frutto in Europa. Sugli altopiani che furono un tempo il centro di quel vortice espansionistico che ha diffuso l’umanità nel mondo aleggia invece ancora il desiderio sì di conoscenza ma più spirituale che materiale. Mistici Islamici Sufi e Sādhu Hindū continuano la millenaria ricerca di Dio e circondato da queste ricerche e da queste domande nasce Nānak, la cui predisposizione spirituale e la disponibilità economica della famiglia gli permetteranno di dedicare la sua vita alla ricerca della giusta via per arrivare a Dio o meglio la via di Dio da percorrere per giungere alla liberazione dalle iniquità della vita.

Il suo intenso coinvolgimento spirituale viene narrato nelle Janaṃsākhī, un misto di storie e leggende sulla vita di Nānak fin dalla sua infanzia in cui viene esaltato il sentimento religioso che lo contraddistingue, la sua estrema attenzione al Dharma Hindū, la devozione verso la famiglia, la moglie e il lavoro esperita con la naturalezza della Bhakti, la devozione richiesta al pio Hindū, la cui profondità è attestata dal fatto che egli fosse rispettato e apprezzato sia degli Hindū che dagli Islamici del suo villaggio. Molteplici sono le visioni che lo rapiscono alla realtà mondana in ogni momento finanche sul luogo di lavoro, fino a quando un mattino scompare dopo le rituali abluzioni.   È Dio stesso che lo chiama a se, il Quale dopo avergli offerto una coppa d’Ambrosia, il nettare degli déi, quell’Amŗta che più tardi diverrà la fonte battesimale Sikh, gli affida la missione di evangelizzazione, donare al mondo la possibilità di conoscere la via che unisce l’umanità a Dio. “Nānak, Io sono con te. Per mezzo tuo il Mio Nome sarà celebrato. Chiunque ti seguirà, Io lo salverò. Va nel mondo per ripetere il Mio Nome e insegnare all’umanità a pregare in questo modo. Non essere contaminato dalle cose del mondo. Sia la tua vita lode del Mio nome, dono, purificazione, servizio, preghiera. Colui che tu benedirai sarà da Me benedetto. Io sono il Signore Supremo, il Creatore primevo e tu sei il Gurū, il sommo Gurū di Dio.” Nānak scompare per riapparire tre giorni dopo immerso nel silenzio della riflessione dalla quale riemerge dopo un intero giorno con la consapevolezza che nessuna delle religioni da lui conosciute doni realmente la capacità di raggiungere o farsi raggiungere da Dio. L’affermazione “Non esiste Hindū non esiste Musulmano”, da lui pronunciata dopo il suo ritorno dall’ascesi, può in un primo momento apparire come un disconoscimento della fede praticata fino a quel momento, una sorta di apostasia, e una violenza verso quella degli oppressori quasi come a denigrarli nel tentativo di togliere il fondamento religioso alle azioni dei suoi nemici i quali potranno forse anche conquistare il mondo ma non lo faranno certamente in nome di Dio anche se proprio con questo illusorio salvacondotto conducono le loro campagne militari espansionistiche e di conquista. L’affermazione di Nānak coglie invece un aspetto più sottile, pur considerando che tali religioni possano a loro modo condurre ad un incontro con Dio o meglio ad un apertura dell’io interiore all’accettazione di Dio, queste per mille altre loro peculiarità fallano nell’indurre l’uomo a determinati comportamenti, che siano le adorazioni iconoclastiche, lo Yoga o l’infiltrazione della violenza nella fede che portano il devoto ad allontanarsi dalla via di Dio. Non esiste Hindū, non esiste Musulmano che stia percorrendo l’autentica via di Dio. Non la via che porti a Dio ma la via che Dio ha tracciato per essere percorsa dall’uomo affinché egli stesso possa innalzarsi nella liberazione dalle fatiche della vita. Nānak riconosce in Dio la verità, Lui è il Satigurū, il vero Gurū, il vero maestro, colui dal quale direttamente si può attingere la conoscenza, lo definisce Ikk, il semplicemente Uno senza secondo, non dio fra gli dèi o dio degli dèi ma Dio confermando la sua fede in un rigido monoteismo. Nāmu è onnipotente, infinito, eterno, senza forma né attributi. Inspiegabile, incomparabile, inconoscibile, onnipresente e trascendente, in sostanza non definibile, non è possibile dare un nome a Dio o dargli una forma in quanto questa stessa azione ne determinerebbe dei confini al suo operato; onnipotente, infinito, eterno, senza forma né attributi; è Onnipotente, tutto può in quanto niente è fuori da lui non avendo Egli confini in quanto Infinito nel senso di non avere inizio né fine ma essere il tutto Eterno che da sempre c’è stato e per sempre ci sarà senza Forma perché comprende tutto ciò che è stato e che sarà ma anche ciò che non è mai stato e mai potrà essere, scevro da Attributi in quanto non legato soltanto a specifiche peculiarità essendo Egli Onnipotente, con l’unico e solo intento di far conoscere all’uomo la Verità.  “… quale via allora dovrei seguire? Seguirò la via di Dio…” la via della verità, attraverso la grazia della fede che è nella preghiera, senza seguire falsi maestri che propongono pratiche e riti che in realtà legano ancor di più l’uomo alla mondanità, grazie all’illusione della Māyā che non è l’irrealtà del mondo ma la falsità dei valori umani che corrompono il pio devoto deviandolo dal solco tracciato per lui da Dio. Dio è presente nell’essenza dell’uomo attraverso il Verbo, la Sabadu, che contiene l’Ordine Divino l’Hukamu, questo Ne fa un Gurū e solo seguendone l’indirizzo si può giungere alla liberazione, la Mukti. Gurū non è l’incarnazione di Dio ma la sua voce e lo spirito dell’uomo, il Manu può abbandonarsi alla sua soavità oppure lasciare che la mondanità ne irretisca l’Haumai, l’io profondo impedendogli di ascoltarla.

