Quanto scrivi
quanto hai da dire
quanto hai da dare
per fare tuo
che disse
è tutto sbagliato
è tutto da rifare.
Vivi tra le righe
che docili
escono dalle tue mani
che semplici
escono dalla tua mente
che dolci escono dalla tua anima
sei famiglia ora
sei casa
sei lavoro
e la tua musa t’accompagna
nella vita e nella fantasia
e insieme vi donate al mondo
e al mondo andate
girandogli intorno
con occhi di luce
un addio al passato
un addio al silenzio
un addio al Concorde
un addio Charlie Brown
benvenuta vita nova.
1 GENNAIO 2000
GENNAIO 2000
20 MAGGIO 2000
Aiko
Il
gelo era ormai passato, i ghiacci resistevano testardi sulla vetta del
Monte Sacro, ancora circondato da sciami di nebbie e fredde brine. Da
lassù l’aria fresca di nevaio lasciava discendere gli ultimi aliti della
stagione finita e anche se alla sommità della montagna solo in pieno
solare il calore si sarebbe fatto sentire, più in basso la Grande
Pianura era oramai completamente sgombra dalla fredda presenza della
neve. Il suolo ancora brullo già mostrava i primi coraggiosi fili d’erba
e qualche fiore frettoloso faceva capolino sotto tiepidi raggi di sole.
Fiorile se ne stava per esplodere con i suoi colori, con i profumi e
con i venti tiepidi della Grande Pianura, l’erba sarebbe cresciuta
rapida e alta, pronta a nascondere a proteggere ed a nutrire tutti gli
abitanti della valle. Damon era il nuovo Capobranco del popolo della
Vetta, la sua forza, la sua determinazione, l’innata saggezza, la
combattività e la fierezza, degna del più robusto nero e peloso stallone
che si fosse mai visto nella Grande Pianura, l’avevano reso il degno
successore del vecchio Salainok.
Il predecessore di Damon, nella lusinghiera ma faticosa carica di
guida per il Popolo dei cavalli della Vetta, era stato grande nella
saggezza e nel temperamento, condottiero insostituibile per il branco e
insuperabile componente del Consiglio a capo della Mandria che abitava
la Grande Pianura, un immensa distesa verde che si estendeva tra la
montagna, ripida e rocciosa e la foresta, fitta e buia. Salainok era
stato forte e capace con i devoti figli di Uin, dio di tutti i cavalli
ma, suo dolore e sconfitta, incapace di trattenere l’esuberanza e
l’arroganza del proprio figlio Galan, sfortuna per lui e per tutta la
pianura.
Galan era divenuto presto una triste leggenda ma la sua storia
aveva origine dalla verità. Era accaduto solo poco tempo addietro ed era
stato il peggior evento che il branco della Vetta avesse sofferto, di
più era stato il più orribile accadimento mai verificatosi in tutta la
Grande Pianura, sia per la Mandria che per tutti gli animali piccoli o
grandi che trovavano rifugio nella valle e che da essa traevano
sostegno. Un cavallo aveva ucciso un altro cavallo. Galan, figlio di
Salainok, aveva ucciso Nadir, padre di Damon e Ministro privato di
Salainok. Da allora il malefico cavallo vagava per chissà quali terre
lontane, ogni tanto tornava alla Grande Pianura per rubare del cibo o
per spaventare giumente e puledri, quel fiorile però il suo ritorno
aveva uno scopo ben preciso, doveva in qualche modo terminare ciò che
aveva cominciato.
Durante l’ultimo Nevaio il vecchio Salainok si era incamminato
mestamente verso la sommità del Monte Sacro, lungo il sentiero avrebbe
avuto il tempo di porsi le domande che nel corso della sua esistenza
erano rimaste senza risposta e certamente fra queste ce ne sarebbe stata
una bella sfilza dedicata al suo pur sempre amato ma irrecuperabile e
malefico figlio. Dalla cima avrebbe poi spiccato un ultimo grande salto e
si sarebbe ritrovato a galoppare nelle verdi distese del paradiso dei
cavalli, con i suoi avi ed i suoi compagni di mille corse tra i boccioli
profumati della Valle dei Fiori e le fresche ombre del Bosco dei Semi
Duri. Là, tra le celesti praterie del cielo, avrebbe sicuramente
ricevuto le risposte ai suoi interrogativi ed il giusto conforto per la
sua difficile paternità.
A capo di tutta la Mandria della Grande Pianura c’era il Consiglio
dei Dieci, si riuniva per ogni luna nuova ed era formato dai dieci
Capobranco dei popoli della pianura accompagnati dai loro fidi Ministri.
C’era il popolo della Piana, quello della Steppa, quello del Bosco, del
Colle, dei Fiori, della Costa, delle Caverne, del Ruscello, del Lago e
infine il popolo della Vetta. Ogni branco aveva occupato uno dei tanti
territori che formavano la Grande Pianura, i vari popoli erano in pace
tra loro e vivevano tutti felicemente riuniti nella vasta e generosa
valle. Qualche scaramuccia ogni tanto animava la pianura e soprattutto
nella stagione degli amori, i cavalli si fronteggiavano in scontri
impetuosi, si prodigavano in rapimenti di puledre e talvolta
effettuavano sconfinamenti un po’ troppo vistosi nei territori altrui,
tutte ghiotte occasioni per dare inizio a movimentate zuffe generali che
erano più vicine a dei folcloristici combattimenti che a delle vere e
proprie battaglie. Ogni popolo aveva il suo territorio da cui trarre
nutrimento, da accudire e da conservare fertile per le generazioni
future, tutti condividevano però i benefici e soprattutto la grande
abbondanza di cibo che la Grande Pianura offriva. La vera e propria
pianura era posta al centro degli altri territori e costituiva il
ritrovo di tutti i branchi ed il luogo dove i puledri scalciavano le
loro prime lotte, dove i cuori si rincorrevano al suono degli zoccoli e
dove i cavalli prima gareggiavano, vanitosi e arroganti e poi
conquistate le loro puledre, consumavano quieti e docili le giornate
della stagione amorosa che coronava poi gli sforzi di stalloni e
giumente con la nascita di nuovi puledri, nutrimento primario per la
vita di tutta la Mandria della Grande Pianura.
La giumenta avanzava lentamente, il sole era alto nel cielo ed il
calore che sprigionava ed irradiava sulla Grande Pianura era niente a
confronto di quello che la giovane Savannah sentiva crescergli dentro.
Portava avanti una zampa dopo l’altra, senza una meta, ritmando il
respiro con il suo lento trotterellare, cercando di far coincidere i
dolori dentro il suo ventre con il rumore degli zoccoli sulle dure rocce
della Vetta. Damon non l’abbandonava per un attimo, la seguiva
accompagnando i suoi passi a quelli di lei, sommando il rumore dei suoi
zoccoli ed il battito del proprio cuore a quelli della sfinita compagna.
Damon riusciva a tenere sotto controllo contemporaneamente la pianura e
la sua compagna, attento che non avessero a sorgere problemi o
contrattempi tra i componenti del suo popolo. Risse per il cibo o per
nuove conquiste potevano distrarlo dal suo principale interesse, proprio
nel momento cruciale dalla tanto attesa e desiderata nascita di un
puledrino, bello, sano, nero e con il pelo lungo. Girovagavano inquieti
alla ricerca di un luogo che li potesse accogliere per il parto, un
posto dove finalmente potersi fermare, con il passo ritmato, tenuto da
Savannah per contrastare le pulsioni interne che le stringevano il
ventre, si ritrovarono presto a calcare il morbido suolo della pianura,
così il loro erede avrebbe avuto quello della pianura come appellativo,
preceduto dal nome che avevano già scelto per lui: Aiko.
All’inizio apparve il naso, due nere narici che fiutarono l’aria
ancor prima di sapere che c’era un fuori da trovare, furono il suo
saluto alla Grande Pianura e tramite il suo primo respiro cominciò a
conoscere la valle che l’avrebbe accolto. Savannah continuava a
procedere lentamente, le sue zampe affaticate si trascinavano le une
dietro le altre fino a trovare un nuovo ritmo. Passo, contrazione,
guizzo in fuori del piccolo Aiko, che cercava di uscire dal ventre pur
sempre generoso ed accogliente della madre ma i profumi che cominciava a
catturare erano ben gradevoli ed attraenti ed in lui già premeva il
desiderio di conoscere questo posto così vario e così, così luminoso. Il
muso era infatti completamente uscito e la luce calda e sgargiante di
quel giorno di sole colpì gli occhi di Aiko, il piccolo puledro ancora
non riusciva a distinguere le forme ma poteva certo notare la differenza
fra la luminosità che l’attendeva nella valle ed il caldo ma buio
pancione della mamma. Con fatica per entrambi ma con naturalezza e senza
intoppi Aiko riuscì a poggiare le zampe anteriori a terra, potè così
assaggiare con i suoi zoccoli il sapore fresco della Pianura, poi
finalmente sgusciato completamente si ritrovò dritto su tutte e quattro
le zampe prima di crollare a terra dopo un breve istante. Damon, che
aveva seguito tutto con attenzione si avvicinò al puledrino per far
sentire il proprio odore, il proprio calore e il respiro, insieme alla
compagna lo carezzarono dolcemente strusciando muso contro muso, per
incoraggiarlo ad alzarsi. Ci fu un attimo di timore, le gambe fini come
piccoli arbusti tremarono appena poi Aiko si ritrovò in piedi e cominciò
a compiere i primi passi, i primi trotterellanti passi ed il primo
abbozzo di galoppo prima di franare sopra la morbida erba fra le
fragorose risate di Damon e di Savannh. Dopo un primo sbigottimento ed
un po’ di risentimento anche Aiko si mise a ridere e finalmente a
vivere. Quei primi giorni vicini al proprio puledro fecero ritornare
alla mente di Damon ricordi antichi e dolorosi, quelli della sua
giovinezza, quando suo Padre Nadir era Ministro del Popolo della Vetta,
fedele e laborioso assistente di Salainok, ricordarsi quei giorni fu un
po’ come viverli di nuovo, in tutta la loro intensità e fu come
riesumare un fantasma sepolto nel tempo.
Salainok era appena divenuto Capobranco, acclamato a gran nitrito
dal popolo della Vetta e benedetto dal gran dio Uin, protettore di tutti
i cavalli. Il branco era composto da un centinaio di meravigliosi
esemplari molti dei quali ostentavano un pelo nerissimo e lucido a
garanzia della loro appartenenza alla Vetta. Fra i più numerosi della
Grande Pianura il branco della Vetta occupava anche un posto di rilievo
nelle decisioni del Consiglio, il popolo della vetta aveva sempre
offerto dei saggi ed onesti consiglieri e per questo era sempre ben
visto e rispettato. Già da Ministro Salainok aveva contribuito alla
formazione di nuove leggi, sia per la spartizione del territorio che per
il controllo della situazione alimentare, contribuendo anche a
risolvere particolari problemi anche agli altri popoli. La sua compagna
Mariann, finita l’attesa, aveva partorito uno stupendo puledro, nero,
dal pelo lungo e dal forte nitrito, gli fu messo a nome Galan e poiché
era nato sulla dura roccia sarebbe stato chiamato Galan della Vetta e di
li a poche stagioni avrebbe rappresentato la più oscura sventura per
tutto il branco e per l’intera Mandria. Galan si sarebbe macchiato delle
peggiori infamie mai compiute in tutta la Pianura, già da piccolo la
disubbidienza, l’invidia e la cattiveria lo portavano a continue
punizioni che col tempo si rivelarono però inutili. Il padre nonostante
la sua posizione e le sue forti dottrine, faticava a riprenderlo e
addirittura durante una riunione del Consiglio dei Dieci fu proposta
l’ipotesi di cacciarlo dalla Pianura e più di uno dei partecipanti si
schierò a favore e addirittura il capo del Popolo della Steppa propose
di ucciderlo gettandolo dalla cima del Monte Sacro ma era ancora un
puledro, acerbo e un po’ troppo ribelle, crescendo avrebbe sicuramente
imparato e poi, in realtà, nessuno avrebbe avuto il coraggio di mettere
in pratica le pur giuste proposte che erano state lanciate durante quel
consiglio, mai era accaduto che un cavallo fosse allontanato dalla
Mandria, figuriamoci ucciderlo, il tempo avrebbe sicuramente fatto
dimenticare tutto questo e Galan un giorno sarebbe diventato un buon
Capobranco. Ma tutto questo non avvenne. Il tempo passava, Galan
cresceva e con lui cresceva la sua cattiveria, di notte compiva assurde
scorribande tra gli altri branchi per spaventare i piccoli puledri,
rubava le scorte di cibo, lottava con i cavalli più deboli, con i vecchi
stalloni malati, non era mai presente alle riunioni del branco e tanto
meno a quelle della Mandria. Non faceva parte del gruppo, ma la sua
indipendenza non era guidata da sani principi Galan cresceva e con lui
crescevano la sua cattiveria, il suo odio e la sua invidia nei confronti
di Nadir. Lo stallone era il padre di Damon e ricopriva una carica
molto importante, era infatti Ministro del Popolo della Vetta, era in
pratica colui che vigilava sul branco, che provvedeva a definire gli
scontri e che concordava nuove disposizioni e nuove leggi con gli altri
Ministri, colui insomma che operava materialmente le decisioni di
Salainok e del Consiglio dei Dieci e grazie alla sua carica, soprattutto
colui che un giorno ne avrebbe preso il posto. Ma quel posto lo voleva
Galan e lo voleva molto presto, non avrebbe atteso certo la morte del
padre, figuriamoci se si sarebbe messo in coda dietro a Nadir, Galan
avrebbe presto governato il popolo della Vetta e ne avrebbe fatto il
popolo guida di tutta la Mandria e lui sarebbe divenuto l’unico e solo
capo di tutti i cavalli della pianura e questi lo avrebbero dovuto
seguire, onorare, e assecondare.
L’odio e la follia di Galan arrivarono a fargli architettare un
piano per liberarsi di Nadir, galoppando a più non posso lo raggiunse
nei pressi del territorio del Lago e ancora trafelato, gli riferì che il
figlio Damon si era intestardito nei suoi propositi e nonostante i
consigli contrari che egli stesso aveva cercato di dare, era voluto
salire sulla cima del Monte Sacro per vedere con i propri occhi il
segreto della Vallata. Solo pochi istanti prima invece Damon e Galan
erano assieme nella Valle dei Fiori e là Galan aveva cominciato a
ricamare il suo malefico progetto.
