Capitale, aggettivo – Teologia - peccati capitali, sette vizi considerati radice dei peccati più gravi: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia.
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Non ho fatto altro che vederli
intorno a me
mentre bocche più grandi dei miei occhi
cercavano di spiegarmi
che non avrei dovuto farli.
Mi hanno fatto leggere libri
che ne erano pieni
raccontato storie
che li narravano e li celebravano
e mi hanno ricordato ancora
che non avrei dovuto compierne.
Li hanno stesi su di un tappeto rosso
lungo fino a me
lasciando
che ad ogni passo
si posassero lievi come piume
per quanto invece gravi
avrebbero potuto essere.
Li hanno fatti passare sotto i miei occhi
rendendoli ridicoli
insulsi, semplici
appunto veniali
per quanto complessi
tragici, malati
appunto capitali
invece fossero.
Li ho fatti miei
come ognuno di noi
li ho compiuti, fatti, pensati, agiti, osannati
mi hanno fatto urlare
come un vampiro nella nebbia
e ancora odo le mie grida
di soddisfazione e goduria
per ogni volta
che su quel tappeto rosso
di sangue e di vergogna
ho compiuto passi
raccogliendone uno.
Me li avete fatti desiderare
bramare, volere, pretendere
me li avete lasciati compiere
insieme a voi vigliacchi
che con una mano indicavate la retta via
e con l’altra porgevate a me
gli ori della mente
potere, piacere, importanza, gloria
compiacimento, oblio e pigrizia
ed io distratto e stolto
come ognuno di noi
me ne sono cibato abbuffandomene
ricordando a voi di starne a dieta.
Adesso navigo danzante
fra le maree
fra la disperazione e la rabbia
per aver lasciato
che ogni umana tentazione
si cibasse di me
e con una mano indico la retta via
e con l’altra porgo
a chi passa
gli ori della mente altrui
a tentarli sadico
come un demonio qualunque
mentre dentro di me combatto
per aiutare me e te a depredarli tutti
della loro inutile sostanza
che non si tocca e non si sente
e che non serve a niente.
Superbia, (latino superbia) – stima eccessiva di sé ostentazione di un’alterata e più o meno presunta superiorità – Teologia – il primo, per gravità, dei sette peccati capitali, consistente nell’amore disordinato di sé che mira a porre in evidenza la propria persona fino a disconoscere la dipendenza da Dio.
Superbia
Sto
come re sul trono
tronfio
alla mia balconata
sotto il sole cocente
che rende rubiconde
le mie già paffute guance
e lascio beato
che le mie gesta insulse
sfilino dinanzi a me
ed all’umanità tutta
a mostrar la gloria che le risplende
come olio di gomito
che ha lustrato le armature
che a guardarle adesso
accecano.
E bene sia che accechino anche gli altri
che ciechi
si prostrino ai miei piedi
io che sono e fui
e che per sempre rimasi
ignaro
che domani l’ossa mia
diverranno la polvere più minuta
che il vento abbia spazzato via lontano
e che di me non si ricorderà nessuno
per quanto sia sembrato a me
d’aver fatto cose e compiuto gesta
che avrebbero dovuto essere scolpite nella pietra
ignaro ancor di più
che pure la dura pietra si consuma
sotto lo stillicidio dell’oblio e del tempo.
Eppure mi vestii con panni d’oro
declamai versi, feci musica, comandai e possedetti
e tutti s’inchinavano dinanzi a me
che il solo loro gesto m’ingrassava dieci chili
per ogni schiena che si piegava
ed io credetti d’esser meglio di ognuno di loro
e di aver tanto fatto acchè loro avessero da ringraziarmi
lodarmi, benedirmi ed esaltarmi
sì che con loro m’esaltai
e al pari dell’Unico mi sentii
e con tal potere dettai leggi e feci oltraggi
perché solo io lo potevo e volli.
Adesso misero che sono
vago
non d’una disperazione sola
ma d’ogni granello che m’appartiene
piango e soffro per centomila
quant’io credetti di valere in vita
ed ora rimpiango
d’esser l’ultimo dei diseredati
che mai per caso
chinarono la testa dinanzi a me
e che adesso per centomila granelli
volano di letizia e di pace
che non mi fu mai data in vita
perché la ritenni grama gioia
e che non conquistai con la morte
perché gramo son’io
che vago ancora per il buio
a cercare la miseria pia senza lanterna.