La via che Nānak vede condurre se stesso e l’umanità nel nome di Dio la si percorre con la semplice disciplina del Simaraņa, rammentarsi in continuazione di Dio attraverso la Japu, ripetendo in maniera quasi ossessiva il Nāmu, il generico del nome Divino e portandoLo con se e nel compimento delle proprie azioni, non giustificandole nel nome di Dio ma lasciandole influenzare dalla Sabadu. La meditazione attraverso il Simaraņa permette al fedele di elevarsi spiritualmente attraverso il percorso dei Cinque Regni Mistici, il Khaņḑu. Al raggiungimento dell’ultimo regno si compie la fusione con Dio e il conseguimento della perfetta beatitudine il Sahaju, l’Ādi Granth recita: “Colui che obbedisce all’Hukamu è rapito alla Corte ove incontra la verità e si fonde in essa”. La continua preghiera porta lentamente il fedele ad attraversare i vari stadi del Khaņḑu, il primo di questi è il Dharma, questa condizione la si acquisisce nel momento in cui si ascolta, si comprende e si accetta l’Hukamu, quell’ordine Divino che è una salvifica ingiunzione di Dio, un chiaro invito, volto a indicare lo spirito d’amore con cui compiere le proprie azioni per liberarsi dalle catene della Māyā e allo stesso tempo anche percepire l’armonia universale della Sabadu. Seguire l’Hukamu significa operare per raggiungere la propria liberazione e contemporaneamente essere, creare e mantenere l’armonia universale. Il passaggio allo stadio successivo è quello del Giān, la conoscenza, con la completa accettazione dell’Hukamu il fedele diventa consapevole di essere parte privilegiata del disegno Divino, fino a comprendere la natura Divina dell’uomo e la sua completa appartenenza a Dio. L’accesso al terzo stadio è il culmine dell’ascesa a Dio, nel Saram, lo sforzo spirituale, c’è la completa apertura a Dio che permette il contatto e l’esperienza del mistero Divino e della sua onnipotenza, attraverso la vita essere capaci di morire alla vita in Dio. Si arriva in questo modo alla grazia, il Karam, il momento in cui la volontà Divina garantisce un eterna continuità alla comprensione dell’indefinibile, si aprono le porte della mente e tutto diviene chiaro non un fugace esperienza ma il sempre. Si compie in questo modo l’ultimo passaggio, il Sac, la verità. Il fedele è finalmente capace di comprendere e accettare completamente la verità della Sabadu, il Verbo, quella parola di Dio che è vita e accedere al Sac, dove abita colui che non ha forma o dimensione nello spazio e nel tempo, il fine ultimo, la liberazione, la Mukti, il Nirvāņa, il Paradiso, il congiungimento o il ricongiungimento a Dio il ritorno alla casa del Padre e della Madre dopo aver attraversato le tribolazioni della vita mondana acquisendo le capacità per comprendere il loro Amore.

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La sete di conoscenza che assale Nānak al risveglio dalla visione lo porta ad un peregrinare di divulgazione e conoscenza attraverso l’oriente, definito Udasi, durante il quale arricchisce i suoi interlocutori mistici e da essi è arricchito arrivando a confermare nella sua essenza il percorso da compiere, la Sikh Panth. Al ritorno fonda la città di Kartārpur, la Città del Creatore, e la sua nuova fede, una fede di uguaglianza, di rispetto e di amore verso l’umanità e verso Dio. Afferma che l’uomo è creazione di Dio pertanto privo di peccato originale, incapace però di concepire la propria origine divina e per questo facile preda dell’Haumai, dona concretezza al mondo e all’esistenza in quanto dimora di Dio il primo e strumento di conoscenza la seconda asserendo che questa non debba essere condotta nella rinuncia ma nella felicità e con la gioia nel cuore cercare Dio e aprirsi a Lui e condividere tale sentimento con gli altri anche attraverso la Sevā, condividendo con gli altri le nostre gioie spirituali e materiali. Concepisce la sua nuova fede sull’individualità personale di ogni uomo, non ci sono simboli ne icone a rappresentare Dio perché Dio è in ognuno di noi e l’umanità tutta diviene icona di santità; non ci sono sacerdoti perché ognuno diviene sacerdote di se stesso nella via da percorrere per l’apertura a Dio per il tramite delle proprie preghiere e degli atti compiuti nel nome dell’ordine Divino, l’Hukamu. Dà corpo alla sua ideologia con la semplicità della concretezza, il Simaraņa diviene intimo ma anche comunitario ed ogni occasione di ritrovo è un opportunità in più per cantare gli Inni a Dio, avvicinandosi ad Esso lungo la via da Lui tracciata. L’uguaglianza si concretizza con il completo disconoscimento delle caste attuato con il più conviviale degli strumenti, il Laṅgar, un refettorio comune in cui tutti i Sikh si riuniscono per il pasto, senza distinzione di casta e all’interno del quale vengono ospitati i bisognosi di qualsiasi fede, davanti a Dio siamo tutti uguali. La rivoluzione portata dalla Sikh Panth dona speranza e dignità ai più umili che aderiscono con fiducia e con la gioia di poter condividere non solo la mensa o la vita ma un unico Dio con tutti, la potenza delle parole di Nānak coinvolge però anche le classi più abbienti che vedono nel Dio di Nānak la possibilità di opporsi al Dio imposto dall’Islam e alla corruzione spirituale e materiale dell’Induismo, l’opportunità per affrancarsi dal potere dei Brāhmaņi, motivi molto poco spirituali ma che contribuiscono alla creazione della prima struttura Sikh. I successivi Gurū continuano la via indicata da Nānak aggiungendovi, a differenza di quanto solitamente accade in ogni religione, soltanto nuovi inni e nuove preghiere in un continuum spazio temporale che congela la fede alle prime parole di Nānak, insieme ai suoi successori costituisce la fase storica dei Gurū viventi dai quali emana la medesima verità, essi condividono la stessa conoscenza di Dio e condividono una comune identità fondamentale, i dieci Gurū sono visti nella fede Sikh come candele che sono state accese l’una dall’altra, figlie della stessa luce della stessa verità, quando Nānak nomina Lahiṅā suo successore gli assegna l’appellativo di Aṅgad, parte del mio corpo, membra di me stesso, conferendogli in tal modo la stessa autorità spirituale, proprio come se Nānak stesso continuasse la sua vita ma soprattutto le sue opere, attraverso il nuovo Gurū. E così e stato, le parole di Nānak e dei suoi successori sono ben presto raccolte nell’Ādi Granth, viene costruito un tempio in cui conservarlo e in cui riunirsi per cantare gli Inni e fino all’avvento del decimo Gurū, dopo duecento anni, tutto rimane invariato ed è solo con Govind Siṅgh che si hanno le due uniche fondamentali variazioni alla via tracciata da Nānak. La prima ha un carattere decisamente pragmatico, la creazione del Khālsā stravolge l’ideale non violento cedendo alla subdola corruzione che solo con la violenza si possa combattere e vincere la violenza, purtroppo i tempi non sono ancora maturi affinché Govind Siṅgh abbia la possibilità di utilizzare l’arma della non violenza presentandosi come un precursore del Mahatma Gandhi e quindi è la sola militarizzazione della fede che permette alla Sikh Panth di persistere nella sua esistenza e tornare oggi ad essere una fede di agguerriti Siṅgh ed emancipate Kaur finalmente liberi di percorrere la via di Dio seguendo il motto “Kirt kamāo, vaņḑ chako, nam japo”, fa il tuo lavoro, dividine il frutto, prega Dio. La seconda stravolge anch’essa la consuetudine avviata da Nānak ma lo fa in maniera spirituale come a compimento di quell’uguaglianza predicata dal primo Gurū, Govind Siṅgh trasferisce il potere della Sabadu dalla fallibilità umana all’infallibilità divina contenuta nel Libro Sacro.

Le sconfitte militari sono pesanti però concedono rispetto ed autonomia alla nazione Sikh, gli Inglesi stanno per assumere il controllo di tutto il subcontinente Indiano e non si curano di questa minoranza ancorché bellicosa ma lontana, circoscritta e con poche possibilità che presto viene schiacciata dalla superpotenza militare britannica con due guerre nel 1845 e nel 1849, avidamente promosse dall’impresa commerciale della Compagnia delle Indie. Hindū e Islamici non hanno più la capacità di nuocere e la nazione Sikh non ha più bisogno di un uomo solo al comando, può finalmente concedersi il lusso di lasciarsi guidare da una democratica assemblea illuminata dall’Ādi Granth. Govind Siṅgh impedisce in questo modo che una sola persona possa arrogarsi il potere del comando trasformando i Sikh in un mero manipolo di guerrieri distruttori, la guerra è terminata senza vinti ne vincitori e l’intento della Sikh Panth non è quello di divulgarsi attraverso l’occupazione né tantomeno l’evangelizzazione ma di conservarsi e concedersi a Dio. La vera stabilità la nazione Sikh la raggiunge però invalidando l’intento di Govind Siṅgh, allorché anche le ultime scaramucce con gli Islamici giungono a termine Raņjit Siṅgh riunisce le bande di guerriglieri Sikh sotto la propria guida e fonda un regno ponendosene a capo, destituisce di ogni potere la Gurū Panth e accentra su di se ogni facoltà decisionale presa pur sempre con la benedizione e l’illuminazione del Gurū Granth Sāhib, anche una fede così semplice e umile diviene terreno fertile per la necessità umana di sostituirsi a Dio.