Damon e Galan trotterellavano sulla distesa verde, immersa in un
fiorile caldo, come poche giornate riuscivano a regalare, l’erba ed i
fiori erano un manto variopinto a sfondo verde che si perdeva a vista
d’occhio. Gli uccellini volavano cantando, lanciando i loro acuti versi
per tutta la valle e le farfalle, come fiori ballerini, sembravano
proprio danzare, davanti agli occhi ingenui e curiosi di Damon, al ritmo
degli armoniosi suoni di rigogoli, passeri e usignoli. L’aria frizzante
entrava dalle narici e pizzicava dentro al naso facendo sentire tutta
la sua forza, tutta la potenza della natura, tutto il calore che il sole
donava, in quel meraviglioso fiorile inoltrato. Giornate spensierate un
po’ per tutti, momenti in cui chiunque si poteva ritrovare a correre
dietro alle farfalle, giorni in cui l’amore dava i propri frutti, giorni
in cui molte giumente davano alla luce i propri puledri. La stessa
epoca in cui, nel ciclo passato, anche Damon e Galan erano venuti alla
luce, entrambi in pieno giorno, baciati dal sole, uniti nella gioia
della nascita che in breve tempo si sarebbe trasformata però in una
sventurata unione di tristi eventi, tristi ricordi e tristi momenti e
che li avrebbe cuciti insieme per sempre, da amici prima e da nemici
poi.
Oltre la Valle dei Fiori, in fondo, quasi all’orizzonte guardando
verso il sole che sorge, la pianura si interrompeva bruscamente e la
dura roccia prendeva il posto dei colori e del verde dell’erba, la
scarna pietra scendeva ripida per un lungo tratto e là in fondo dove,
così si diceva, nessuno si era mai avventurato si vedevano luccicare le
anime dei sacri fondatori della mandria. In realtà un tempo qualcuno
era arrivato fino laggiù, era riuscito a tornare ed aveva raccontato ciò
che aveva visto. La verità era conosciuta solo dai componenti del
Consiglio dei Dieci e dai loro Ministri ed era gelosamente tenuta
segreta come tutte le sacre leggende sul Monte Sacro e sul dio Uin,
protettore dei cavalli della pianura, che abitava tra le nubi della
montagna ed estendeva il suo regno in tutta la volta celeste e le
migliaia e migliaia di anime dei saggi cavalli volavano in cielo ogni
notte e li si poteva vedere, in forma di stelle luccicanti nel buio del
cielo notturno poi, di giorno ridiscendevano sulla terra e si recavano a
pascolare nella Vallata, là dove, affacciandosi dalla Valle dei Fiori,
li si poteva vedere brillare e luccicare sotto la luce splendente del
sole. Nel profondo della gola rocciosa che si formava al di là della
Valle dei Fiori alle pendici del Monte Sacro, dalla parte opposta alla
Grande Pianura, in quella porzione di pianoro conosciuto come la
Vallata, si raccoglievano in realtà le ossa di tutti i cavalli che,
vecchi e affaticati avevano arrancato lungo gli stretti sentieri del
Monte Sacro e giunti sulla cima, dove si apriva un ampio spazio
leggermente degradante verso la vallata avevano, come diceva la
leggenda, spiccato l’ultimo salto verso una prateria celeste e piena di
stelle protettrici e amiche. I resti dei vecchi cavalli, morti sulla
cima del Monte Sacro, erano negli anni scivolati oltre il bordo della
montagna ed erano rotolati giù fino in fondo, fino alla Vallata e la si
erano raccolte le une sulle altre, stagione dopo stagione, branco dopo
branco per tutte le mandrie che si erano avvicendate nella Grande
Pianura. Adesso sul fondo della Vallata luccicavano, nelle giornate
calde e soleggiate, le ossa di migliaia e migliaia di cavalli, puledri,
stalloni e giumente che nel corso del tempo avevano percorso la lunga
salita del Monte Sacro, da soli o trasportati malati dai Ministri del
Popolo.
<Ma davvero mio padre ti ha detto questo?> chiese Damon fra un salto e una scrollata.
<Tuo padre mi ha chiesto di accompagnarti qui nella Valle dei
Fiori, lui ti avrebbe raggiunto più tardi, alla fine della riunione del
Consiglio dei Dieci> confermò mentendo Galan <Tuo padre ha
veramente intenzione di rivelarti il segreto della Vallata, purtroppo io
devo andarmene via subito, il mio grande padre Salainok mi attende per
darmi insegnamenti sul comando, per divenire il nuovo Capobranco della
Vetta.>
<Mio padre mi rivelerà il segreto, il segreto della
Vallata!> esclamo Damon strabuzzando gli occhi dalla gioia e dalla
curiosità <Il segreto, il segreto delle anime di mille cavalli, uau,
sai Galan sono proprio felice di questo e sono orgoglioso di meritarmi
questo premio da mio padre ma perché mi sono guadagnato un premio, cosa
ho fatto per ottenerlo, eh Galan cosa ti ha detto mio padre, cosa ti ha
detto?>
<Beh, come dire è una cosa che i padri importanti fanno per i
loro figli, tuo padre oggi ti rivelerà il segreto della Vallata, ti
racconterà tutto come già da tempo mio padre ha fatto con me> precisò
Galan continuando a mentire <poi tu, come me, dovrai conservare il
segreto e non raccontarlo mai a nessuno>
<Ma a nessuno nessuno, nemmeno agli altri puledri, nemmeno agli amici>
<No, mai> disse Galan non riuscendo più a smettere di
mentire <Anch’io non l’ho mai raccontato a nessuno, adesso potrei
tranquillamente svelarti il segreto ma non posso, sarà tuo padre a dirti
tutto, solo lui può raccontartelo>
<Va bene va bene non lo dirò a nessuno ma tu…, davvero tu non puoi dirmi niente, dai racconta ,dai solo un po’, dai>
<No!>
<Dai, su dai, solo un pochino pochino>
<Mmmh, vabbè, solo un pochino pochino però eh, solo un po’,
anzi no, guarda mi sembra proprio che stia arrivando qualcuno, io sarà
meglio che me ne vada, si allora vado, tu aspetta qui che tuo padre
arriverà fra poco e ti racconterà tutta la storia del segreto della
Vallata, poi fammi sapere eh mi raccomando> aggiunse allontanandosi
<io vado, ciao Damon, ciao ciao a presto.>
<Ciao Galan, ciao e grazie di tutto, ciao>
<Ciao ciao, si ciao stupido> mormorò tra sé Galan, ormai
lontano <Ciao ciao e aspetta pure tuo padre, che non arriverà mai, no
caro mio se tutto fila secondo i miei piani tuo padre non arriverà mai
più, ciao ciao sciocco puledrino, ciao ciao> e si gettò al galoppo.
Via verso la Vetta, doveva raggiungere Damon al più presto e mettere in
scena la seconda parte del piano, dopo essersi preso gioco del figlio
adesso doveva trottare a burlarsi del padre.
<Presto presto Nadir, presto presto> Galan arrivò trafelato
alle pendici della montagna, là dove cominciava il territorio del popolo
della Vetta. Nadir trotterellava tranquillamente controllando la
pianura e gli avvenimenti pacifici che vi accadevano quotidianamente,
pronto sempre e comunque ad intervenire per qualsiasi motivo.
<Cosa c’è Galan, cosa è mai successo> chiese diffidente al
puledro, ormai lo conosceva bene e sapeva quanto poco c’era da fidarsi
di lui.
<Presto Nadir> riprese trafelato <E’ Damon, è salito, io…
,io, glie l’ho detto di non farlo, ma lui…, lui ha tanto insistito>
<Cosa stai dicendo Galan di cosa stai parlando, per Uin>
<Damon, Damon è voluto salire per il sentiero, è… è voluto
salire, io… io non volevo, gli ho detto no… no, non andare ma …non sono
riuscito a fermarlo, mio padre, ha detto, mio padre sarà d’accordo, va
tutto bene mi ha detto ma io, io… non gli ho creduto e sono venuto qui
da te per dirti tutto>
<Allora Galan per favore, se vuoi davvero dirmi tutto
ricomincia da capo, parla e fallo con calma, cosa ha fatto Damon?>
<Allora ecco uhmm Damon è salito per il sentiero, ha detto che
voleva arrivare in cima, che voleva vedere il luogo da cui tutti
spiccano l’ultimo salto, per volare nelle pianure celesti, ha detto che
tu lo sapevi o che anche se non lo avessi saputo, sarebbe stato tutto a
posto che non c’erano problemi, lui voleva soltanto salire e poi tornare
indietro, da solo>
Nadir sapeva bene di cosa si trattava, più di una volta aveva
accompagnato cavalli vecchi o malati fino allo spiazzo sulla sommità
della montagna e sapeva quanto fosse duro e pericoloso il tragitto che
portava fino alla cima ed aveva visto con i propri occhi i corpi di
cavalli anziani e stanchi che, saliti sulla montagna da soli, avevano
abbandonato i loro corpi lungo il sentiero o erano caduti nei crepacci o
nelle strette gole disseminate lungo la strada. Nadir non pose altro
tempo in mezzo, partì al galoppo per raggiungere il piccolo Damon per
riuscire a fermarlo prima che fosse troppo tardi. Galan si gettò dietro
di lui e galoppò faticosamente sulla salita della montagna. Damon
intanto non aveva avuto la pazienza di aspettare il padre nella Valle
dei Fiori e non era molto distante dai due quando questi si misero a
galoppare verso il monte, rimase insospettito dalla scena che vide, così
impaurito e incuriosito prese anche lui a galoppare lungo il sentiero
che portava in cima al Monte Sacro.
Nadir giunse sulla cima del monte, era stanco, sfinito dal veloce
galoppo e dall’aver percorso l’intero sentiero in così breve tempo. Più
volte aveva salito la montagna ma sempre con calma, accompagnando
cavalli stanchi e malati ed alcune volte aveva impiegato un intero
giorno per giungere fino alla sommità, là dove si era poi separato da
loro dopo amorevoli parole di conforto e di amicizia. Quella volta
invece la foga, l’impeto e la paura per il figlio Damon, dettata dal suo
irrefrenabile istinto di padre, l’avevano portato sulla cima in
pochissimo tempo. Appena arrivato cominciò disperatamente a guardarsi
intorno nella speranza di vedere il figlio e di poter intervenire prima
che gli potesse accadere qualcosa ma intorno non vedeva nessuno e tutto
era silenzio. Quando un filo di fiato ritornò nei suoi forti polmoni,
cominciò a nitrire forte per chiamare Damon, il suo era un grido
disperato ed impaurito, nitriva, cercava, ascoltava ma intorno a lui
c’era solo il vuoto, si avvicinò senza ormai speranza al bordo del
precipizio, sicuro ormai di affacciarsi e di riconoscere sul fondo della
Vallata il corpo esanime del caro figlio. Galan era ancora molto
giovane ma la sua follia e il suo odio lo aiutarono a mantenere la
veloce andatura di Nadir, su per lo stretto sentiero, fra le tortuose
gole e in mezzo a tutti i pericoli della salita alla cima del Monte
Sacro, come Damon anche lui si era più volte ferito scivolando sui
friabili sassi del sentiero o colpendo col proprio corpo le dure rocce
che lo delimitavano ma per entrambi le ferite ricevute rappresentavano
soltanto un ulteriore stimolo a scalare ancora più rapidamente la
montagna, Galan raggiunse così il largo spiazzo sulla montagna e vide
Nadir sporgersi dal precipizio.
Damon si addentrò tra le strette viscere del Monte Sacro dietro a
Galan e al padre Nadir e lo fece, inizialmente, con tutta la sacralità
ed il rispetto che si usa quando il nostro corpo va a disturbare un
luogo sacro, i suoi passi erano lenti, cauti, e silenziosi e più il
sentiero diveniva ripido e stretto più Damon saliva lentamente,
guardandosi intorno impaurito dal luogo e dalla sua importanza, sentiva
più avanti i rumori delle veloci cavalcate del padre e di Galan e ad un
certo momento, facendosi coraggio, provò a chiamare Nadir, lo invocò ma
la sua flebile voce si frantumò alla prima stretta curva del sentiero e
non raggiunse le orecchie del padre. A quel punto Damon, un po’ con il
cuore, un po’ con la ragione acquistò quella decisione e quella fierezza
che lo avrebbero poi contraddistinto da adulto e partì al galoppo,
anche se, durante quel tragitto, ancora i suoi giovani occhi avevano da
vedere cose molto più spaventose di uno stretto, tortuoso e buio
sentiero. Cominciò galoppare incurante del sacro suolo su cui posava i
suoi zoccoli anche se la sua andatura era frenata dalla pericolosità e
dalla difficoltà del percorso, lungo i lati della stradina vedeva ogni
tanto dei piccoli monti di strani sassi con strane forme e più ne vedeva
e più si rendeva conto che non erano sassi, fino a che non ne trovò uno
con ancora tutte le ossa ben saldate fra di loro e potè rendersi conto
di cosa realmente fossero. Cavalli o perlomeno quello che ne restava.
Zampe, teste, corpi vuoti e inanimati, tutto ad un tratto il sentiero
sembrò ancora più stretto, ancora più buio, le pareti sembravano
piegarsi addosso a lui, i rami dei pochi arbusti sembrava che lo
volessero ghermire, che si volessero impossessare di lui, sembrava
desiderassero fermare la sua cavalcata verso la cima, verso il luogo
dove suo padre lo stava cercando, riconobbe il nitrito di Nadir che
invocava il suo nome, suo padre si disperava e Galan, il suo strano e
temibile amico, era con lui. Ma erano insieme per lo stesso scopo o
avevano due diversi desideri da soddisfare, quelle insistenti e
maldicenti voci sulla superbia del suo amico Galan erano false o avevano
un fondamento di verità. Non si rese conto allora e ripensandoci non si
è mai saputo dare una risposta, se fu la paura di quel luogo sacro e
misterioso, se fu la rabbia verso quel Galan che lui credeva amico o
l’amore per il padre ma le sue zampe misero letteralmente le ali, i suoi
zoccoli non toccavano il suolo sembrava come trasportato dalle forti
aquile della Vetta. La sua corsa fu però inutile, giunto alla fine del
sentiero appena affacciatosi sul largo spiazzo alla sommità del monte,
la scena che gli apparve dinanzi fu la più straziante e dolorosa che i
suoi occhi avrebbero mai visto.
I due cavalli stavano lottando furiosamente, Galan aveva sorpreso
Nadir proprio vicino al precipizio e adesso stava cercando di gettarlo
di sotto con tutta la sua prepotenza e la sua folle rabbia. I due non si
risparmiavano i colpi, fieri e imbizzarriti l’uno davanti all’altro,
con gli zoccoli che scalpitavano sullo spigolo del dirupo, feriti in più
parti del corpo dalla corsa lungo il sentiero, dalla lotta, dai morsi e
dai calci che si scambiavano con grinta e con furore ma alla fine fu
una mossa di Galan a terminare la lotta, con le zampe posteriori si
puntò e con quelle anteriori riuscì a colpire Nadir che fu spinto nel
vuoto della Vallata. Si udì un atroce nitrito e poi solo la voce di
Damon che gridava il nome di suo padre.