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La fonte universale della Sikh Panth è l’Ādi Srī Gurū Granth Sāhib Jī, il Nobile Libro Originario che è Signore e Maestro, o più semplicemente Ādi Granth. Il Libro apre con un prologo in cui sono elencate le quattro preghiere quotidiane del devoto fedele la prima di queste è il Mūla Mantru, la formula fondamentale che quasi sempre apre e chiude anche tutte le altre preghiere, un Mantra che è divenuto universale pervadendo culture ed ideologie esoteriche, new age e pseudohindū ai quattro angoli del mondo:


Om Sat-Chit-Ananda Parabrahma

Purushothama Paramahatma

Sri Bhagavathi Sametha

Sri Bhagavathe Namaha

Per il Verbo, l’Essenza, lo Spirito Supremo, la beatitudine, il Creatore,

l’Anima Guida e lo Spirito Santo

o Madre Divina, in comunione

col Padre Supremo Vi prego guidatemi


Più prosaicamente lo si potrebbe tradurre con “Chiedo la più alta energia di tutto ciò che esiste, l’essenza dell’universo, puro amore, felicità e gioia; Chiedo al Creatore Supremo incarnatosi per guidare l’umanità, di venire a me nel mio cuore e diventare mia voce interiore quando prego, chiedo alla Madre Divina, potenza della creazione, chiedo al Padre Creatore immutabile ed eterno io ne riconosco la presenza nella mia vita e chiedo la Vostra guida in ogni momento.

Om: la sillaba mistica Om apre e chiude i Mantra e diviene Mantra essa stessa, Om è la traslitterazione della sillaba indiana AUM, dove A sta per Brahmā, U per Vişņu e M per Śiva. Tra i tantissimi significati vi è il dogma fondamentale, “in principio era il Verbo e il Verbo ha creato ogni cosa”. Quel verbo è Om la vibrazione da cui tutto ha avuto inizio, il suono primordiale che si può udire uscire da noi stessi nella profonda meditazione silenziosa. Om è l’invito all’Energia Superiore capace di creare, sostenere e annientare che concede vita e azione a tutto ciò che esiste.

Sat: l’essere esistenti di ogni cosa, infinito, onnipresente, l’universo senza attributi. È immanifesto, impercettibile da ogni senso individuabile solo quando si rivela in una forma, fisica o meno. L’uomo è nell’universo e l’universo è in lui. L’uomo è l’effetto e l’Universo è la causa rivelatasi.

Cit: la pura coscienza dell’universo, infinita, l’Universo che si manifesta in energia. La coscienza che si manifesta con le azioni primarie della fisica e dell’anima. Lo Spirito Supremo.

Ananda: la beatitudine assoluta, l’amore e l’amicizia devozionali, l’estasi raggiungibile vivendo l’esperienza di comunione con Sat e Cit. Il Nirvana universale.

Parabrahma: l’Essere Supremo assoluto, il creatore, Satigurū, Dio al di là dello spazio e del tempo, l’essenza dell’universo che ha e non ha forma.

Purushothama: Purusha è l’uomo e l’anima e Uthama è l’energia e il supremo; lo Spirito Supremo. L’energia suprema che guida l’umanità dal mondo superiore, il paraclito, lo strumento di rapporto fra la mondanità e la Divinità.

Paramahatma: l’anima, l’energia suprema interiore che è immanente in ogni creazione vivente e non. L’essenza che inabita l’uomo, l’Antaryamin che risiede nella creatura privo di forma ma anche con la forma opportuna. La forza che giunge a noi quando e ovunque si chieda, come guida e aiuto.

Sri Bhagavathi: il Femminile, l’Intelligenza e la Potenzialità Suprema, la Śakti Hindū. La creazione come Madre Terra, Madre Divina.

Sametha: in comunione con.

Sri Bhagavathe: il Maschile, l’Intelligenza e l’Azione Suprema, l’attività della Creazione, immutevole e permanente.

Namaha: il saluto devozionale, lo Spirito in noi, onnipresente, contemporaneamente mutevole e immutevole, l’essenza che, quando arriviamo a sentire di poter chiedere soccorso, ci guida e ci aiuta proprio grazie alle Intelligenze Divine invocate. Io cerco la tua presenza e la tua guida sempre; “Om Namah Shivaya”; “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla, su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce, mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome”, “Allah akbar”.

Il canto di questo Mantra Vedico da solo porta con sé una grande potenza. Quando si canta questo Mantra è come se si chiamasse un nome, allo stesso modo di come si chiamerebbe una persona per nome e quella persona viene a farti sentire la sua presenza. Allo stesso modo, l’Energia Divina si manifesta ovunque intorno e dato che Dio è Infinito, questa Energia Suprema si può manifestare in qualsiasi momento e in ogni luogo e ancor più salmodiare il Mūla Mantru con umiltà, rispetto e necessità rende maggiormente forte l’unione con Dio.

La preghiera che apre la giornata è la Japjī, composta da Nānak ne sintetizza i suoi insegnamenti, la preghiera della sera invece è il Rahrās, un invocazione composta da Inni di vari autori, gli scarni ma essenziali riti Sikh si concludono con la preghiera della notte il Sohilā, cinque Inni di lode fra i quali l’Ārtī, l’offerta di luce composto da Nānak.

Il Libro prosegue con la raccolta degli Inni che dopo la prima stesura del 1603 redatta da Arjan, sono stati aggiunti in seguito al fine di contenere anche le parole dei Gurū successivi. La redazione finale consta di 1430 pagine a stampa e contiene le parole di Nānak, Amar Dās, Rām Dās, Arjan, Aṅgad e Teg Bahādur oltre a 937 liriche di mistici Hindū e Islamici, dando in tal modo alla fede Sikh quell’aspetto sincretico che spesso gli ha negato l’appellativo di religione ma che invece ne rafforza l’originalità. Sono proprio i mistici del tempo che in realtà hanno già fatto apostasia dalle rispettive religioni e come eretici non dichiarati e non accusati vanno cercando una nuova via per l’incontro con Dio, quella via che si tramuterà in Sikh Panth. In tutto il Libro contiene 5894 composizioni di varia metrica e lunghezza suddivise in base alla modulazione, Rāg, dell’Inno il quale non deve essere recitato ma cantato. I 31 diversi Rāg sono: Sirī, Mājh, Gauŗī, Āsā, Gūjrī, Devgandhārī, Bihāgŗā, Vaḑhansu, Soraṭhi, Dhanāsarī, Jatisirī, Ṭoḑī, Bairāŗī, Tilańg, Sūhī, Bilāvalu, Goņḑ, Rāmkalī, Naṭnārāin, Mālīgauŗā, Mārū, Tukhārī, Kedārā, Bhairau, Basantu, Sārańg, Malār, Kānaŗa, Kaliāņ, Parbhātī e Jaijāvantī, all’interno dei vari Rāg le liriche sono poi suddivise su base metrica.

Il Libro sacro è al centro di ogni rito Sikh e anche se Gurū Nānak afferma che nessuna formalità rituale e nessuna idolatria portino realmente sulla via tracciata da Dio e che solo la devota meditazione non ascetica ma pragmatica illumina il cammino, la semplicità del popolo necessita sempre di oggetto che ne stimoli la devozione, così l’Ādi Granth diviene il Sancta Santorum dei Sikh; via, mezzo e interlocutore per giungere a Dio adorato e riverito come una qualsiasi icona ma non per quello che materialmente è quanto per ciò che in esso è custodito, il segreto per aprirsi a Dio.

Le celebrazioni Sikh sono ben poche, la devozione la si manifesta con la retta condotta quotidiana e non con meri formalismi e l’Ādi Granth ne è componente fondamentale in quanto presenza della Sabadu. La prima cerimonia a cui un Sikh partecipa è quella del battesimo in cui semplicemente si leggono a caso dei brani del Libro Sacro le cui parole divengono la base per la scelta del nome del neonato. Per officiare il rito del matrimonio gli sposi girano intorno al Libro per quattro volte mentre gli altri partecipanti cantano gli inni che rammentano i doveri e gli obblighi dei futuri sposi come individualità, come coppia e come famiglia. L’ultimo rito Sikh è quello del funerale che viene eseguito mediane la cremazione del corpo del defunto, durante la cui commemorazione, che può durare fino ad una settimana, si leggono appositi brani del Libro. Il battesimo non celebra l’entrata a far parte della comunità religiosa della Sikh Panth ma è solo un rito di accoglienza con il quale si assegna un nome ispirato all’Ādi Granth, la religione dei Sikh è sostanzialmente etnica per cui già la sola nascita garantisce la piena partecipazione alla fede come Sahajdārī, la più importante cerimonia che invece apre le vere e proprie porte per il raggiungimento della Mukti e il Pāhal, l’iniziazione officiata per l’ingresso nel Khālsā, eseguita con l’Ammritu, il nettare dell’immortalità rimescolato con la Khaņḑa, la spada a doppio taglio. La forma ufficiale di saluto Sikh, che sostituisce il generico e Hindū “Namaste” è “Vahigurū jī kā khālsā, vahigurū jī kī fateh”, salute al khālsā del Gurū, salute alla vittoria del Gurū, caduta ormai in disuso e sostituita dal più coinciso “Sat Srī Akāl”, il Signore è l’Essenza Eterna.  

L’Ādi Granth viene conservato all’interno del Gurdvārā e ogni luogo in cui si trova una copia del Libro diviene esso stesso Tempio, viene aperto per tutte le cerimonie e per le preghiere quotidiane e ogni sera viene riposto, non ci sono sacerdoti, ogni fedele sufficientemente preparato può attendere alla lettura comunitaria e alla spiegazione delle letture, gli Inni cantati sono il mezzo attraverso il quale i cuori dei fedeli si protendono a Dio e Dio penetra nei loro cuori. La copia originale redatta da Amar Dās è conservata all’interno del tempio di Harimandir ad Amritsar.

Nella sua forma di Gurū Granth Sāhib, l’Ādi Granth insieme all’assemblea dei Sikh, che in questo caso diviene essa stessa Gurū Panth, è la manifestazione della presenza di Dio e della Sabadu ed è con questo spirito che Gurū Govind Siṅgh trasferisce il requisito di Gurū dall’uomo al Libro presente nell’assemblea, in questo modo la Sabadu si manifesta influendo e influenzando le decisioni stesse dell’assemblea. Decaduto ben presto questo filone democratico il Gurū Granth Sāhib rimane il più alto consesso Sikh dal punto di vista religioso e oggi di nuovo momento per l’espressione delle decisioni comunitarie. Il Gurū Panth non è presieduto da un sacerdote e anche se esistono chiaramente fedeli più preparati di altri nella lettura e interpretazione dell’Ādi Granth ogni Sikh può presiedere l’assemblea, ognuno è quindi chiamato a presiedere responsabilmente in prima persona alle cerimonie. In questo modo tutti sono e si sentono partecipi della loro fede allo stesso modo per questo poi oltre che assolutamente comunitaria la Sikh Panth è anche estremamente personale, perché è nell’intimo delle proprie private preghiere che ogni singolo segue la Via per il raggiungimento della Mukti confermandone gli intenti con la rettitudine nella conduzione della vita.

Nel canone ufficiale dei testi della Sikh Panth si annoverano altre due raccolte, il Dasam Granth, il libro del decimo, un opera che racchiude gli inni redatti dal Decimo Gurū, Gobind Siṅgh che egli stesso non ha inserito all’interno dell’Ādi Granth al momento della stesura della terza e definitiva versione del Libro Sacro e le Janaṃsākhī, una raccolta di racconti storici ma più che altro leggendari e spirituali della vita del Gurū Nānak più volte rimaneggiati e interpolati nel corso degli anni.

I SINGH DEL KHĀLSĀ

La Sikh Panth con i suoi pochi riti e le incessanti preghiere, comunitarie e private, non è un insegnamento accademico di teologia, Nānak non ha redatto alcun codice ma solo Inni alla grandezza di Dio, non consegna istruzioni per l’uso né metodi empirici per aggirare il volere di Dio, ma è fondamentalmente un tentativo per esprimere l’esperienza di ognuno con Dio nella vita e un modo per avviare e confortare la ricerca religiosa di Dio che non può essere attuata grazie a norme e ad atteggiamenti ma solo tenendo e mantenendo Dio dentro di sé attraverso la Sahaju, l’unione devozionale d’amore con Dio espressa attraverso la Simaraņa. Nānak porta avanti la sua evangelizzazione ritenendo di agire adempiendo ad una funzione affidatagli da Dio presentandosi non come depositario di conoscenze ma come testimone di quella rivelazione divina che tutti possono ascoltare direttamente da Dio nei propri cuori. Non però con un ritiro ascetico o con la vita monastica, la Sikh Panth o meglio la Gurmat, così i Sikh chiamano la loro fede, è una religione per laici, l’uomo deve essere nel mondo, vivere del proprio lavoro, attendere alla Sevā e alla Sanjamu, sconfiggere la Māyā non sfuggendole ma affrontandola e comprendendone l’infima inutilità con l’accettazione dalla Sabadu. Dio è unico e solo, la Gurmat è una religione strettamente monoteistica anche se molteplici sono gli appellativi con cui è chiamato Dio, il Suo unico e vero nome è Nām, Lui. Lui che ha creato l’universo tutto e lo spirito dell’umanità che è impersonale e inconoscibile ma allo stesso tempo personale e raggiungibile attraverso la preghiera. Onnipotente e infinito ma soprattutto è Ordine Maestro e Verità, anche quando il Suo meraviglioso gioco, la Līlā Hindū, non è ancora comprensibile. Creatore che opera nel Creato che è sua manifestazione, con modalità incomprensibili alla mente umana, se questa non segue la sua via, la Sikh Panth. Solo in tal modo si può comprendere che la mondanità, limitata dallo spazio e dal tempo, non è altro che la più grossolana manifestazione di Dio dietro cui si cela l’infinito, il sempiterno, il permanente e reale, l’è stato, l’è e il sarà. “Mosè disse a Dio: Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro? Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono! Poi disse: Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre: questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione”, “Io sono Colui che Esiste” (Es 3,13-15).