E fu gridando che Damon percorse all’indietro il sentiero e
ritornò sfinito e sgomento verso la valle, i suoi nitriti si sentirono
per tutta la Grande Pianura, amplificati dalle strette gole della
montagna si riversarono, come un fiume in piena, verso le orecchie dei
cavalli che stavano placidamente pascolando. Tutta la mandria si riversò
alle falde del monte incontro ai nitriti disperati di Damon, nessuno
riusciva a capire cosa stesse mai succedendo e quando il figlio di Nadir
apparve furono tutti colpiti dal tormento che gli si leggeva sul muso.
<L’ha ucciso> gridò <Galan ha ucciso mio padre Nadir!>
La mandria cominciò prima a mormorare e poi a sollevarsi.
<Come è mai potuto accadere?> c’era chi si chiedeva.
<Io lo sapevo che quello era un poco di buono!> c’era chi esclamava.
<Presto cerchiamolo> gridavano i cavalli imbizzarriti
<Dov’è andato?> chiedevano.
<Chi lo ha visto?> domandavano.
<Dobbiamo cercarlo, presto organizziamo delle squadre>
<Popolo della Steppa seguitemi> nitrì il loro Capobranco
<Voi del Lago, da questa parte>
<Cavalli della Steppa al galoppo>
<Presto branco della Vetta cercate mio figlio> nitrì
Salainok <E che sia fatta per lui la giustizia che merita>
aggiunse demoralizzato e sconfitto l’umile Capobranco.
Il popolo della Vetta e la mandria tutta rimasero sbigottiti
nell’ascoltare le parole del povero Salinok ma la su fedeltà al popolo
della Grande Pianura andava al di là di ogni altro diritto ed inoltre
l’affronto subito da Nadir, dalla sua famiglia, dal suo popolo e
dall’intera Mandria era arrivato nel profondo del suo cuore ed aveva
colpito duro. Non era mai riuscito da solo a controllare e contrastare
il proprio figlio ed era riuscito a non farlo cacciare credendo in cuor
suo che un giorno sarebbe cambiato ma le sue speranze erano risultate
vane e sentiva sua la colpa della morte di Nadir. Se avesse fatto
esiliare Galan, quel giorno, adesso non avrebbe potuto uccidere il suo
fedele compagno, anche perché sicuramente gli scopi della sua azione
sarebbero venuti a mancare. Salainok aveva intuito che suo figlio voleva
impunemente impossessarsi della Mandria e di tutta la Grande Pianura.
Il Consiglio dei dieci si riunì frettolosamente ed in quella
breve, concitata e triste riunione fu deciso di esiliare per sempre
Galan dal teritorio della Grande Pianura e che la trasgressione a tale
ordine sarebbe stata punita con la morte, nonostante sapessero che
nessuno avrebbe avuto il coraggio di ucciderlo, anche se in molti
avrebbero gradito affrontarlo in un combattimento ad armi pari. Da quel
giorno Galan divenne il fantasma della pianura, le madri impaurivano i
propri turbolenti puledri minacciandoli di chiamarlo per portarli via o
ricordandogli che sarebbero diventati come lui e di conseguenza
scacciati dalla pianura, se non avessero obbedito. Il povero Salainok
subiva senza ribellarsi questa umiliazione, sempre più debole, sempre
più chiuso in se stesso, in quello stato d’animo che, in pochi cicli di
stagioni lo avrebbe poi portato alla morte tra le sofferenze dei sensi
di colpa e l’immensa tristezza per quanto accaduto a suo figlio e al suo
caro amico Nadir. La vita nella pianura riprese a tranquillizzarsi dopo
pluviale mentre la stagione di nevaio, che quell’anno sarebbe stata
particolarmente rigida, già faceva sentire i primi freddi. Ogni tanto
qualcuno diceva di aver visto Galan, o di aver sentito il suo folle
nitrito ma dopo un po’ di tempo rimase solo una leggenda, almeno per tre
cicli di stagioni, fino a quel fiorile che vide la morte di Salainok,
la proclamazione di Damon a Capobranco e la nascita di Aiko.
Quel mattino Aiko riuscì a convincere Savannah e Damon a lasciarlo
giocare da solo nella Valle dei Fiori, più di una volta si era recato
tra i magnifici colori del prato fiorito con i propri genitori e come
tutti i puledrini era affascinato dall’arcobaleno di piante che si
distendeva immenso dalla pianura fino al costone della Vetta da una
parte e alla tetra Vallata dall’altra. Forse era proprio quel miscuglio
di cose che rendeva così appetibile la Valle dei Fiori a tutti i
piccoli. Colori, fiori, profumi, insetti di tutte le dimensioni e
anch’essi colorati, che svolazzavano o saltellavano e poi la dura roccia
su un versante e la leggenda delle anime luccicanti che abitavano la
Vallata sull’altro. Gira, gira, trotta o galoppa i puledri finivano
sempre a rimirare a bocca aperta, i luccichii che si riflettevano sul
lontano fondo della valle proibita. Non era un cosa particolare che Aiko
andasse da solo nella Valle dei Fiori, in fondo era il luogo di ritrovo
per giochi e passatempi fra i piccoli cavalli della pianura che, appena
erano abbastanza grandi da poter ritrovare la strada per il loro
territorio e dopo una lunga serie di preghiere e di musi imbronciati
riuscivano a strappare ai loro genitori il permesso di galoppare da soli
tra i fiori colorati. Aiko stava trottando con gli altri puledri,
scorrazzavano in lungo e in largo rincorrendo farfalle, cavallette, api,
solcando quel mare verde pieno di macchie colorate. Gira gira, anche
Aiko finì al bordo della valle e si ritrovò a cercare i luccichii di cui
tutti parlavano, nel bene e nel male, misteri, leggende, il dio Uin, la
Vallata era il luogo da cui, si dice, provenivano i cavalli ed il
luogo, si precisava, in cui sarebbero tornati e la cima del Monte Sacro
era il trampolino per la pace che la valle sottostante prometteva e Aiko
ne era attratto quanto la misteriosa valle, se non di più, la sua
curiosità e la sua fantasia lo facevano galoppare anche nei pensieri e
aveva già formulato a suo padre il desiderio di salire sul Monte Sacro.
Aiko era completamente assorto nei sui pensieri, già si vedeva sulla
vetta del monte a rimirare le anime luccicanti dei cavalli di tutti i
tempi e non sentì che gli si stava avvicinando un cavallo fino a che non
percepì il calore del suo fiato proprio sul collo. La sorpresa e
l’essere colto in flagrante a sbirciare nella Vallata erano cause
sufficienti a fargli fare un bel balzo di paura ma la vista di
quell’orribile essere lo congelò con gli zoccoli piantati per terra.
<Ciao, tu devi essere Aiko?> gli domandò quell’incredibile
stallone nero e peloso, completamente ricoperto di cicatrici, con un
occhio quasi del tutto chiuso e senza un orecchio.
<Ss….s….sss….ssss….sì> riuscì a rispondere il puledro
<Eeeee t…tt…tu cccc….ccc…..cccchhhiii sss….ssss….sseiiii?> cercò
di chiedergli.
<Io sono colui che non puoi vedere, sono l’errore della
Mandria, sono colui che sa, colui che potrebbe liberare la mandria
intera dall’insulso potere del Consigli dei Dieci, colui che ne avrebbe
il diritto> terminò quasi ringhiando e Aiko ebbe un fremito di paura
ma poi scovò il coraggio che viveva libero nel suo sangue e dopo i primi
tremiti cominciò a parlare tranquillo.
<E qual è il tuo nome?> chiese.
<Il mio nome te lo posso dire certo, come ho potuto farmi
vedere da te, ma tu devi promettermi che non rivelerai a nessuno di me e
del nostro incontro>
<Prometto> esclamò subito Aiko.
<Ma si e io dovrei credere ad una promessa così impulsiva,
così immediata di un piccolo puledrino bugiardo che non vede l’ora di
andare a raccontare tutto ai propri amici per farsi grande con loro e
magari anche ai propri genitori, magari a tuo padre Damon!>
<Ma… ma…tu come fai a sapere come mi chiamo e… e come fai a sapere come si chiama mio padre e come fai…>
<Io sono l’anima della Mandria, io so tutto di tutti> lo
interruppe <io seguo tutto vedo tutto e conosco la vita pubblica e
segreta di ogni abitante della pianura, conosco i nomi di tutti e i loro
guai. Allora prometti!>
<Si lo prometto, su Uin e… e sul Monte Sacro, prometto che non
rivelerò a nessuno di te e del nostro incontro> continuò quasi
lusingato il povero Aiko, ignaro del guaio in cui si stava cacciando
<prometto che non rivelerò il tuo nome e prometto… a proposito,
qual’è il tuo nome, ancora non me lo hai detto>
<Io sono Galan, Galan della Vetta> e galoppò via.
Galan non si fece più vedere da Aiko per un intero ciclo di
stagioni ma era sicuro di aver inciso in lui un profondo solco di
curiosità, Aiko non parlò mai a nessuno di quell’incontro, né ai
genitori né agli altri puledri, conservava geloso il suo segreto,
convinto che quello strano e disastrato stallone sarebbe tornato per
terminare quello che aveva cominciato, anche se il cavallino non aveva
la più pallida idea di cosa fosse ciò a cui Galan aveva dato inizio. Da
allora ascoltava con passione e con interesse tutte le leggende che
riguardavano il suo misterioso amico, Galan aveva fatto questo, Galan
aveva fatto quello, chi l’aveva veduto compiere salti inimmaginabili,
chi lo aveva sentito nitrire con voci inudibili ma nessuno mai parlava
di ciò che realmente era accaduto, nessuno osava ricordare cosa
veramente Galan aveva fatto, quale ignobile e dissacrabile atto avesse
mai compiuto, così Aiko trascorse le stagioni aspettando, crescendo e
attendendo il ritorno di Galan.
E Galan tornò. Il fiorile successivo Galan posò di nuovo i suoi
zoccoli sulla morbida terra della Grande Pianura, era venuto per
completare ciò che aveva cominciato. Aiko vide la sua ombra lontano
sull’orizzonte, poteva essere quella di qualunque altro cavallo ma lui
lo riconobbe immediatamente, lo riconobbero la sua passione e la sua
curiosità, adesso sapeva che avrebbe saputo, presto i segreti della
leggenda di Galan e del Monte Sacro gli sarebbero stati svelati. Sentiva
nel profondo del suo cuore che qualcosa non andava, che il suo silenzio
non avrebbe dovuto essere tale; le stagioni erano passate e lui aveva
costantemente sentito una flebile vocina, proveniente dal cuore, che gli
diceva di parlarne, almeno con suo padre Nadir, parlarne. Ma la sua
curiosità e la sua bizzarria di puledrino gli avevano fatto ogni volta
dimenticare quel consiglio che gli giungeva da dentro, adesso era più
che mai curioso e più che mai impaurito da quello che sarebbe potuto
accadere e ciò lo frenava e lo spronava allo stesso tempo.
Galan sparì ed il giorno successivo mostrò di nuovo la sua ombra,
stagliata contro il sole sorgente, lontano oltre i margini della
pianura, oltre la Valle dei Fiori, oltre la Vallata. Scomparve di nuovo e
di nuovo riapparve il mattino dopo e così fece per i giorni successivi,
certo che quel suo mostrarsi e nascondersi avrebbe, ancor di più e
definitivamente, attratto Aiko nella trappola che gli stava tendendo.
Poi un mattino, mentre stava trotterellando lungo il confine della
Vallata, Aiko se lo ritrovò davanti, silenzioso come un fantasma, gli si
era avvicinato come un serpente che, invece che camminare sugli
zoccoli, striscia sul proprio ventre e questo lo fece attraversare da un
brivido di terrore.
<Salve a te Aiko>
<Sa…sa…salve, Galan… Galan della Vetta> lo salutò il puledro.
<Sento con piacere che ti ricordi il mio nome> prese a dire
subdolo il vecchio stallone. <Non tutti si ricorderebbero il nome di
un cavallo conosciuto chissà quante stagioni prima, è denso di onore
questo tuo saluto>
<Sai, ho pensato molto a te in tutto questo tempo e…>
<Anch’io ho pensato a te, ti ho pensato moltissimo> lo
interruppe Galan <Ho pensato e alla fine ho deciso che era giusto che
tu sapessi tutto di me, della mia leggenda e della mia storia ed io
tutto ti racconterò, tutto il male che mi è stato fatto, tutto ciò che
mi è stato tolto, tutto ciò che tuo padre mi ha portato via. Vieni
piccolo Aiko, vieni con me, saliamo in cima al Sacro Monte del dio Uin,
saliamo insieme sulla vetta di questa montagna così piena di misteri e
di segreti da svelare e mentre percorreremo il Sacro Sentiero ti
racconterò come sono andate veramente le cose>
Galan ed Aiko, si incamminarono non visti verso l’inizio del
sentiero che li avrebbe portati sulla cima, qualcuno da lontano forse
notò l’incontro ma nessuno avrebbe potuto capire cosa stava accadendo e
nessuno poteva immaginarsi chi e cosa stavano facendo così vicini
all’imbocco del Sentiero Sacro. I due cavalli si addentrarono per lo
stretto passaggio e presero a salire verso la vetta della montagna e
Galan cominciò a raccontare la sua storia, mentiva ed inventava
spudoratamente, mantenendo quel suo non rispetto verso la Mandria e
verso la grande Pianura. Riuscì a ricostruire tutta la storia invertendo
le parti, come se fosse stato Damon ad uccidere il padre Nadir. Aiko
ascoltava incredulo ed il suo senso giovanile di ribellione verso i
genitori ed il padre in particolare, si cibava delle menzogne che Galan
gli porgeva come del cibo prelibato, ad ogni falsa cattiveria
raccontata, l’orgoglio di Aiko si gonfiava e lo faceva ripensare ad ogni
volta che suo padre gli aveva proibito qualcosa, al fatto che vista la
sua importante carica all’interno del branco, anche lui come figlio
doveva comportarsi in un modo opportuno, non andare di là, vieni qua,
non fare questo, fai quello, facile comandare un puledrino ignaro quando
si sono compiute cose orribili come quelle che Galan gli stava
raccontando.
<È tutto vero, di me ti puoi fidare piccolo Aiko> concluse
Galan <Mi dispiace che tu lo abbia saputo in questo modo ma visto che
tuo padre non ti raccontava niente, ho creduto meglio per te che
qualcuno ti facesse sapere come erano andate veramente le cose, adesso
continua pure da solo per il sentiero, trotta fino alla fine e attendimi
sullo spiazzo che troverai sulla cima, io adesso torno indietro, ti
preparerò una sorpresa, una gradita sorpresa, tu aspettami sulla vetta
ed io ti mostrerò le prove di tutto ciò che ti ho raccontato>
<Devo proseguire da solo?> chiese intimorito Aiko.