La teologia è molto semplice, Dio ha creato l’universo che è Esso stesso e con un preciso atto di volontà ha creato l’uomo, che è Esso stesso e a Esso è predisposto a tornare per arricchire l’amore di Dio per contrastare il male insito nell’esistenza stessa del bene come sua innata contrapposizione. L’uomo è creato vocato alla santità in quanto espressione perfetta della creazione perché dotato di corpo e spirito, Jīvātmā, a differenza di tutte le altre creature prive di spirito e dunque unico e solo capace di raggiungere lo stato di Santo e divenire nel Nirvāņa. Con l’intervento della Grazia Divina lo spirito imprigionato dal corpo traviato dalla Māyā, riconosce lo stato grossolano della sua esistenza e della sua dipendenza dalle cinque passioni: Lussuria, Kām; Ira, Krodh; Avarizia, Lobh; Smarrimento, Moh; Superbia, Ahaṃkār; che alimentano l’ignoranza e l’Haumai in un circolo vizioso che allontana la percezione stessa dello spirito confondendo ciò che è transitorio come la stessa vita materiale con ciò che è imperituro cioè il proprio Spirito Santo che solo grazie all’intervento Divino viene risvegliato. È dunque Dio creatore che come nuova vita dona all’uomo la Grazia della comprensione, non gli dona la vita eterna ma la cognizione del suo raggiungimento. Colui che non ascolta il proprio Spirito resta attaccato all’illusione della Māyā costretto nel Samsāra in una vita da Manmukh, che segue gli impulsi materiali, colui che invece abbandona l’Haumai diviene Gurmukh, che segue il Gurū, Dio. È infatti l’incontro e la frequentazione di Sādhu che aiuta l’uomo ad ascoltare la voce di Dio che è dentro di sé e conoscendola impara a seguirla come Satigurū.

Portare Dio con se quotidianamente nei propri pensieri e nelle proprie azioni aiuta poi il fedele a raggiungere l’apertura mentale capace di far rendere conto dell’inutilità della Māyā, che intrappola l’uomo con le catene dell’opportunismo e del narcisismo, l’Haumai distrugge il cuore dell’uomo e lo rende incapace di vedere la retta via per la Mukti. Aprendo invece il cuore alla verità la misericordia di Dio concede la capacità di sentirne la reale presenza elevandolo sopra le miserie umane. Dio è unico e solo, è Satigurū, trascendente ed immanente e supera questa sua incolmabile distanza dagli uomini manifestandosi in e mediante fenomeni comprensibili anche dall’uomo e fa questo senza detenere attributi, Dio non è la pioggia, non è il fuoco, non è il Libro, non è Gurū Nānak né i suoi successori, ma attraverso essi manifesta la sua esistenza, Dio non si è incarnato ne disceso in terra come Avatāra e Nānak non lo è mai stato considerato, Dio è in ogni cosa e il fedele si impegna a cercarlo e a servirlo. La fede Sikh è la via per aiutare l’uomo a prendere coscienza della propria sottomissione alla Māyā la quale prende forza dall’Haumai sedotto dalle mondanità, dall’effimero godimento delle materialità che però non colma l’animo umano e lo spinge ad abbandonarsi alle passioni terrene che portano all’ira, all’avarizia e alla sensualità che esaltano l’egoismo. Solo nell’intraprendere la via per la conoscenza il fedele riceve direttamente da Dio la capacità di concepirLo e grazie a questo finalmente potersi elevare sopra i mali della vita materiale priva di fede e per combattere il principale nemico dell’uomo che è l’ego il primo e più importante dei precetti introdotti da Nānak e la Sevā, il servizio reso agli altri e di conseguenza a Dio, un volontariato perenne reso ai bisognosi e bada bene, di qualunque religione essi possano essere. Il secondo precetto è la frequentazione dei Sādhu, la Satsaṅg, e l’unione con altri fedeli nel canto degli Inni per trovare in se l’amore verso Dio, quella devozione tipica del rapporto amoroso degli amanti, quella che gli Hindū definiscono Bahkti ed è con questa venerazione incondizionata che il pio intraprende il percorso dei Cinque Regni Mistici spostando nella propria vita l’attenzione da io a Dio, demolendo l’Haumai nel tentativo di raggiungere con Dio la Sahaju che lo porta alla liberazione. Non sempre è però sufficiente un’intera esistenza per raggiungere la Mukti per questo è concessa all’uomo la Metempsicosi al fine di continuare con la stessa e rinnovata devozione la Sikh Panth, la via dei Sikh verso Dio. Attraverso la condotta morale l’uomo si purifica e imbocca la via della liberazione, perseveranza, castità non monacale, saggezza pazienza autocontrollo e obbedienza all’Hukamu sono le principali virtù del Gurmukh ma una delle più grandi virtù è la soddisfazione, Santokh, quell’accontentarsi non rassegnato ma beato di quel qualsiasi poco o tanto che si è e che rende capaci di dominare le passioni e i desideri.

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Osteggiata, bistrattata, ignorata, umiliata e defraudata dei propri fedeli La Sikh Panth rischia, durante il dominio inglese, di scomparire improvvisamente. Il dominio Britannico porta con se missionari Cristiani che nel monoteismo Sikh trovano un terreno molto fertile, inoltre le pressioni politiche portano l’aristocrazia Sikh alla non sempre difficile scelta della conversione al Cristianesimo, l’ultimo sovrano Dalip Singh, nel 1853 all’età di quattordici anni si converte e viene esiliato in Inghilterra ricevendo in cambio un cospicuo vitalizio accettando di includere nel pacchetto anche il Koh-i-noor, la montagna di luce, 150 carati di diamante che adesso fa bella mostra di se nella corona reale Inglese. La sua giovane età e la lontananza lo portano però alla ricerca delle proprie radici fino alla riconversione, osteggiata dal governo Inglese, avvenuta ad Aden nel 1886 sulla via di quel ritorno che non riesce a compiere. Arrestato dalle forze militari Inglesi viene riportato indietro rinunciando per sempre a rivedere il suo paese, sia da vivo che da morto, dove era potuto tornare, sotto strettissimo controllo, soltanto nel 1860 per portare via la madre e nel 1863 per disperdere le sue ceneri. Muore a Parigi nel 1893 e contrariamente alle sue richieste viene sepolto in Inghilterra con rito Cristiano, come ultimo atto di disprezzo ed umiliazione per l’etnia e la religione Sikh.