<Certo, non avrai mica paura, un bel puledrino forte e grande
come te non avrà mica paura delle leggende, non hai niente da temere da
questo sentiero, vedrai cose orribili ma non ti potranno fare alcun
male, continua pure coraggioso Aiko, continua> lo esortò ironico
Galan <Va attendimi sulla vetta ed io ti porterò colui che sa la
verità quanto me> e galoppò via.
Aiko riprese la salita verso la vetta del Monte Sacro e quello che
potè vedere era veramente orribile, come aveva fatto suo padre prima di
lui stava percorrendo quella strada in un età troppo acerba per capire e
per comprendere con esattezza ciò che vedeva, i corpi dei poveri
cavalli che stremati nelle forze si erano abbandonati ai lati del
sentiero lo atterrivano e mescolandosi con le fandonie che Galan gli
aveva raccontato provocavano in lui incubi ad occhi aperti, vedeva suo
padre scalpitare, scalciare, mordere ed uccidere tutti quei poveri
cavalli innocenti, uno ad uno li aveva trascinati lì con l’inganno e li
aveva uccisi per ottenere onori, gloria e potere che altrimenti non
avrebbe mai avuto. Trotterellava tutt’altro che sereno e preso dai sui
sconvolgenti pensieri arrivò al largo da cui si dominava la Vallata,
l’altro misterioso arcano del popolo della Grande Pianura, da lassù si
vedevano ancora meglio i luccichii delle anime dei cavalli, anche se si
capiva ancor meno cosa fossero. Il terreno era molto pericoloso, lo
slargo era colmo di corpi di cavalli e di ossa ancora salde fra di loro o
sparpagliate informi e sbriciolate. Lo spiazzo era leggermente
degradante verso lo strapiombo e tutto ciò che veniva colpito dai suoi
zoccoli rotolava via oltre il precipizio. Aiko pensava e pensava e
lentamente si stava ripulendo di tutte le oscenità che Galan gli aveva
propinato, perché mai suo padre avrebbe dovuto fare ciò che
quell’orripilante cavallo gli aveva raccontato, suo padre non era cosi ,
suo padre era buono e solo cose buone aveva insegnato a lui e più volte
si era reso conto da solo che ciò che suo padre gli proibiva o gli
ordinava, era perché lui crescesse sano e coscienzioso, non per
cattiveria o per malvagità. Poi aveva sentito dire più di una volta che
Damon accompagnava i vecchi cavalli per il sentiero e che lo faceva per
aiutarli, per aiutare il loro spirito ad arrivare fino lassù per poi
poter morire in tranquillità e spiccare quel salto che li avrebbe
portati nel regno di Uin. Certo le ossa che vedeva erano quelle degli
anziani cavalli che venivano sulla vetta a morire e poi, si certo poi i
poveri resti scivolavano lentamente e poi, si poi cadevano di sotto, si
certo spiccavano il grande salto e poi, si poi le ossa cadevano giù
nella vallata e si accatastavano le une sulle altre, montagne intere di
ossa che si rompevano, che si sbriciolavano e che luccicavano poi sotto
il sole come se fossero le anime degli stalloni morti. Quella era la
verità, quella verità che suo padre conosceva, che ogni Capobranco
conosceva, che ogni Ministro conosceva che la Mandria ignorava, perché
la verità vera era che se anche le cose stavano come lui aveva capito,
la verità vera era che il grande salto si compiva davvero e che nel
regno di Uin tutti avrebbero galoppato felici e le loro anime sarebbero
discese nella vallata a scaldarsi al dolce calore di solare e nelle
tiepide mattine di nevaio. Quello che lui poteva vedere era vero ma era
solo la rappresentazione materiale della vera verità. Ormai non aveva
più bisogno di discorsi di prove o di racconti di vecchi cavalli
frastornati e folli, voleva solo tornare indietro e raccontare tutto a
suo padre Damon e a sua madre Savannah. Cominciò così a ridiscendere il
sentiero ma si perse tra le gole della montagna proprio mentre suo padre
passava galoppando a più non posso e nitrendo il suo nome. Aiko lo udì e
ne seguì il suono e in quel momento capì cosa era veramente accaduto.
Quando Damon se lo ritrovò davanti credette più di vedere un
fantasma che un cavallo vero e proprio. In fondo la sua esistenza era
stata segnata dalla presenza di Galan e Galan, ogni tanto, era già
venuto a trovarlo nei suoi sogni più agitati, nei suoi incubi; lo
rincorreva lungo il sentiero del monte sacro, lo raggiungeva sulla cima
per lottare ed ogni volta Damon precipitava sul fondo della Vallata
nitrendo e scalciando e scalciando si risvegliava con il corpo coperto
di sudore e la schiuma alla bocca. Quella volta però era vero e quando
Damon se ne rese conto ebbe un brivido di paura.
<Bentornato, beh dico almeno bentornato lo si può dire ad un
vecchio amico> cominciò sarcastico Galan <Cosa c’è ti sei morso la
lingua, oppure non hai più parole buone per il tuo caro vecchio amico
Galan, quello con cui galoppavi da puledrino, ricordi Damon ricordi il
passato?>
Damon era combattuto tra la rabbia e il timore, non capiva cosa volesse Galan e aveva paura di saperlo.
<Perché sei tornato…> chiese.
<No no no, non perché sei tornato ma… perché sei tornato Galan,
è forse questa la domanda che volevi porgermi? E’ così?>
<Cosa vuoi da me… Galan, cosa vuoi dalla Mandria, quello che ti
era stato dato tu lo hai rifiutato. Saresti stato un buon Capobranco,
avresti avuto il posto che adesso è mio ma a te non bastava non volevi
amministrare, tu… tu volevi comandare, volevi dominare, volevi dettare
legge, volevi farla tu la legge a tuo uso e consumo; quello che la
Mandria poteva offrirti non lo hai gradito, adesso… adesso cosa vuoi,
perché sei tornato, perché sei tornato Galan?>
<Tuo figlio….>
Al solo sentire quelle parole Damon non ebbe bisogno che fosse
aggiunto altro, le intenzioni di Galan gli apparvero chiare come se lo
avesse sempre saputo e se lo fosse tenuto nascosto e segreto in un
angolo della mente, in un angolo del cuore. Galan era tornato a
concludere ciò che aveva cominciato, quando uccise suo padre Nadir
avrebbe dovuto uccidere anche lui e adesso era tornato per farlo e
probabilmente si sarebbe servito di Aiko per questo o peggio ancora
avrebbe ucciso anche il giovane puledro. Ma lui era li per impedirglielo
ed in quel momento prego il dio Uin che Aiko fosse ancora vivo.
<Dov’è Aiko? Cosa hai fatto a mio figlio, dov’è Aiko,
dov’è?> chiese Damon fra l’imbizzarrito e l’angosciato per la sorte
del suo puledrino.
<Calma, calma vecchio mio> cercò di acquietarlo Galan
<Tuo figlio è sano e salvo, illuminato dalla mia verità, sano, salvo e
trotterellante sulla cima del Monte Sacro>
<Prega il dio Uin che mio figlio stia bene davvero, altrimenti
te ne avrai a pentire Galan. Così Aiko sarebbe sulla cima della
montagna, che insulso e diabolico scherzo vuoi giocarmi questa volta
Galan, quanto ancora vuoi continuare a mentire, quanto ancora a fare del
male a me, alla mia famiglia, alla Mandria> continuava disperato
Damon <Dov’è mio figlio Aiko, dov’è Galan rispondimi e fallo con la
verità>
Galan non rispose, lanciò un diabolico nitrito e si mise a
galoppare veloce verso il Monte Sacro e di lì prese a salire per il
sentiero e Damon lo seguì disperato, angosciato ma pronto a tutto e
soprattutto attento, aveva da tempo imparato a non fidarsi di Galan ma
adesso doveva seguirlo doveva vedere con i propri occhi, ne andava della
vita del suo cavallino, così prese a galoppare dietro Galan più veloce
che poteva e nitrendo a più non posso il nome di suo figlio Aiko.
Damon arrivò per primo sulla cima della montagna schiumando di
sudore e di rabbia, nitriva disperato il nome di suo figlio e giunto
sullo slargo che si apriva sulla vetta, si rese conto che Aiko non era
sulla montagna, nel suo cuore sperò che fosse tutta una messa in scena,
che Galan e Aiko non si fossero mai incontrati e che il suo puledrino
non fosse mai salito sul Monte Sacro, mentre una vocina disperata gli
diceva che Aiko era precipitato sul fondo della Vallata e giaceva senza
vita fra le ossa degli antichi abitanti della Pianura. Non ebbe modo
però di piangere o disperarsi, perché l’arrivo precipitoso di Galan lo
riportò ad affrontare l’immediatezza della situazione, doveva tirarsi
fuori da quel guaio e farlo velocemente per dedicarsi quanto prima alla
ricerca di Aiko. Galan era sorpreso almeno quanto Damon di non trovare
il puledro ad attenderli, aveva veramente creduto di essere stato
convincente con lui, di averlo raggirato bene bene e di averlo portato
dalla sua parte, sarebbe stato meraviglioso uccidere Damon mentre suo
figlio gli dava del bugiardo ma a quel punto si sarebbe accontentato di
ucciderlo e basta, poi avrebbe pensato al maledetto figlio di Damon e
avrebbe sistemato per sempre anche lui, nessuno sarebbe scampato alla
sua vendetta.
<Cerca, cerca pure. Tuo figlio non è qui adesso ma c’è stato e
sicuramente è nei dintorni, a questo puoi credere davvero e…>
<Credere a te Galan è difficile veramente, anche se c’è stato
un tempo in cui io ti credevo, ti credevo amico, ti credevo parte della
Mandria e amico mio e degli altri puledrini che, come noi, avevano
voglia di crescere e diventare neri e forti stalloni ma a te non è
bastato …>
Galan si avvicinava minaccioso a Damon ed entrambi erano molto, troppo prossimi al precipizio.
<Finiscila Damon sei patetico, i puledrini, gli stalloni, il
dio Uin, bla, bla, bla, tuo padre era un ostacolo per me ed ha fatto la
fine che doveva fare, tu sei un ostacolo adesso, un ostacolo al mio
orgoglio ferito e farai la fine che avresti dovuto fare allora!>
Detto questo Galan si gettò addosso a Damon e i due cominciarono
furiosamente a lottare. Calci, morsi e spinte non si risparmiavano,
Damon cercava di difendersi dai colpi e allo stesso tempo di mettere
Galan a distanza per cercare una diversa via d’uscita a quell’immenso
guaio in cui erano precipitati. L’avversario invece si era gettato a
corpo morto nella lotta, non risparmiava niente di se, utilizzava tutte e
quattro le zampe per colpire il suo avversario, utilizzava il suo morso
per indebolirlo e la sua forte mole per avvicinarlo sempre di più al
burrone che li attendeva silenzioso a pochi zoccoli da loro.
Damon era ormai sull’orlo del precipizio e Galan si era drizzato
sulle zampe posteriori cercando di sferrargli un ultimo e decisivo
colpo. Fu in quel momento decisivo che Aiko, presente allo svolgimento
di tutta la scena si gettò al gran galoppo verso di loro, nitrendo il
nome di Galan. Il perfido cavallo si voltò sorpreso verso quel nitrito e
fece appena in tempo a vedere Aiko galoppargli contro, poi dritto in
tutta la sua opprimente mole, in precario equilibrio sulle zampe ormai
stanche, fece quel passo che non avrebbe mai dovuto compiere ed il suo
zoccolo mancò, quanto fu sufficiente, il bordo di roccia che lo separava
dal burrone.
Un nitrito folle accompagnò la caduta di Galan e un tonfo sordo ne
confermò l’arrivo sul fondo della Vallata. Padre e figlio si
ritrovarono l’uno accanto all’altro, sconvolti ma finalmente uniti, per
sempre.
<Padre, io… io avrei… avrei qualcosa…qualcosa da dire…>
<No Aiko, io, io avrei avuto qualcosa da dirti di cui tu ormai
sei già al corrente, vieni, avremo molto tempo per parlarne ancora,
adesso andiamo, tua madre ci starà sicuramente cercando e noi, noi
abbiamo qualcosa da raccontargli, a lei e a tutta la mandria; dobbiamo
dire loro come va a finire la leggenda, la leggenda del cattivo Galan,
quella che si è conclusa grazie al tuo cuore ed alla tua prontezza>
L’incubo era finito, la Grande Pianura era finalmente libera dal
tormento del malvagio cavallo. Il puledrino, ancora colmo di rabbia, si
affacciò allo strapiombo a cercare più in basso la macchia scura del
corpo ormai senza vita di Galan e contro di lui, nitrì con tutto il
fiato che aveva in gola:
<Io sono Aiko, Aiko della Pianura!>
FINE
22 MAGGIO 2000
LA COLLANA DI PERLE
Le parole da sole
non hanno valore
ma possono divenire
realtà.
Scivola fra le mie braccia
sì che io possa amarti
per l’eternità.
Stupido tempo
che non si ferma
a guardare l’alba
negli occhi dell’amore.
Come angeli testardi
continueremo ad amare
e per sempre.
A volte
due cuori lontani
si fanno c
28 MAGGIO 2000
X CONCORSO NAZIONALE DI POESIA "DANIELA PAGANI - MANUELA MASI" - C.A.L.C.I.T. CHIANTI FIORENTINO - BAGNO A RIPOLI (FI)
ATTESTATO DI PARTECIPAZIONE CON LE POESIE "LAVORI IN CORSO", "LEGGIMI" E "SOLO" TRATTE DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"
28 LUGLIO 2000
28 AGOSTO 2000
XLI EDIZIONE PREMIO INTERNAZIONALE DI POESIA "S.DOMENICHINO" - CITTA' DI MASSA MARINA DI MASSA (MS)
PUBBLICATO IN ANTOLOGIA CON LA POESIA "ANGIOLIN BELLIN BELLINO" TRATTA DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"
24 SETTEMBRE 2000
7° PREMIO INTERNAZIONALE DI LETTERATURA "ARTEPOESIA A MONTEPULCIANO" - MONTEPULCIANO (AR)
PUBBLICATO IN ANTOLOGIA CON LA POESIA "PREZIOSO" TRATTA DALLA RACCOLTA "III MILLENNIO"
28 OTTOBRE 2000
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE "SCRITTORI PER IL TERZO MILLENNIO" - ORGANIZZAZIONE CENTRO EUROPEO DI CULTURA - ROMA
DIPLOMA D'ONORE - 2° PREMIO NELLA SEZIONE NARRATIVA PER IL RACCONTO "AIKO DELLA PIANURA"
29 XI 2000
Lentamente
mi sono legato a te
mentre i giorni
passavano
dentro
alla profondità dei tuoi occhi
mentre lasciavo
che il mio corpo
si sciogliesse
nell’essenza della vita
spremuto in un vortice
di piacere e di pace
sciolto
in un liquido denso
che ti ho fatto bere
scura pozione
capace di legarti a me
per l’eternità.
17 DICEMBRE 2000
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE "PIRANDELLO 2000" - ORGANIZZAZIONE AVVENIRE D'ABRUZZO - ROMA
DIPLOMA D'ONORE - MENZIONE D'ONORE NELLA SEZIONE NARRATIVA PER IL RACCONTO "SCHICCOLINA"
28 DICEMBRE 2000
Quello
che provo è odio, odio e rabbia, delusione, disillusione. Mi sento
tradito, insultato, defraudato, impoverito di tutto ciò che avevo, tutto
ciò che avevo costruito, dato, fatto, mi hanno rubato me stesso. Avevo
creduto, credevo in me stesso ed in ciò che stavo facendo. Certo si ho
fatto i miei errori, come tutti d'altronde ma da questi imparavo e
ricominciavo. Forse questa volta ne ho fatto uno troppo grosso, la mia
presunzione ha superato tutti i limiti ed ho sottovalutato tutto ciò che
stava accadendo intorno a me. Mi sono perso nella beatitudine del mio
essere insieme a te e non mi sono accorto di niente. E’ cominciato tutto
così all’improvviso e non ha più smesso di accadere è stato come un
turbine di avvenimenti che ci hanno coinvolto, che ci hanno trascinato a
cui abbiamo partecipato in prima persona, abbiamo goduto per ciò che
avevamo pagato e adesso abbiamo ricominciato a pagare, poi ne godremo.
***
Gli ultimi due anni che sono trascorsi sono stati i migliori della
mia vita, per la prima volta dopo trent’anni ho lottato, ho lottato per
me, per costruire qualcosa solo per me e per la mia famiglia, la mia
nuova famiglia. Finora ero riuscito soltanto a dare, dare, dare e dare.
Ho dato hai miei genitori, ho dato alle mie sorelle, ho dato hai miei
amici, ho dato alla scuola, al lavoro, agli altri; ero riuscito soltanto
a dare e non mi era mai riuscito di prendere. Avevo dato senza sentire
il grazie che mi veniva risposto e avevo preso senza riuscire a sentire
di prendere, anzi con l’arroganza di chi pretende, di chi si sente in
credito e con il lamento di chi crede di non aver preso. Adesso,
finalmente, ho assaggiato il frutto proibito, ho sentito il sapore del
prendere ed è dolcissimo, come te, come quello del dare, dare a te, a te
e al mondo.
***
Patrizia, sei arrivata d’inverno con il vento e mi hai travolto a primavera con il sole.
Ho lottato sapendolo e non sapendolo, ho combattuto fiero e
disperato ed alla fine ho scosso dalle mie spalle l’animale ed ho
cominciato a vivere.
Con te è stato tutto così strano, perché era tutto così vero; non
c’è stata finzione, non c’è stato raggiro non c’è stato imbroglio. Forse
lo abbiamo fatto nei nostri confronti, abbiamo agito senza accorgerci
che quello che stavamo facendo, diventava ogni giorno più grande di noi e
ci prendevamo in giro dicendoci che tanto noi, così grandi, così
imperturbabili, così cinici, eravamo in grado di gestirlo, di comandarlo
e invece ci ha travolto, finalmente, ci ha sbattuto come panni tesi al
sole e ci siamo trovati attorcigliati l’uno all’altra e ci è piaciuto.
Nei nostri primi incontri ci siamo visti come clandestini, come
amanti e come tali ci siamo comportati lasciandoci travolgere e
travolgendo vivendo intensamente ogni attimo da allora fino ad oggi, poi
domani. Ci sono stati regali, ognuno di noi ha offerto a l’altro dei
piccoli doni, come segnale di resa, come presenti sacrificali offerti al
grande capo della tribù, come sintomo di affetto, di legame. Portavamo
doni perché non eravamo in grado di porgere all’altro, materialmente,
il nostro cuore su di un vassoio d’argento, perché è questo che
desideravamo fare ed è questo che abbiamo sentito. Per me è stato come
sentir entrare dolcemente le tue dita dentro al mio corpo, attraverso il
mio costato, senza dolore, solo una piccola sensazione di apertura e
poi ho sentito caldo al cuore, ho sentito le tue piccole dita avvolgerlo
e tenerlo come si fa con un cucciolo. Ed ancora oggi lo portano in giro
per il mondo lo strizzano di passione, lo coccolano di amore, lo
cullano di affetto, lo consolano dalle paure. Ed ho sentito aprirsi il
tuo petto, ho affondato la mia mano delicatamente come se avessi
penetrato il tuo corpo per un atto d’amore, per un coito cerebrale, l’ho
carezzato con paura, temendo di poterti fare male, con dolcezza, come
un cristallo prezioso, una gemma. Ho sentito irradiare calore, forza,
vigore, ho sentito l’amore, finalmente e mi sono lasciato andare, senza
paura, completamente, mettendo in gioco tutta la mia vita per te,
investendo con te ed in te tutte le mie forze, le mie possibilità, la
mia anima, tutto me stesso perché ho sentito vita, la mia, vera, la tua,
concreta, la nostra infine.
Abbiamo cominciato subito a fare pazzie, dalla prima volta. Ti ho
chiesto per scherzo vediamoci e tu, si domani ed io, alle sette e tu,
si. Non ho dormito, non ho capito, non capivo più niente; alle cinque e
mezzo ero sveglio alle sei e mezzo ero già da te poi la colazione poi
l’amore poi le confessioni e poi l’amore poi le frustrazioni e poi
l’amore poi le castrazioni e poi l’amore poi le riflessioni e poi
l’amore poi la pace e l’amore. E poi siamo andati a Donoratico, quattro
indimenticabili giorni di tenerezze, sesso e amore, la pace di stare
insieme all’aria aperta e non nascosti, rinchiusi ancora ma con il sole
in faccia, godersi la tua visione da lontano, vederti camminare sul
bordo della piscina come una signora, come una donna spavalda, fiera,
sicura, lieta di poter finalmente lasciar vedere chi eri non solo nel
chiarore soffuso di una stanza ma anche nella piena luce del mondo. Io
nel mondo ci vivo e non ho paura di affrontare quello che il mondo ha in
serbo per me ed io lì come un bischero, beato nel leggere questo nei
tuoi movimenti, nella tua camminata da passerella. Poi siamo usciti allo
scoperto il due di agosto e tutti hanno commentato, hanno giudicato,
hanno invidiato, hanno odiato il nostro amore, vero e sincero e noi
abbiamo sguainato la spada e abbiamo cominciato a difenderlo contro le
lingue troppo lunghe, contro chi ci ostacolava contro chi ci voleva
male, abbiamo cominciato allora e non abbiamo più potuto smettere. Fa
paura il nostro amore, fa paura agli altri che non possono comprendere e
allora ci si scagliano contro per cercare di abbruttirlo ai loro occhi,
perché non riescono a sopportare la luce che la nostra unione emana ed
il suo calore. E in fondo eravamo due cuccioli, due cuccioli nella tana
del lupo, ci guardavamo intorno spauriti come due bambini rivestiti a
festa tu con il fiocchino in testa ed io al collo, ci sentivamo gli
occhi addosso, quelli malvagi ma anche quelli curiosi, quelli invidiosi e
quelli lieti; la nostra entrata in società, ci siamo presentati mano
nella mano porgendo saluti e baci, questa è lei, questo è lui. Come
cenerentole siamo rimasti abbagliati da quello che ci circondava perché
per la prima volta eravamo in mezzo alla gente, a quella gente, quella
che ci stava aspettando al varco e ci siamo offerti ai loro commenti per
liberarci, per poter cominciare a volare, finalmente, nel vento. Forse
egocentrici, forse narcisi, forse non quanto abbiamo sentito noi ma il
turbine intorno girava, eccome se girava e comunque siamo riusciti a
rimanere mano nella mano e ripartire oltre l’ennesimo ostacolo
abbattuto.
Poi siamo andati in luna di miele ed è stato tutto. Parigi, il
sole la gente intorno a noi, muoversi liberi senza paure, senza essere
additati, senza nascondere la nostra unione abbiamo camminato sotto il
sole d’agosto, ci siamo inteneriti guardando la luna riflessa nella
Senna, abbiamo mangiato, abbiamo dormito abbiamo vissuto come il nostro
amore pretendeva in quel momento, al massimo, come due vecchi signori
snob abbiamo preteso il meglio di tutto e ce lo siamo accordati con la
semplicità del nostro amore e con quanto di più prelibato ci poteva
essere offerto. Siamo stati sul tetto del mondo, partiti come un razzo e
poi siamo ridiscesi lentamente fluttuando come piume al vento,
posandoci un po’ qua un po’ la senza curarci di quanto ci scorreva
intorno, lo abbiamo fatto e ce lo siamo gustati e non abbiamo dovuto
pentircene e tutto questo è meraviglioso. Abbiamo avviato con titubanza
questo nostro primo girare tra la gente, volti sconosciuti e rincuoranti
si muovevano veloci intorno a noi lasciando le nostre menti capaci di
preoccuparsi di accontentare l’altro, visto che non dovevamo
preoccuparci di cosa poteva pensare, dire e fare chi ci stava intorno.
La mia paura per te era la noia, la tua per me era il ricordo e poi ci
siamo lasciati conquistare entrambi dalla nostra Parigi unica,
irripetibile ineguagliabile e dopo i primi timori poterla vagare senza
mete precise senza imposizioni da turisti ma solo e soltanto con il
cuore: la Tour Eiffel, il Sacre Coeur, Notre Dame, il Louvre, gli Champs
Elisee, Place du Tertre, Versailles; luna di miele, si non viaggio
turistico, non gita, non viaggio di nozze, non tour ma luna di miele,
con la dolcezza nel cuore, nelle mani, nei gesti, negli occhi, nel
guardarsi e nel farsi guardare. E poi le cose buffe: le mani sui
fianchi, le ragazze mi guardano e te le vuoi picchiare, le cozze con le
patatine fritte, te mi devi aiutà, le merendine le vincevi solo te,
l’acqua che rinfresca, il Papa dovunque, io che perdevo tutto,
Disneyland con le montagne russe, i giochi, le montagne russe, le
camminate, le montagne russe, le mani nelle mani ancora e ancora
insieme, le montagne russe, te che dici sulle montagne russe non ci
monto più, gli occhi persi di bambini innamorati, io da solo sulle
montagne russe, te che il giorno dopo ad Avignone non riuscivi più a
camminare per le troppe montagne russe. Diverso da tutto ciò che avevo
fatto fino a quel momento, no finzione, no illusione, no fantasia, vero,
vissuto finalmente, sentito, riuscivo finalmente a sentire che lo stavo
facendo e posso ancora sentire che l’ho fatto è dentro di noi ed è vero
e reale. Reale come me e te, me e te insieme.
***
Ti ho conosciuto il 29 novembre 1996, ti ho guardato ed ho
pensato: e questa chi è? Cosa vuole? Ti ho trovato la mattina in
fabbrica e sei stata un affronto per me; come, è stato assunto qualcuno
senza averne prima parlato con me! Perché non mi hanno chiesto se io
avevo qualcuno da far assumere? Povero brodo (di adolescente memoria) ma
chi ti credi di essere e ringrazia invece Dio di questo immenso regalo.
Ci siamo guardati torvi per un mese, diffidenti, repulsivi, poi sempre
più interessati, poi non riuscivo più a staccarti gli occhi di dosso,
gli occhi della Tigre, quella tigre che mi ha graffiato il cuore. Vivevo
per te, partire presto la mattina per poter arrivare al lavoro prima
possibile e vedere te, poterti chiedere: Vuoi un caffè? O sentirmi fare
la stessa proposta da te, parlare un po’, stupidamente del più e del
meno e respirare quei momenti vicino a te, aprire la mente a nuovi
orizzonti stupirsi, sentirsi come si può sentire il credente di fronte
alla verità, avere un'unica sola parola da poter ingenuamente ed
innocentemente esclamare: Oh!
Ogni giorno tessevamo la nostra tela, insieme senza accorgercene
ed ogni notte la celavamo agli sguardi indiscreti dei nostri rispettivi
partner. Nei sogni invece lasciavamo libera la fantasia di portarci dove
il desiderio indicava, come un condottiero sguaina la spada e porta i
suoi uomini a combattere per un ideale di libertà, alla carica!
Ma che buon profumo che hai? Per ammaliarti meglio bambino mio.
Vuoi sentire bene che buon profumo ho bambino mio? Si fammi odorare il
tuo alito, il tuo profumo, la tua essenza. Fammi inebriare di te,
conquistami, strapazzami, tuffami nel frullatore delle tue magie e fammi
diventare parte della tua pozione d’amore. Mi aiuti a scendere, ma tu
soffri, telefonami se hai bisogno.
***
Trent’anni. Tanto tempo, poco tempo, in fondo tutto è relativo.
Sono sembrati tanti, durante, mentre lentamente passavano, giorno dopo
giorno, minuto per minuto, ogni secondo vissuto con ansia con paura con
terrore, guardarsi intorno e cercare di approfittare di tutto e di
tutti. Vedere cose e rendersi conto che poi in realtà non erano vere,
erano film e non realtà, erano romanzi, fotoromanzi fumetti erano storie
di altri ragazzi che facevano i “grandi”, i “gradassi”; l’amore non
esiste, l’amore non c’è. Non c’è l’amore di Madre Teresa, non c’è
l’amore di Padre Pio, non c’è l’amore di San Francesco, non c’è l’amore
dei libri Harmony, delle Telenovelas, non c’è l’amore di fratellanza,
dell’uguaglianza, non c’è l’amore di una madre, del proprio uomo, di un
figlio, non c’è. Non c’è l’amore di Dio. Non è vero, non esiste.
Trent’anni di buio. Trent’anni rinchiuso in una cripta gotica, fredda,
umida e buia, in un profondo abisso lontano dalla realtà e poi tanto
Rococò, a profusione, a riccioli, oro, oro, oro e poi smalto e volute,
gemme, fiori, colori e luce, luce, luce. Sono passati veloci, come una
saetta adesso che li ho già vissuti, adesso che sono trascorsi beffardi
senza farsene accorgere, adesso che non posso più tornare indietro a
riprenderli a riviverli con la luce nuova. Trent’anni e poi esclamare:
Ma allora è vero! Stupido, piccolo stupido amorevole Stefano, si è vero,
è vero davvero, l’amore è, l’amore esiste, si può amare ed essere
amati. Si può amare ed essere amati, che parole, nuove, strane, vere.