Questi semplici atti incompiuti risvegliano però l’orgoglio dei Leoni Sikh portando alla fondazione della Singh Sabhā, una corrente di riforma e rifondazione della Sikh Panth, che lotterà per la propria affermazione nel Paṅjāb contro le pressioni politiche, l’educazione occidentale e le intrusioni Cristiane portando i Sikh nella modernità e nell’universalità, rinunciando alla ricerca del proselitismo per la sua natura etnica e esaltando il fondamento della Sevā rivolgendo le proprie preghiere a Dio non per i soli Sikh ma per tutto il mondo così come recita la preghiera conclusiva di ogni orazione quotidiana: “Il tuo nome e la tua gloria siano sempre trionfanti, Nānak, e, nella tua volontà, la pace e la prosperità vengano a ciascuno e a tutti.” Nel 1902 viene istituito il Khālsā Divān, un organismo che coordina i Gurdvārā assicurandone la custodia e il mantenimento ai membri del Tat Khālsā, il vero Khālsā, ortodossi Sikh noti con il nome di Akālī che nel 1920 fondano il partito politico indipendentista Akālī Dal. L’autorità religiosa risiede oggi nei cinque troni, i Gurdvārā di Amritsar, Patna, Anandapur e Nander, le cui eminenze si riuniscono solo per eventi eccezionali.

La fede Sikh continua oggi il suo percorso con rinnovato vigore, costretti all’emigrazione da una patria non propria si sono diffusi in tutto il mondo e dopo una prima generazione che è stata costretta alla solitudine e all’abbandono dei propri simboli a causa della formalità dei paesi che li hanno accolti, la riunione con le famiglie e il consolidamento dell’identità Sikh all’estero hanno portato ad una rinascita della simbologia Sikh tipica del Khālsā che le nuove generazioni hanno potuto di nuovo esternare.

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La meraviglia della Sikh Panth è la fede in Dio a prescindere, sono completamente assenti le domande fondamentali. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo e soprattutto perché? Semplicemente Dio ha creato l’universo. Perché? Perché poteva farlo. Come? Semplicemente l’ha fatto, così com’è venuto. Ha creato l’uomo instillando in esso la scintilla del suo Spirito Santo perché la sua capacità d’Amore gli permetteva di farlo e allora l’ha fatto. Ama così tanto l’uomo che anche se questo è accecato dalle stesse meraviglie transitorie che Dio gli ha donato gli concede la grazia di conoscere lo Spirito dentro se stesso e gli indica una via da percorrere non per ascendere al Paradiso ma per comprenderlo, il mistero Divino è talmente distante dalle concezioni umane che venirne a conoscenza senza la dovuta preparazione impedirebbe la sua stessa esistenza. Avete mai pensato all’infinito, c’è, è così e basta è là oltre tutto, non fa paura se non lo si deve affrontare. L’infinito del tempo e dello spazio non fa paura perché non lo si comprende, perché anche la nostra stessa immaginazione gli pone infine una fine che è pari alla nostra comprensione. La via indicata da Dio ci dona la possibilità di andare oltre la nostra stessa comprensione e divenire l’infinito, non accettarlo ma esserlo perché già lo eravamo senza saperlo, senza comprenderlo. Saremmo davvero capaci di vivere per l’eternità? Un eternità senza sogni e bisogni, cosa faremmo dalla mattina fino a quella inarrivabile sera di un giorno infinito? Come potremmo mai accettarlo con la nostra misera ignorante conoscenza se non diviene la conoscenza della Sabadu, del Sac. Non ci sono domande, c’è una via per divenire Sabadu e Sac. Vivi, condividi, prega. Non c’è l’inferno, non c’è Satana, non ce n’è bisogno perché è già inferno il Samsāra. Vivi, condividi, prega. Non c’è ascetismo, né monachesimo, né inquisizione, né peccato originale, né punizione, vivi, condividi, prega, raggiungi la Mukti, il resto è solo Samsāra. Semplice no?

La meraviglia della Sikh Panth si infrange contro le barriere della Māyā e diviene guerra di religione, si identifica nella Nazione e diviene guerra di indipendenza, la Māyā diviene il mezzo attraverso il quale la Sikh Panth arriva a potersi affrancare dalla violenza ma non lo fa e ancora attende mentre i Sikh sfilano armati di inutili spade e uccidono con autobombe non nel nome di Dio ma della loro libertà, pregando un Dio che si identifica nell’Hukamu. Vivi, condividi, prega. Gurū Nānak non è stato abbastanza chiaro.

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La Sikh Panth è aniconica come l’Ebraismo e l’Islam e in netta contrapposizione con la fede Hindū da cui direttamente deriva; predica l’uguaglianza come il Cristianesimo e come questo è per tutti anche per chi non la professa; vivi, condividi, prega, di qualunque fede sia stato battezzato o iniziato se ti attieni a questo semplice precetto raggiungi comunque la Mukti, è il tuo Karman a portarti alla liberazione non il nome del Dio che preghi.

Kirt kamāo, vaņḑ chako, nam japo”, fa il tuo lavoro, dividine il frutto, prega Dio. “Ora et Labora” sollecitava San Benedetto da Norcia mille anni prima. In nessun testo, sia cartaceo che multimediale, sono riuscito a trovare una testimonianza che avvicini la Sikh Panth al Cristianesimo, chiaramente parlo degli intenti originari di ognuna delle due fedi, non di ciò in cui gli uomini le hanno poi mutate, ma da Cristiano sento invece molto vicina e intima la connessione fra le due religioni. Nel Cristianesimo si vive il passaggio dal Dio oppressivo e vendicativo degli Ebrei al Dio misericordioso come tale è Namu, Dio e Namu chiedono solo che si preghi e che attraverso il pregare si conosca la vicinanza di Dio, è la preghiera la vera Panth, la strada che ci porta a conoscere la Sabadu. Forse la religione con cui, almeno ufficialmente, Gurū Nānak non è entrato in contatto è quella con cui condivide le più recondite concezioni. Come Gesù è venuto per tutti allo stesso modo i Sikh concepiscono Namu e non negano né l’esistenza né la consistenza delle altre fedi. Oso di più, Gesù è la Grazia che Namu concede al Gurmukh, è solo attraverso la grazia concessa da Dio con atto volontario che il pio Sikh può riuscire ad ascendere il Khaņḑu ed è solo attraverso Gesù che si arriva a Dio Padre Onnipotente. "Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me." (Gv. 14:6), non è questa la grazia che Gesù ci ripete ogni giorno? Io sono la via, la verità e la vita, Io sono Panth, Sabadu e Sac. Non è in fondo dell’Haumai che Gesù sta parlando quando afferma “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio.” (Mc 12:17), vivete nella Māyā, sfruttate la Māyā ma non credete in essa, affidatevi a Dio, ascoltate Dio, rendete a Dio ciò che è già di Dio, la vostra anima, quello Spirito già Santo che Dio ha insufflato dentro il primo uomo e che alita ancora dentro ognuno di noi. Quello Spirito sopito, annullato e celato dalla Māyā che ha bisogno della Grazia Divina per essere riconosciuto, che ha bisogno di ascoltare le parole di Gesù per essere liberato dalle catene della mondanità. Dio, Verbo, Sabadu, Satigurū, come parimenti affermano il Padre Nostro e il Mūla Mantru: Dio Onnipotente guidaci.

I DIECI GURŪ

Nānak : 1469 – 1539. Sādhu fondatore della religione Sikh, afferma che non esiste Hindū non esiste Musulmano, quale via allora seguire se non quella di Dio. Converte alla sua fede gran parte della comunità Kşatriya ma predica l’abolizione della divisione in caste, la completa devozione a Dio e all’intera comunità tramite la Sevā. Afferma il raggiungimento della Mukti attraverso il Simaraņa.

Aṅgad: 1504 – 1552. Gurū dal 1539 al 1552. Il suo vero nome è Lahiṅā, è il discepolo prediletto di Nānak da lui scelto per garantire alla comunità nascente una guida anche dopo la propria morte. La scelta ricade su Lahiṅā proprio per la sua assoluta fedeltà che permette al messaggio religioso e spirituale di Nānak di proseguire immacolato alle generazioni successive. Come Nānak è un Gurū, una guida spirituale teoricamente priva di un potere assoluto in quanto il Sikh Panth è un percorso che si comincia comunitariamente ma lo si prosegue e lo si conclude nell’intimo del proprio io liberato a Dio. Si stabilisce nella città di Khaḑūr dove vive del proprio lavoro e si prodiga nell’assistenza degli ammalati. Insegna ai discepoli la lingua che diverrà quella del Libro, il Gurmukhī, che meglio si adatta alla redazione degli Inni e delle preghiere lasciati in eredità dal Gurū Nānak e che in questo modo possono essere divulgati ovunque. Istituisce una serie di addestramenti fisici per i discepoli che risulteranno essenziali al momento della forzata trasformazione militare della fede.

Amar Dās: 1479 – 1574. Gurū dal 1552 al 1574. Durante la sua guida vengono istituzionalizzati i Laṅgar e favorito l’aiuto ai meno abbienti, anche non Sikh. Semplifica in maniera radicale i cerimoniali di derivazione Hindū riducendo le fasi culminanti della vita religiosa a soli tre riti, quello della nascita, del matrimonio e dei riti funebri. La semplicità della fede e dei suoi discepoli e la disponibilità dei fedeli originari porta, durante questo periodo, ad una conversione di massa anche in altre etnie come quella Jaṭ, le quali divengono numericamente la componente predominante. Per non rischiare che questa repentina espansione dia luogo ad una dispersione del messaggio originale Amar Dās suddivide il territorio pervaso dalla nuova fede in 22 Maṅjī a guida di ognuno dei quali pone un fedele discepolo con il titolo di Mahant e fra questi non disdegna di nominare anche delle donne. Si prodiga infatti anche per l’emancipazione femminile abolendo sia l’usanza Musulmana del Pardā, cioè la reclusione delle mogli e l’occultamento del volto per le donne, sia quella Hindū della Satī, l’immolazione delle donne sulle pire funerarie dei mariti durante il rito funebre.

Rām Dās: 1534 – 1581.  Gurū dal 1574 al 1581. Genero di Amar Dās da l’avvio ad una successione dinastica dei Gurū che si protrarrà fino al decimo ed ultimo. Si stabilisce a Rāmdāspur dove fa costruire una piscina per le abluzioni, mutandone il nome in quello attuale di Amritsar e avvia la costruzione di un tempio che diverrà il fulcro della fede Sikh.

Arjan: 1563 – 1606.  Gurū dal 1581 al 1606. Il minore di tre figli di Rām Dās, completa l’opera del padre finendo di costruire l’Harimandir, il tempio di Dio, il tempio d’oro di Amritsar e ampliando la piscina fino a farla diventare il laghetto artificiale che ancora oggi circonda il tempio. Redige l’Ādi Granth, contribuendo con numerosi Inni sacri. Aumenta il numero di Maṅjī nominando nuovi Mahant, facendo assumere alla fede Sikh quell’aspetto organizzativo ben definito di cui ormai necessita. I Mahant si occupano anche della riscossione dai fedeli delle decime, in sostituzione delle contribuzioni volontarie, in questo modo si assicura delle rendite eque e costanti per il mantenimento dell’apparato religioso. La sua figura si trasforma velocemente da quella di guida religiosa a quella di capo politico della regione destando l’attenzione del potente impero Muġal con cui fino alla fine del regno di Akbar mantiene ottimi rapporti di tolleranza e rispetto ma con la salita al trono di Jahāngīr le relazioni hanno un repentino decadimento, la crescente potenza Sikh, la militarizzazione dei fedeli e gli intrighi di palazzo convincono l’imperatore a far decadere ogni accordo, Arjan riceve accuse personali che lo portano alla morte per tortura nel 1606 donando ai fedeli Sikh il loro primo martire.

Har Govind: 1595 – 1644. Gurū dal 1606 al 1644. Figlio di Arjan, fonda Hargobindpur in territorio Jaṭ quasi a manifestare l’espansione territoriale Sikh, subisce però l’estrema pressione Musulmana ed è costretto a ritirarsi nella città montana di Kīratpur dove stabilisce il suo quartier generale religioso, politico ma soprattutto militare trasformando con il tempo la propria guardia armata in un vero e proprio esercito pronto a lottare instancabilmente per la libertà religiosa e politica del Paṅjāb.

Har Rāi: 1630 – 1661. Gurū dal 1644 al 1661. Nipote di Har Govind, anch’egli è costretto a rifugiarsi sulle montagne del Paṅjāb orientale. Nel 1658 con un colpo di stato nell’impero Muġal sale al potere Aurangzeb il quale avvia una campagna di persecuzione contro tutte le comunità non Musulmane dell’India costringendo il popolo Sikh a completare la militarizzazione della propria fede trasformando ogni fedele in un soldato.

Har Krishan: 1656 – 1664. Gurū dal 1661 al 1664. Il minore dei figli di Hār Rai, è costretto agli arresti domiciliari dall’imperatore Muġal Aurangzeb. Muore a Delhi agli arresti domiciliari all’età di otto anni.

Teg Bahādur: 1621 – 1675. Gurū dal 1664 al 1675. Figlio di Har Govind, per la sua profonda spiritualità vive errando in una sorta di Udasi sulle orme di Nānak prima di traferirsi in Bengala lontano dagli scontri e dalla persecuzione Musulmana. La distruzione di templi e l’esasperante oppressione dei fedeli lo riportano in patria dove però viene catturato per ordine di Aurangzeb e decapitato per aver rifiutato di convertirsi all’Islam divenendo il secondo grande martire dei Sikh.

Govind Siṅgh: 1661 – 1708. Gurū dal 1675 al 1708. Figlio unico di Teg Bahādur, mantiene il carattere spirituale del padre alla ricerca della purezza delle origini circoscrivendo l’essenza della fede in formule ternarie come “conoscenza-amore-servizio”, Gyan-Prem-Sevā e “Dio-generosità-purezza”, Nām-Dān-Snān ma allo stesso tempo porta i Sikh alla rivolta contro i Musulmani fondando la sua guida sulla terzina “commensalità-spada-vittoria”, Deg-teg-Fatah. Cresciuto sui monti Śivālik centro del culto della dea Hindū Durgā, rimane affascinato dalle mitologie del Mahābhārata e apprende il concetto di guerra giusta, la Dharma-Yuddha, che applica alla rivolta Sikh contro l’oppressione Musulmana, per lui il Nām è Sarab Loh, il Tutto Acciao. Si stabilisce a Ānandpur e ripristina il Darbar, l’udienza di corte, assumendo il potere di capo spirituale ma anche di vero e proprio sovrano, presentandosi ai Sikh ma anche agli Hindū come il condottiero che avrebbe liberato i popoli del Paṅjāb dall’oppressione Musulmana. Abolisce i Mahant e redige un codice di leggi basato sull’uguaglianza dei fedeli e il Dasam Granth, istituisce il Khālsā rafforzando ulteriormente il carattere militare della fede fino a farla coincidere con la Dharma-Yuddha in una sorta di democrazia religiosa di Sādhu soldati. Vince una battaglia a Bhangani nel 1686 cui seguono infinite sconfitte che però rafforzano l’identità Sikh. Sopravvive all’acerrimo nemico dei Sikh, l’imperatore Muġal Aurangzeb morto nel 1707 e prima della propria morte per mano di sicari Musulmani, trasferisce l’autorità del Gurū vivente nel Gurū Granth Sāhib, il libro diviene il verbo, lo spirito divino che aveva animato Nānak, la verità della fede, il vero Gurū, Dio.