***
Brutta gatta, ti sei divertita con il topolino, l’hai sbatacchiato
bene bene di qua e di la e adesso? Adesso hai provato anche tu le
stesse cose. E siamo caduti insieme nello stesso vortice, abbiamo
buttato all’aria una vita già vissuta, parenti, conoscenti, mal di denti
e ci siamo tuffati insieme in questo vortice di vita, di amore, di
verità; miele, miele, miele a vagoni a transatlantici, miele come
piovere, fiumi, laghi, mari di miele. Lo so, lo so, sembra troppo,
sembra finto, ma il miele esiste ed è dolce davvero.
Mi hai baciato e la mia ultima paura mi ha costretto a porgerti
solo la guancia, ti ho pensato tutto il giorno lontano da te immerso in
un lavoro che non sentivo, non vedevo, sognavo e poi ho vinto, ho vinto
anche l’ultima paura e al mio ritorno sono io che ho baciato te,
finalmente. Il mattino dopo le mie gambe tremavano, ho sognato, era
vero, lei è per me, e poi ancora baci, baci, baci e la passione che
sale, sale, sale, sale, sale. Chiamami, mi hai detto ed a quel punto io
mi sono chiesto “E come faccio?, quando posso trovare il momento per
telefonarti, dove, come”. Tu lo porti al pollice ed io lo porto al collo
ma entrambi abbiamo un anello che ci lega illegalmente ad un’altra
persona, aspettami ti ho detto, abbi pazienza, abbi fiducia non so come,
non so quando ma ci sarò. Poi un gruppo di terapia, quando si dice il
caso e il giorno dopo ho strappato la catena che mi teneva succube e
carcerato ed il lunedì mattina ti ho mostrato il mio collo ferito ma
libero e tu hai esclamato dentro di te: Oh oh e adesso, cosa ho
combinato.
***
Siamo tornati da Parigi, siamo tornati al lavoro e ci vedevamo
ogni giorno e spesso anche la sera venivi da me, ti venivo a prendere,
facevamo di tutto pur di stare insieme. A volte cenavamo, a volte no a
volte ci amavamo a volte no, vivevamo ogni momento intensamente, come
non ci era mai accaduto, e sono volati giorni, settimane mesi di idillio
mesi di incontri, di sonno perduto, di racconti. La nostra vita a
puntate, l’abbiamo rivissuta raccontandocela sotto una nuova luce, siamo
riusciti a vedere la sottile trama che univa tutti i fatti, i misfatti,
le rovine e le conquiste di un’esistenza e mille e mille volte abbiamo
ringraziato Dio di averci fatto vivere quella vita, grama e misera ma
proprio quella vita che ci aveva portato fino li, che ci aveva fatto
unire. Mille babbi, mille mamme, mille sorelle, di più mille nonne dirò
ancora di più, mille brunelle rivivrei con la rabbia ed il tormento con
cui le ho vissute, per poi poter arrivare fino a te, fino a Patrizia,
fino a Tricha. Rendersi conto di aver odiato tutto quello che era stato
mentre invece proprio quello che era stato ci ha dato quello che adesso è
e grazie a questo cominciare finalmente ad amarlo, ad amare il mio, il
nostro passato. Se avessi, malauguratamente, cambiato, per sbaglio, una
virgola, unica e sola, inavvedutamente, Dio mio chissà dove sarei ora e
con chi.
***
Natale è stato riscoprire la famiglia, l’unione con la mia e con
la tua, numerosa, che mi hai fatto conoscere tutta insieme durante un
pranzo di Natale, ubriaco di sguardi, di commenti e di attenzioni da
tutti e per tutti, di occhiate, di esami, dove, bene o male mi chiedevo,
giusto o sbagliato era normale che mi interrogassi, innocentemente mi
domandavo: Mi accetteranno? Era meglio quello prima? Penseranno e adesso
questo viene a guastarci il nome della famiglia? Poi chi ci ha voluto
bene ci ha voluto bene ed il resto peggio per loro, se non conoscono
amore. C’è chi ci ha accettato subito, chi ci ha pensato un po’ e
comunque per l’abito che porta ha fatto anche troppo, perché in fondo ci
ha benedetto, ha benedetto, frequentandoci, la nostra unione non
rivendicabile davanti a Dio secondo le leggi dell’uomo; poi secondo me
c’è ancora qualcuno che ci guarda dall’alto, in fondo siamo una coppia
di serie B, una coppia di riserve che merita una vita di riserva, già
non era tua questa vita adesso vuoi anche cose, riesci addirittura a
pronunciare la parola voglio, prendi quello che ti viene gettato dal
tavolo delle coppie vere e vai in cuccina tua a rosicchiartelo. No
grazie noi mangiamo amore, quello vero, quello che si può spalmare sul
pane, davvero.
Ti ho chiesto se volevi venire e vivere da me, con me, condividere
onori si ma anche gli oneri di una vita di coppia, di persone che si
amano, rotolarsi su di un letto, passeggiare per i viali di Parigi, si
ma anche lavare i piatti e rammendare calzini, io per te, tu per me, noi
insieme. Hai tergiversato, ha nicchiato hai fatto cadere il discorso ed
io per mesi mi sono torturato nel pensiero di non riuscire a stimolare
la tua fiducia a farti sentire amata e rispettata, perché non mi vuole,
sta con me ma in fondo aspetta ancora, deve decidere, ma cosa deciderà.
Era tutto finto naturalmente, bello scherzo, ho tenuto il fegato nel
frullatore per due mesi e tu poi mi hai detto: “Questo è il mio regalo
di Natale, le nostre fedi, la mia risposta è sì”; ricordi a quale
domanda brutto gnocco, deficiente che non sei altro, tu li a rimuginare
giorno e notte come un cammello che mangia e rimangia il proprio pasto e
lei se la rideva d’amore conoscendo già la risposta, la risposta è si,
vengo a vivere qui da te, con te, noi insieme. E li applausi a scroscio,
battimani, gente che si strappava i capelli, fuochi d’artificio;
l’amore, l’amore per davvero. Il Natale, la famiglia, si la famiglia ma
la nostra famiglia, la nostra nuova famiglia. Natale è stato riscoprire
la famiglia, la tua, la mia e anche la nostra.
***
La prima volta che siamo usciti insieme per te è stato di
contrabbando, ci siamo dati appuntamento per la strada, ci siamo
incontrati pieni di emozione. Eravamo insieme, da soli, ci eravamo
baciati, ci eravamo abbracciati, ma questa era una situazione
completamente nuova, uscivamo insieme. Certo avevamo una scusa buona, la
cena con le tue amiche e loro c’erano davvero, siamo davvero usciti con
loro, ma per noi era diverso, noi eravamo insieme. Per me che ho da
sempre vissuto in mezzo alle donne, le amiche delle mie sorelle, le
donne al lavoro con la mia mamma, mia nonna che non voleva che stessi
con gli altri bambini è stata un’esperienza completamente nuova, forse
perché le vedevo con occhi nuovi ma erano donne diverse,
inaspettatamente, finalmente queste donne si sono mostrate ed hanno
parlato di se ed hanno parlato un linguaggio chiaro, senza nascondersi
oppure finalmente sono riuscito a vedere ed ascoltare queste donne, come
non avevo mai voluto o potuto fare. E poi ci siamo divertiti,
semplicemente divertiti con il cuore aperto e la gioia nell’anima:
ristorante cinese, sakè, poi al Cigno Bianco in mezzo alla musica ed
all’alcool, io che già ero brillo dello stare con te. Te cosa prendi?
Non lo so qualcosa di dolce? E pensavo a te, a quanto tu dovevi essere
dolce sulla pelle, dolce tra le labbra, dolce dentro, pensavo al primo
bacio che ti avevo dato e che aveva scatenato in me il desiderio di
sapere, ma profumi così dappertutto? Qualcosa di dolce chiedevo ma
volevo te! Poi finalmente soli ci siamo dati il permesso di lasciarsi
andare, abbracciarsi, baciarsi, toccarsi e solo i tuoi timori, più che
giustificati direi, ci hanno fermato. Forse è stato quella sera che ho
imparato cosa vuole dire desiderare: volere a tal punto una cosa che
siamo già felici solo di volerla, che anche se non riusciamo ad averla,
la gioia di cui ci nutriamo è proprio quella di desiderarla, la vogliamo
così tanto con tutto noi stessi che possiamo aspettare, che aspettare
non è gravoso, non ci sentiamo frustrati, non ci sentiamo falliti,
perché desiderarla significa poterla avere, poter fare, potere, essere
in grado di farlo. Ti desideravo come non avevo mai desiderato niente in
tutta la mia vita, eri tra le mie braccia, potevo sentire il calore del
tuo respiro e ti desideravo, te ed il tuo corpo, probabilmente in quel
momento l’unica cosa reale e tangibile era il mio desiderio di fare
l’amore con te e non l’abbiamo fatto ed è stato meraviglioso, è stato
come averlo fatto. Per la prima volta nella mia vita rinunciavo a
qualcosa che volevo a tutti i costi e stavo bene, non ero un fallito,
non provavo frustrazione non ero il peggiore, l’ultimo. E grazie a te
incominciavo ad aprire il mio cuore ma anche la mia mente all’amore, al
concetto dell’amore e dell’amare e all’amore vero, cominciavo ad amare
me stesso amando te cominciavo ad amare te amando me stesso con i miei
limiti. Ci siamo lasciati con il cuore pieno di emozioni, con la mente
già colma di ricordi con la consapevolezza che avevamo una nuova cosa in
comune, un comune ricordo una comune esperienza, la prima, la prima di
una stralunga serie. Non so come ho potuto ritrovare la strada di casa
quella sera, non so come, camminando su di una nuvola blu, sia riuscito a
raggiungere il mio letto. Allucinato e con gli occhi sbarrati rivolti
al soffitto, mi sono lasciato vincere dal sonno e dalla stanchezza e
infine mi sono addormentato con te nel cuore, con te nella mente, con la
tua presenza già saldamente accanto a me.
***
Dopo quel Natale è cominciata questa nuova strana esperienza di
vita insieme, alzarsi al mattino insieme, fare colazione insieme, andare
al lavoro insieme, ed insieme lavorare, tornare a casa insieme, cenare
insieme ed insieme amare, amarsi. Tutto diverso tutto completamente
diverso dalle nostre vite precedenti, fare cose inimmaginabili, fare con
la naturalezza più spontanea, senza fatica, senza dubbi, tutte quelle
cose che fino al giorno prima odiavamo e ci rifiutavamo soltanto di
pensare, arare senza sentire il peso del giogo, arare senza bisogno che
il giogo ci sia, arare per amore, arare con amore e con gioia e portare
sulle spalle le responsabilità dello stare insieme con fierezza, con
forza con gioia, con amore. È stato come riscoprire la vita, non c’è in
quel periodo un giorno più particolare degli altri, perché tutti erano
particolari erano tutti, uno dietro all’altro, un susseguirsi di
scoperte, dentro di me e dentro di te, un continuo esclamare,
meravigliarsi; ogni giorno era un giorno nuovo e non si sentiva
assolutamente il bisogno di qualcosa di diverso come del resto è ancora.
Si certo ci sono i desideri e c’erano anche allora: una casa, un figlio
e forse in quei momenti anche il desiderio che l’unione che stavamo
vivendo si consolidasse, si cemantasse, si rafforzasse sempre di più e
così ogni nuovo giorno era un giorno nuovo e ci dava fiducia in quello
che facevamo e crescevamo insieme al nostro amore, accanto ai nostri
desideri. Proprio questo rendeva quei giorni unici, perché è stato come
se fosse un unico lunghissimo giorno siamo cresciuti, siamo maturati,
abbiamo maturato la nostra nuova identità comune, stavamo creando la
nostra famiglia. Ho conosciuto i tuoi vizi e tu i miei, le tue manie e
tu le mie, come si cucina, come si stira, come si vive una casa, il
bagno, il letto. Ci siamo resi conto che nessuno dei due voleva che
l’altro cambiasse, il tuo modo di essere è quello che mi ha fatto
innamorare di te, come ti muovi, come cammini, parli, mangi, fai e
disfai, come sei, con il tuo temperamento forte e dolce. Abbiamo
incominciato a dirci di non cambiare mai e di non lasciarci mai, perché
ci volevamo ed era così che ci volevamo, proprio come eravamo. E poi
abbiamo cominciato a cambiare senza accorgerci di niente, non eravamo
più due identità distinte, ognuna con le proprie peculiarità ma giorno
dopo giorno stavamo creando una nuova identità comune, conoscendo e
sentendo l’altro senza doverci pensare, senza riflettere, inconsciamente
stavamo diventando l’embrione della nostra unione. Sono stati giorni
fondamentali per noi, quelli più densi di maggior lavoro, abbiamo fatto
tutto senza saperlo, senza volerlo, a testa alta e con il sole sulla
fronte abbiamo costruito l’intrico di mura che formano oggi la base
della nostra unicità, abbiamo scolpito con gioia e con fermezza la
parola NOI sulla pietra della vita.
E poi ci siamo divertiti, abbiamo aperto le finestre delle nostre
armature ed abbiamo fatto uscire tutto e di tutto, abbiamo sfogato i
nostri istinti, quelli animaleschi, quelli materni, paterni, fraterni;
regali, pensieri e rotolarsi sul letto per ore, per giorni sfogare gli
istinti e fugare le paure. Per me è stata la scuola dell’amore,
desiderarti, volerti e affrontare le mie ansie che mi impedivano di
amarti con il corpo quanto ti amavo con il cuore e lasciare che tu mi
guarissi, giorno dopo giorno con le tue amorevoli e attente cure saggia e
spensierata nel darmi fiducia per riuscire a farmi credere in me
stesso.