I DIECI GURŪ

GLOSSARIO

Ādi Granth: il libro originale, la prima raccolta di Inni Sikh.

Aṅgad: membro del mio corpo, parte di me stesso, il nome dato da Gurū Nānak al secondo Gurū come manifestazione della continuità. Il gesto di affidare la propria luce ad un fedele discepolo, così come viene fatto fino al decimo Gurū, che investe di eterna continuità l’Ādi Granth che poi diverrà nella sua stesura definitiva il Gurū Granth Sāhib.

Avatāra: manifestazione materiale divina, i più famosi sono Kŗşņa e Rāma. Kŗşņa, Avatāra/dio, il più popolare, la vera devozione; Buddha, l’illuminato, nella persona del Gautama Buddha.

Bhagat: opere o parti di opera di Sādhu non Sikh contenute nell’ Ādi Granth.

Gurmat: la dottrina del Guru, come i Sikh chiamano la loro religione.

Dasam Granth: libro del decimo, l’opera che racchiude gli Inni del Decimo Gurū, Gobind Siṅgh.

Gurdvārā: la porta del Gurū, il tempio.

Gurmukhī: l’alfabeto creato da Gurū Nānak per permettere una migliore comprensione degli scritti contenenti il suo messaggio, cantati con melodie a cui questo alfabeto meglio si adatta, sia ai suoi conterranei che alle diverse etnie visitate.

Gurū: guida spirituale.

Gurū Granth Sāhib: il libro divenuto Verbo e Dio stesso, l’autorità del Gurū passata al Libro dal Decimo Gurū, Gobind Siṅgh.

Gurū Panth: l’assemblea del Khālsā.

Haumai: l’ego umano abbagliato dalla Māyā, prigioniero della mondanità e dei peccati.

Hukamu: l’ordine Divino, allo stesso tempo ingiunzione salvifica e armonia universale. Compi per raggiungere la liberazione e il tuo compierlo crea e mantiene l’armonia universale.

Ikk: il semplicemente Uno, senza secondo, eterno, infinito, compenetrante; l’appellativo dato a Dio dal Gurū Nānak.

Janaṃsākhī: i racconti storici e leggendari della vita del Gurū Nānak.

Japjī: la preghiera mattutina composta da Gurū Nānak, un inno di trentotto strofe sintesi dei principali insegnamenti del fondatore.

Japu: ripetizione ossessiva del Nāmu.

Jāti: complesso sovrafamiliare che acquista i tratti di una tribù. Ogni individuo è legato alla propria famiglia che si allarga ai componenti acquisiti, manifestandosi attraverso una peculiare attività lavorativa.

Karman: le azioni compiute che determineranno la durata del Samsāra.

Kaur: Principessa, l’appellativo delle donne appartenenti al Khālsā.

Khālsā: la comunità dei puri.

Khālistān: il paese dei puri, l’utopia politica di una nazione Sikh indipendente.

Khaņḑu: i cinque regni mistici di compimento spirituale.

Kşatriya: la Casta rappresentativa del potere militare nella suddivisione in Caste della religione Hindū.

Laṅgar: il refettorio comune in cui i Sikh si riuniscono per il pasto senza distinzione di Casta.

Mahant: Guida spirituale del Maṅjī.

Māyā: la falsità dei valori che indirizzano la vita umana.

Maṅjī: distretto, diocesi in cui viene suddiviso da Amar Dās il territorio Sikh.

Mukti: la liberazione dal ciclo di rinascite, la fine del Samsāra.

Mūla Mantru: la formula fondamentale in cui sono sintetizzati i principi della fede Sikh, la richiesta a Dio di una guida.

Nāmu: indicativo generico del nome Divino.

Nirguņa Saṃpradāya: tradizione religiosa del Dio senza attributi, i seguaci del culto praticato senza immagini.

Paṅj Kakke: le cinque K, i cinque simboli degli appartenenti al Khālsā; Kes, capelli e barba intonsi, Khaṅgā, il pettine che trattiene i capelli; Kirpān, la spada; Kaŗā, il braccialetto di metallo; Kach, il calzone corto.

Paṅj Piāre: i cinque amati, il nucleo originario del Khālsā.

Pāhal: il battesimo per l’ingresso nel Khālsā effettuato con l’Ammritu, il nettare dell’immortalità, acqua dolcificata, rimescolato con la Khaņḑa, la spada a doppio taglio.

Partition: la divisione operata nel 1947 dagli inglesi per separare i territori coloniali del subcontinente Indiano a seguito della quale il Punjab è stato sventrato in parti pressoché uguali e sottomesso alle autorità politiche Musulmane del Pakistan e Hindū dell’India.

Paṅjāb: il Punjab, la terra dei cinque fiumi, la regione Indopakistana in cui ha avuto origine la religione Sikh.

Rāg: i modi musicali in cui possono essere cantati e recitati gli Inni.

Rahrās: la preghiera della sera composta da nove Inni di vari Gurū.

Sabadu: il Verbo, la Parola di Dio.

Sādhu: anche Sant, religiosi erranti, poeti mistici.

Sahaju: l’unione d’amore con Dio, frutto della relazione di devozione del discepolo verso Dio.

Sahajdārī: che hanno comunque facilitazioni per il raggiungimento della Mukti, i Sikh non appartenenti al Khālsā.

Samsāra: il ciclo delle rinascite terrene.

Satigurū: il vero Gurū, Dio, l’ultimo ed eterno Gurū.

Sanjamu: la disciplina religiosa proposta dal fondatore Nānak.

Sevā: il servizio reso agli altri e a Dio per il benessere comunitario.

Sikh: discepolo, poi discepolo di Nānak, infine discepolo del Gurmat, per estensione discepolo di Dio.

Sikh Panth: la via dei Sikh, non solo la religione ma il modus vivendi dei Sikh.

Simaraņa: rammemorazione del nome di Dio, il portare Dio con se e nelle proprie azioni.

Siṅgh: Leone, appellativo degli uomini appartenenti al Khālsā.

Sohilā: la preghiera della notte composta da cinque Inni di vari Gurū.

Sūdra: i servi e i fuori casta Hindū, gli intoccabili eredi degli indigeni Indiani conquistati e assoggettati dagli invasori Arya.

Tīrath: i pellegrinaggi nei luoghi santi del Sikh Panth.

Udasi: i pellegrinaggi di predicazione, conoscenza e testimonianza resi dal giovane Gurū Nānak prima di dare vita alla nuova fede.

Vār: ballate eroiche, leggende e racconti composte dal mistico Bhāī Gurdās che rappresentano il reale stile di vita Sikh.