E alla fine il nostro amore ha dato fastidio, tutto quello che
avevamo temuto si stava realizzando, davvero c’era qualcuno che non
sopportava il nostro amore e che non solo ci odiava ma ci voleva anche
fare del male. Ed hanno provato a corrodere il nostro rapporto, a
spezzarlo ma non ci sono riusciti. Hanno provato a farci scegliere e noi
abbiamo superato. Per questo lavoro uno dei due era di troppo e doveva
andarsene, da solo e con la coda tra le gambe e magari anche dicendo
grazie, grazie di averci gettato gli ossi sotto il tavolo. Siamo
rimasti, mano nella mano siamo rimasti a combattere l’affronto, sapevamo
che sarebbe stata ancora più dura e che le nostre possibilità erano
minime, sapevamo che prima o poi avremmo perso ma che lo avremmo fatto
con dignità, insieme, contro l’invidia e l’odio di chi non poteva avere
ciò che noi avevamo ma siamo rimasti. La strega ha cercato di umiliarti
in tutti i modi, hai sofferto ed io con te, hai lottato con la ragione e
la logica dalla tua parte ma non bastava; abbiamo dato noi stessi per
il lavoro, con una siringa perennemente nelle nostre vene donavamo
sangue e sudore ma non bastava, lo facevamo con gioia ed umiltà ma non
bastava, uno dei due doveva andarsene per togliere davanti ai loro occhi
questo oggetto misterioso, questa strana coppia di persone che si
amavano, che si rispettavano ed aiutavano, era troppo da vedere, da
sopportare ogni giorno, che forse qualcuno si sentisse umiliato da ciò,
che forse qualcuno leggesse in questo la miseria della propria vita e
che per non doversi più vedere abbia deciso di uccidere lo specchio che
lo rifletteva. Povera misera gente e miseri noi ogni volta che vi
abbiamo combattuto con le vostre stesse armi, si il male che ci avete
fatto non è stato cercare di dividerci ma farvi vincere con le vostre
stesse armi, costringerci ad abbassarci fino a voi, finiti voi noi
ritorniamo alla luce, le tenebre saranno per voi che le volete. Breve
sia la vostra parte, voi che ci avete insegnato che ci possiamo amare,
ma con il coltello in mano, pronti a difenderci dall’invidia dei miseri.
E noi testardi ancora avanti per la nostra strada, sempre insieme
ventiquattro ore al giorno sette giorni su sette. Incuranti del fango
che ci veniva scagliato addosso abbiamo continuato ad amarci e a farlo
vedere, abbiamo ridato sereni e felici il nostro amore. Certo anche noi
abbiamo avuto i nostri dubbi, anche noi abbiamo cercato delle risposte
ai nostri timori anche noi abbiamo cercato qualcosa di più grande che ci
potesse accogliere e benedire. Siamo arrivati a Loreto per Pasqua, con
le nostre paure e le nostre speranze con il bagaglio di un anno di amore
e la speranza di una vita comune. Abbiamo pregato, ognuno per proprio
conto e tutti e due insieme, abbiamo vissuto quei giorni, casti di amore
platonico, in una nuvola di timore reverenziale verso questa entità in
cui cercavamo una risposta, possibilmente affermativa, alla nostra
domanda di vita insieme. Abbiamo aperto i cuori e abbiamo lasciato che
vi fosse letto dentro e quello che più mi ha impressionato è stato che,
anche in quel luogo di amore, abbiamo fatto paura; eravamo fuori dai
canoni era troppo tardi, già delle promesse erano state fatte davanti a
Dio, non si poteva tornare indietro dovevamo solo sopportare, lasciare,
dimenticare, solo perché non può essere accettato l’errore. Dio perdona,
Dio è buono, Dio è amore Dio è grande e la nostra grandezza davanti a
dio la possiamo soltanto dimostrare chiedendo perdono e ammettendo che
abbiamo sbagliato, noi possiamo credere chissà cosa ma sarà solo quando
saremo dinanzi a Dio che conosceremo la verità quello che oggi crediamo
giusto sarà forse sbagliato e quello che adesso ci sembra sbagliato si
rivelerà fede in Dio. Amo Patrizia e me ne prendo la responsabilità,
come lei ha fatto per me, la responsabilità di conoscere davanti a Dio
dov’è il giusto e dov’è lo sbagliato. Lì saremo puniti o glorificati,
soltanto in quel momento e non dall’uomo o dalle leggi dell’uomo, ma
dall’amore di Dio. Amo Patrizia e vivo in lei e lei mi ama e vive in me e
per me questo supera e rende talmente microscopico qualunque rito
umano, qualunque promessa fatta, perché solo il cuore può promettere e
il cuore promette solo amore. Siamo stati bastonati e puniti per il
nostro affronto e ci è stato detto che vivremo nell’errore, ridicola
fede dell’uomo che poi alla fine, dopo anatemi, punizioni,
sconsacramenti e altro ci benedice, benedice la nostra un unione di
semplici persone che si amano, che sono riuscite a correggere la propria
vita, che hanno sbagliato e hanno il coraggio di ammetterlo che
comunque rispettano le leggi dell’uomo perché vivono nell’amore di Dio.
Grazie Padre Corrado, grazie di averci detto che sbagliavamo, che
andavamo contro il volere di Dio e poi averci salutato, semplicemente,
come un coppia di persone che si amano. E questo basta a Dio, Dio ci ha
donato questa nuova possibilità e noi siamo riusciti a coglierla senza
timore, con fede e con amore e la portiamo avanti confidando in noi,
nella unione che siamo ed in Cristo.
***
Ho perduto mio padre, babbo, dopo sei mesi di amore, amore solido,
dopo aver sperato, dopo essermi illuso, dopo aver pregato ogni sera ed
aver pianto ogni giorno e adesso vorrei spaccare il mondo, certo non
servirebbe a niente ma è ciò che si prova in momenti come questi, ci si
chiede perché, si insulta, si inveisce ci si guarda intorno e si pensa,
perché non è successo a qualcun altro? Perché questo morso è stato dato
proprio nella mia carne, cosa ho fatto io per meritare questo dolore,
questo strazio, questa disperazione! Eppure è così, ci sono milioni di
persone neonati, bambini, adulti che muoiono ogni giorno di fame o di
bombe ma noi riusciamo a sentire soltanto il nostro dolore, ed è
normale, è umano e non è peccato, perché solo Dio riesce a sentire il
dolore degli altri. Possiamo disperarci e piangere per chiunque ma
quello che sentiamo è solo il nostro dolore. Ti amo babbo e non sei più
qui con me ed è questo il dolore che sento, non il tuo non tutto ciò che
hai provato, quello che hai sentito, come ti sei visto e come hai visto
il mondo intorno a te ma soltanto il mio egoistico dolore di figlio che
preferisce sapere di avere un padre e non cercarlo piuttosto che
pregare sulla tomba di un padre ritrovato. Ed è normale, è umano, è
questo ciò che sappiamo fare, è questo che abbiamo imparato dalle
generazioni che ci hanno preceduto, milioni di anni di evoluzione e
siamo arrivati soltanto a questo, soltanto a questo e non ci rendiamo
conto di quanto è ed è tantissimo, è una cosa enorme, è la sublimazione
dell’essere, è vivere e noi adesso siamo in grado di farlo, abbiamo
questa possibilità da sfruttare, viviamo, sentiamo cogliamo questo
attimo divino, perché il futuro è della materia e non dei sentimenti.
Forse hanno pensato lo stesso i nostri babbi, nonni e bisnonni
guardando il futuro e vedendolo grigio; ci sono stati ideali di libertà,
di ribellione, di conquista; ci sono stai i jeans, la musica ribelle, i
motorini e i libri proibiti a deludere i nostri avi e gli hanno tolto
le speranze per un futuro migliore ma loro non hanno mai avuto a che
fare con la “playstation” e con “internet” e non sanno a che pericolo
sono scampati, il cancro cerebrale e la tomba dei sentimenti. Allora
godiamoci questo nostro dolore finché ci sarà ancora possibile provarlo e
stiamo attenti alle novelle sirene di questa odissea di vita, temiamole
e rispettiamole, usiamole e non abusiamone. Ho paura, ho paura di
questi due mostri perché prendono, avvinghiano, ammaliano e non ti
lasciano più andare e allora bevo il mio dolore, bevo il mio amore ma
anche il mio dolore perché sono veri e reali, non virtuali.
E te non ci sei più babbo!
Ti ho ritrovato una sera d’inverno passeggiando accanto a te
mentre andavamo a vedere la partita, stavamo andando a Torino, come
dicevi te, oggi vado a Milano, oggi a Roma e te ne andavi passo passo al
circolo a vedere le partite della tua Juve; a un certo punto ti ho
detto “Avrei voglia di abbracciarti” e te come se per trant’anni non
avessimo fatto altro mi hai risposto “Allora abbracciami”. Dopo una vita
senza carezze, senza attenzioni, senza affetto o senza averli visti e
sentiti mi hai riversato addosso un mare di amore, così d’improvviso
tutto in una volta senza avvisarmi, senza prepararmi ed io ci sono
annegato dentro con tutta la mia gioia e la mia felicità.
E abbiamo incominciato a vivere.
Abbiamo cominciato a vivere la nostra vita di padre e figlio
parlandoci, amandoci standoci vicini, in disparte come solo a noi
Cuccuini riesce, in disparte ma in primo piano.
Ti ho parlato di Tricha, di quello che sentivo e di quello che
provavo e te mi hai parlato del tuo amore per la mamma, di quello che
voleva dire per te, dell’importanza della donna che hai accanto, di una
vita insieme, delle dure prove e delle gioie, ci saremo detti mille
parole in due anni, solo mille parole ma sono bastate, a me e a te per
consolidare la nostra unione, sapevamo di cosa stavamo parlando, avremmo
potuto benissimo tacere perché oramai ci eravamo trovati e niente ci
avrebbe potuto dividere.
***
Mi hai incantato per ore narrandomi dei posti tuoi, dei colori,
dei sapori, degli odori e finalmente me li hai fatti conoscere.
Mediterraneo
salato
bianco di case
verde dagli olivi.
Salento
spalmato sul mare
piana pennellata
su di una tela azzurra
riccia di onde
e unta di sudore.
Siamo partiti tra palpiti e dispiaceri, tra speranze e dolori,
lasciando mio padre a casa da solo, in compagnia del nostro amore e del
nostro sentirlo e pensarlo e non avremmo potuto fare diversamente,
perché lui non avrebbe voluto.
Abbiamo visto il sole, me lo hai fatto toccare da vicino, nelle
case, nelle piante, nelle distese brulle e negli scogli a picco sul
mare. Ci siamo bagnati nelle acque più limpide che io abbia mai visto,
con la sabbia chiara, con la sabbia nera, con gli scogli e con i pesci
che nuotano quasi a riva. I Caraibi, le isole tropicali, Maldive,
Seychelles, Mauritius, la puglia, il Salento, Otranto, Castro, Le
Pescoluse, questo hanno toccato le mie mani, qui si sono immersi i miei
piedi, ecco cosa hanno visto i miei occhi, sentito le mie orecchie e
odorato il mio naso.
Un altopiano piatto, leggermente degradante verso il mare, fitto
di olivi e di strade che si incrociano e si rincrociano, piante di
tabacco ad ogni angolo, il tuo passato, la tua origine, la fonte del tuo
sangue ma anche i tuoi ricordi di bambina: le scalettine, con il nonno
in motorino, a mangiare i fichi, il tabacco, i fuochi d’artificio le
sere d’estate, sul mare o in paese, le feste, le feste con le enormi
luminare, i canti e i balli, lo stare insieme con la tua famiglia uniti
in un abbraccio di calore e di amore.
I tuoi ricordi di donna: la melanconia, la noia, la tristezza, le
facce strane nelle foto, gli occhi tristi, le guance che sembra che
sbuffino il tuo stare sola, in un autonomo abbraccio per proteggerti dal
freddo.
I tuoi ricordi di domani: Otranto, la spiaggia, le crepes, i giri
per le stradine ed il lungomare; la Zinzolusa, la Grotta del Conte,
Leuca, Gallipoli, Le Pescoluse, Supersano, Castro, i fuochi d’artificio
sul mare, vicina come non eri mai stata, i bagni di sole, i bagni di
mare, pedalò e motoscafo, la mia guida in questo nuovo mondo, mano nelle
mano, ancora una volta uniti, ancora una volta a testa alta orgogliosi
del nostro amore e di portarlo a giro per il mondo. Sei riuscita, giorno
dopo giorno, ad imprimere dentro di me la tua Puglia, mi hai fatto
sentire le tue emozioni, per ogni cosa che vedevamo o facevamo, tu mi
raccontavi qualcosa di tuo, qualcosa di fatto o di visto e cercavi così
di farmi conoscere la bambina delle scalettine e quella che sarebbe
diventata.
Seduti in mezzo al mare, con l’acqua che ci bagna le caviglie e un
rivolo che si insinua sulla pancia, immersi nel silenzio di quel
momento sentiamo noi, il rumore intorno non riesce a penetrare quella
nicchia di benessere che ci circonda, tutto può accadere e nulla può
accadere, stiamo creando noi stessi, stiamo continuando a dare vita e
forza al futuro che ci viene incontro al domani verso cui scivoliamo
dentro la nostra nicchia.
Famiglie sul bagnasciuga, bambini che schiamazzano, barche,
barchette e motoscafi, bulli, pupe e marinai li ho respirati e tu, con
una mano sul mio petto, guidavi il ritmo per far sì che tutto quello che
ci circondava riuscisse ad entrare in me, le case in calce di Otranto e
Gallipoli e i loro stretti vicoli, le lunghe strade diritte contornate
da piantagioni di olivi, le case immense e non finite che
improvvisamente si ergono nel mezzo della campagna, gli scogli a picco
sul mare, il mare, questa immensa distesa blu che, quasi per miracolo,
trasparisce i suoi segreti se la guardi da vicino
Abbiamo camminato mano nella mano, sulle spiagge, per le strade
strette imbandite di negozi, per le strade affollate delle feste di
paese, sugli scogli, guardando lontano l’orizzonte, sognando, sperando,
cercando di immaginare cosa ci aspetta oltre il nostro orizzonte e
ancora una volta di più abbiamo solidificato la nostra unicità, il
nostro essere una sola cosa. Il sole, il mare, la mia donna
abbronzatissima e me; un’altra estate piena di vita e di amore.
***
Poi è arrivato il male, per te babbo.
Ha rombato forte e si e fatto vedere.
Insulso, viscido, inutile e cattivo.
Abbiamo lottato tutti uniti, vicini stretti stretti, abbiamo
combattuto contro qualcosa di enormemente più grande di noi, delle
nostre possibilità, della nostra comprensione e abbiamo perso e abbiamo
vinto. Abbiamo perso te con la tua importanza con la tua presenza con il
tuo impegnarsi, abbiamo vinto un ricordo una famiglia, una nuova vita
per noi con te accanto. La cosa più difficile per te è sicuramente stata
accettare le nostre cure, il nostro amore, le premure che avevamo verso
di te le attenzioni; ci scacciavi quando venivamo a trovarti in
ospedale o se ti eravamo vicini a casa parlavi d’altro, facevi il bullo
con le infermiere e ti lasciavi andare a racconti incredibili sotto
l’effetto dei farmaci. Straordinario. Poi la situazione si è aggravata e
ti sei perso, assente dai discorsi assente dalle situazioni assente
dalla cura; ti eri accorto che stavi morendo, probabilmente avevi paura,
capivi che non c’era più alcuna speranza e ci hai chiuso fuori. Ti sei
chiuso dentro, al tuo mutismo al tuo degenerare; chissà cosa vedevi di
te, cosa pensavi cosa sentivi, speravi ed alla fine ce l’hai fatta a
chiudere la partita ed hai smesso improvvisamente di respirare,
semplicemente così, niente di sensazionale, alla nostra maniera,
semplice come te.
***
Anche questo non era mai successo, e con te invece è stato, Natale
a casa nostra, noi abbiamo ospitato la mia famiglia a casa nostra per
il Natale, non ci avrei mai creduto e così invece è stato. E per la
prima volta è stato Natale, mi sono sentito bambino e genitore, ospite e
ospitante ed ho visto nei tuoi occhi le mie stesse sensazioni, le
emozioni della felicità, della gioia, un anno fa cominciavamo a
costruire la nostra famiglia con la nostra unione ed il consolidamento
del nostro rapporto, oggi godiamo dei frutti di quello che in questo
tempo siamo riusciti a mettere insieme e quello che possiamo vedere ci
dona speranza e fede nel futuro. Lo possiamo fare, lo abbiamo provato
con le nostre mani e sulla nostra pelle, lo possiamo fare, non siamo
solo in grado di stare insieme e godere l’uno dell’altra e dipendere da
questo e da quello e succhiare il nettare asciutto delle vecchie
famiglie, possiamo e lo abbiamo fatto dare veramente vita alla nostra
famiglia, certo ci sarà ancora da fare, da costruire, da penare, da
scegliere, da sottostare a compromessi, da piegarsi e da drizzarsi ma lo
possiamo fare, perché io e te siamo una famiglia.
Abbiamo addobbato la casa come il nostro spirito, la nostra
essenza aleggiava ovunque e l’atmosfera era di immensa gioia, nel dolore
della sofferenza di babbo, ma nella gioia anche in quello, nel poter
regalare questo Natale anche a lui. Candele e lustri, tutta la tavola in
tinta, i segnaposto per regalo, le chiacchere, i bambini, l’unione e la
complicità dell’essere tutti insieme, un giorno intero, dalla sera
prima ad apparecchiare, poi la mattina a preparare il pranzo e tutti
insieme godere del Natale poi risistemare e preparare ancora per la
cena, ancora insieme ancora a lume di candela, fino a tardi, parole,
tivù, commenti, regali a giro per casa, regali per amore. Abbiamo e ci
siamo concessi, regalati, donati, permessi, accordati, offerti, questo
grande, grande NATALE.
Poi siamo volati sui monti a concludere quest’anno meraviglioso,
di gioie e di dolori, di pene e di affetti e con i tuoi e con gli amici
ci siamo augurati ancora ed ancora tempi come questi, con il bello e con
il brutto ma vissuti in amore, con amore e per amore. Passeggiando
alti, nel freddo, con lo sguardo che arriva lontano abbiamo visto ancora
noi, noi due uniti nel futuro.
***
Sei stato accompagnato un ultima volta in ospedale per dei
controlli, non reagivi più, non parlavi non rispondevi agli stimoli,
continuavi soltanto a spargere la tua pipì in giro per la casa e noi
dietro a rincorrerti, babbo. Quando siamo arrivati, io e Tricha, ti
abbiamo trovato ansimante, rosso in volto, impaurito, oh babbo davvero
pensavi che volessimo abbandonarti lì, davvero per un secondo hai
creduto questo? Cosa hai provato allora quando Tricha ti ha detto
“facciamo questi esami e poi domani, via a casa!”, cavolo babbo eri
riuscito a far innamorare anche lei e tutto grazie al tuo amore
nascosto. Siamo rimasti soli per trascorrere la nottata insieme, abbiamo
litigato, a modo nostro, ti trattavo un po’ come un bambino dispettoso e
impertinente, un po’ come un grande uomo, il grande uomo che mi ha dato
la vita; ti ho raccontato del nostro amore per te, rassicurandoti che
nessuno ce l’aveva con te, comunità, terapie e vita in comune alla fine
sono riusciti a fare di noi una vera famiglia, beh per lo meno il
massimo che si poteva riuscire a fare con tipi come noi, tipi come te.
Ti ho accudito come un neonato, pannolini, cambio del letto, era strano
stare li io a fare questo a te eppure è successo, eppure era vero e
davvero poi infine, inaspettatamente ma a modo tuo te ne sei andato, ci
hai pensato un po’ e poi quando hai deciso hai chiuso, semplicemente hai
detto basta, era il 16 gennaio 1999.
***
La vita continua, il tempo scorre e a fatica ed uniti abbiamo
ripreso a camminare il nostro sentiero di vita, affranti, turbati,
sconvolti, soli e uniti, a volte sentire la mancanza a volte sentire la
presenza, mano nella mano siamo andati a trovare mio padre, a vedere la
croce che si incunea nella terra che lo accoglie e tu sei me ed io sono
te, e sento il mio dolore confondersi con il tuo e sento il tuo dolore
carezzare e consolare dolcemente il mio.
No, non c’è stato il tempo di accorgersene, non c’è stato il
modo, non c’era la presenza di nessuno di noi due per rendersi conto di
quello che stavano tramando alle nostre spalle e ci hanno divisi. Uniti
siamo e uniti rimarremo ma d’ora in poi ci potremo cercare da lontano
perché l’invidia, l’odio e la stupidità ci hanno impedito di poter
continuare a lavorare insieme. Costretto ad essere il portatore di
questa notizia, con il pianto nel cuore, affranto, a pezzi, distrutto ho
condiviso con te la tristezza e non ancora risaliti sulla collina della
vita, siamo ripiombati insieme nella valle della disperazione. Mi
manchi e mi mancherai per sempre, mi mancherà lo starti vicino, il
vederti per caso, il sapere che eri di la, che non ci vedevamo, che non
ci cercavamo, ma che eravamo vicini, che potevamo quando volevamo.
Cercare la vendetta, parlare con te, parlarne e poi da solo
scaricare sulle parole la mia frustrazione e allora scrivere: quello che
provo è odio, odio e rabbia, delusione, disillusione. Mi sento tradito,
insultato, defraudato, impoverito di tutto ciò che avevo, tutto ciò che
avevo costruito, dato, fatto, mi hanno rubato me stesso. Avevo creduto,
credevo in me stesso ed in ciò che stavo facendo. Certo si ho fatto i
miei errori, come tutti d'altronde ma da questi imparavo e ricominciavo.
Forse questa volta ne ho fatto uno troppo grosso, la mia presunzione ha
superato tutti i limiti ed ho sottovalutato tutto ciò che stava
accadendo intorno a me. Mi sono perso nella beatitudine del mio essere
insieme a te e non mi sono accorto di niente. E’ cominciato tutto così
all’improvviso e non ha più smesso di accadere è stato come un turbine
di avvenimenti che ci hanno coinvolto, che ci hanno trascinato a cui
abbiamo partecipato in prima persona, abbiamo goduto per ciò che avevamo
pagato e adesso abbiamo ricominciato a pagare, poi ne godremo.
***
Il tempo passa e come sempre medica le ferite e apre nuove
prospettive; decade l’odio, decade la frustrazione, il rammarico e la
vendetta; ci ricordiamo quei momenti di alcuni mesi fa e ci rendiamo
conto che tutto il male del mondo non può far altro che unirci ancora di
più ed uniti combattiamo tutto il male del mondo, per noi e per il
nostro mondo, con amore.
Così, perdoniamo il male, i malfattori, le nostre ire e la nostra
sete di vendetta, grazie a Dio che ce ne dà la forza. Perdoniamo gli
altri, per quello che è stato fatto contro di noi ma anche noi stessi
per quello che, anche inconsciamente, anche involontariamente ma
umanamente, noi abbiamo fatto agli altri
Abbiamo odiato, ci siamo arrabbiati, abbiamo scalciato forte come
tori nell’arena, con il fiato che ci esce roboante dalle narici,
sollevando nuvole di povere; ci siamo impuntati come muli da soma,
carichi delle brutturie del mondo decisi a resistere a non voler
cambiare, intestarditi, duri.
Umani siamo stati, perché umani siamo ed è proprio dalla nostra
umanità che sgorga il nostro amore e così, lentamente, un giorno dopo
l’altro, abbiamo assorbito l’affronto, la superbia, l’odio ed il
rancore, il dolore no, quello rimarrà ancora per molto, l’inutilità del
gesto rende difficile sbiadirne il ricordo, potremo perdonare, con il
tempo, con nuovi sogni e nuovi progetti che renderanno il licenziamento
così insulso, insipido, irreale, ci sembrerà così lontano, anche se
sappiamo che non potremo mai dimenticare.
I giorni sono trascorsi, in principio lentamente e con mestizia,
poi abbiamo trovato il nostro nuovo modo di comunicare costante, due tre
telefonate al giorno, messaggi, lettere, pro memoria, ogni tanto tu
venivi a Signa con me, ti lasciavo a casa dai tuoi e ci ritrovavamo
all’ora di pranzo e poi la sera di nuovo insieme per il viaggio di
ritorno; tu hai ricominciato a lavorare da tuo padre ogni tanto, così i
viaggi insieme, nonostante tutte le avversità che ce lo volevano
impedire, sono aumentati, fin quasi a ogni giorno. Comunque sempre
insieme, anche lontani, anche lontanissimi, anche distanti ma sempre
insieme, sempre vicini.
***
Nonostante tutte le avversità, le difficoltà, i dolori ed i
rancori abbiamo creato, giorno dopo giorno, le basi della nostra
esistenza e più queste diventavano solide, più i nostri sogni volavano
in alto; più queste si irrobustivano, più i sogni diventavano
realizzabili, concreti, veri, raggiungibili. Non sogni di ragazzini, non
isole caraibiche, non palme e noci di cocco ma sognare di poter davvero
avere una vita vera, quella che abbiamo sempre cercato, quella che ci
eravamo impediti di realizzare fino ad ora: una famiglia, noi, una casa,
la nostra, un futuro, i nostri figli.
***
In fondo ce lo aspettavamo, sapevamo che, un giorno o l’altro,
questa notizia ci sarebbe stata data e quel giorno è arrivato. Sono
tornato una sera ed era già da tempo che tu restavi a casa in cassa
integrazione, con il pianto nel cuore e la disperazione addosso te l’ho
detto, ti hanno licenziata ed hanno mandato me a dirtelo. No, non era la
perdita del lavoro, non erano i soldi o l’onore o l’orgoglio; ci siamo
resi conto immediatamente che quello che ci avrebbe consumato, era la
lontananza, il distacco. Da quel giorno ogni mattina trovavo un tuo
biglietto sotto la mia tazza o tra le pagine dei libri che leggevo, mi
parlavi del tuo amore e della tua sensazione di solitudine e del tuo
amore e di quanto ti mancavo e del tuo amore e di auguri di buone
giornate e del tuo amore. Da quel giorno ogni mattina ti lasciavo un mio
biglietto sotto la tua tazza o te lo consegnavo, quando facevi il
viaggio con me, ti parlavo del mio amore e della mia sensazione di
solitudine e del mio amore e di quanto mi mancavi e del mio amore e di
auguri di buone giornate e del mio amore.
Ti cercavo dentro a questa fabbrica insensibile ed incosciente che
non aveva saputo accettare il nostro amore, non lo aveva saputo
sfruttare, non era riuscita a beneficiarne perché ne era rimasta
enormemente orripilata, ingelosita, invidiosa e come un vampiro dinanzi
alla croce ha cercato di celarla, di farla scomparire, non rendendosi
conto di essersela infilata dritta nel petto. E il nostro amore ha
continuato ad andare avanti, impavido, senza paure, senza timori, con
mille paure e con mille timori ma anche nella lontananza, ha trovato
altre miniere da sfruttare per crescere sano, robusto, tranquillo.
Eravamo felici di poterci vedere ogni minuto, di sapere che eravamo a
pochi passi l’uno dall’altra e il toglierci questo è stato come
strappare i tubi dell’aria ma l’aria che sospira tra noi è di ben altra
consistenza, è di ben altra sostanza e continua a tenerci uniti, a
tenere uniti i nostri cuori, le nostre menti e le nostre pance; i nostri
sogni, i nostri intenti e la nostra passione.
***
Non abbiamo mai smesso di pensare alla casa, la tua casa, quella
che sarebbe divenuta casa nostra. Per un anno è stata un desiderio
sopito, celato, nascosto ma presente ed ogni giorno che passava ci
avvicinava sempre di più al realizzare il nostro secondo sogno, dopo la
famiglia, noi, la casa, nostra. Quasi come due incoscienti,
nell’incertezza che aleggiava intorno a noi, tra i dubbi se poterla
davvero vivere o no quella casa ma grazie ai nostri cuori pieni della
speranza nella realtà nascosta, ci siamo messi in giro a alla ricerca di
camere e cucine, di mobili e di arredi, di tende e tappeti, di idee, di
proposte, di noi e della nostra essenza nascosta dentro al legno e,
come tutte le cose che abbiamo fatto insieme, non è occorso gran che di
tempo e poi voilà eccole, erano la entrambe ad aspettarci e come un
unico cuore abbiamo scelto, deciso, costruito; la camera con l’armadio
cabina, in cui ci siamo tuffati appena ci è apparsa davanti, la cucina,
con gli inserti in giallo e il ripostiglio, a cui siamo rimasti
incollati dopo una timida sbirciatina. No, non abbiamo voluto vedere
altro, cercare no perché non ce n’era bisogno, noi eravamo la e ci
eravamo trovati e sapevamo di essere quelli. Come ogni nostro stare
insieme, anche questo ha mostrato il suo stato di straordinarietà, di
meraviglia, di come per vivere insieme con gioia, con letizia, con
passione, non siano necessarie grandi cose, basta l’amore; partire al
mattino e fermarsi a mangiare un panino tra i pini di Pietramarina e poi
merende e gelati e la quieta ricerca di mobili, per noi e per la nostra
casa, mano nella mano girare fra finti salotti e cucine fittizie,
immaginare quel tavolo o quella specchiera dentro alla nostra casa e più
si concretizzava il sogno della casa più prendeva forma, dentro di noi e
nel concreto, il suo interno di mobili, come lo avevamo trovato,
scelto, creato, unico per noi.
***
Rincorriamo i sogni, li inseguiamo credendoli irraggiungibili,
mentre loro sono la, a portata di mano pronti a farsi cogliere da una
mano innocente, da un cuore sincero, da un animo in pace. Non c’è
bisogno di adirarsi, di correre, di sfiancarsi, perché i sogni si
lasceranno raggiungere solo con l’amore, perché solo con amore potremo
fare sogni raggiungibili; la Mercedes, la villa, lo yacht e il
maggiordomo sono solo sogni di arroganza, di vanità, di superbia, sono i
sogni che non potrai mai raggiungere, perché anche quando li avrai in
pugno chiederai di più. Allora umanamente sogniamo, sì, lasciamoci
andare, anche la villa, la moto, il macchinone, anche il giro del mondo,
sogniamoli con la fantasia e con il cuore leggero di chi a ben altri e
più importanti desideri da realizzare: vivere ed am