Avarizia, (latino avaritia) – eccessivo desiderio di non spendere, avidità di denaro cupidigia – Teologia - vizio che si oppone alla comune norma secondo la quale i mezzi devono essere subordinati al fine ultimo, sopravvalutazione dei beni terreni a disprezzo di quelli soprannaturali.
Avaritia
Serrata
in dentro alla saccoccia mia
stretto lo nodo che impedisca
anche al più spensierato dei pensieri miei
di cogliermi distratto e spendere
solo anche una parola
ma che dico, un alito
senza pensar ch’è meglio non lo fare
che di gente con le mani tese
ce n’è a frotte
chi chiede l’elemosina
chi venderebbe tutto
anche la moglie
a poco prezzo, a offerta.
Ma lo migliore acquisto
tanto rimane quello
che lo presi allora
e ancora non l’ebbi pagato
che a averne di soldi
ne troveresti un turbine di gente a chiedere
ma è meglio stare attenti
colle maniche strette
sì che neanche una stilla di sudore ne vada persa
della fatica mia.
La meglio poi che sento
è quella che m’impone
non solo di non comprar pagando
ne donar dei miei guadagni o delle cose mie,
magari le più brutte e vecchie
che voglia di gettar n’avrei
ma poi chi mi vestirebbe domani
se abbandonassi oggi la vecchia palandrana,
non donerai giammai, che tetro verbo a nominar,
manco una buona parola per qualcheduno
manco un pensiero.
Tutto ho a tener per parte mia
e tutto porterò con me ovunque vada
e non avrò pietà
di chi abbisogna di un cantuccio di pane
di un tetto o di una mano a fare dire o costruire
non sia mai detto che qualcuno dica
ch’io mai qualunque cosa abbia dato.
E di tante ricchezze io me ne fò vanto
di quanto ho e di quanto ho da avere
e mi sia sveltamente dato
che il debitore sia un misero, un borghese o una banca
che i titoli sian solidi, azioni o obbligazioni
che i giochi in borsa portino a me
più di quant’io possa mai immaginar di spendere,
che poi mai li spenderei,
non in una vita ma in duecento
e quando all’ammasso avrò tutta la roba
la porterò con me fin nella fossa
che voi immeritevoli
non ne abbia a godere manco se mi son morto
e come un falco che ghermisce un lepre
così stretta mi terrò la borsa nella fossa mia
che mi sarà scavata.
Ma ora che in quella fossa già ci misi un piede
mi ritrovai pieno di cose, denari, averi, poderi e titoli
sì che non avrei bisogno della terra
per rimanerci sotterrato
e sento che mi manca
tutto quello che non ho mangiato
perché costava
e i posti dove non andai
perché c’era da pagar biglietti
e di gente intorno a me feci vuoto di spazio e di amore
quell’amore che m’hanno detto
scalda il cuore e l’animo
sì che di freddo ne sento adesso
in questo buio castello ove rinchiusi me
la mia solitudine e la tristezza
che se anche ne avessi a bruciar di cose
non scalderebbe il foco come l’elemosina,
che solo adesso,
andrei a fare a quel poverello
ch’è ormai degli angeli di fame deceduto
prima che io pensassi mai
d’infilar la mano in tasca.
Lussuria, (latino luxuria) – brama sfrenata di piaceri sessuali – Teologia - piacere sessuale direttamente desiderato conseguente ad un atto non ragionevolmente giustificato.
Luxuria
Nuda
distesa su comodi cuscini
e ricoperta appena
di candide lenzuola immonde
che ove non mostrano le carni spudorate e desiderate
lasciano che si veda in per traverso almen le forme
che ammiccano insicure e lascive dall’alcova
che quando non fu più d’amore
lo fu solo per la voluttà e per la carne.
Nasce in me da chissà quali remoti ricordi
quando fanciullo mi cibavo
suggendo da mammelle materne la polpa della vita
o ancora prima
quando da quelle labbra spalancate
me ne sgusciai fuori non sazio
ma ancora di più affamato
di quelle labbra stesse che mi generarono
e non fu l’amore che mi riportò a loro
ma la voglia di mescolare il corpo mio
con quello di una femmina
di mischiar con essa odori, suoni e grugni
dei godimenti che i corpi nostri avessero a donarci
e rotolar con lei sotto lenzoli, insulle scale e in ogni luogo
che anche se non apparisse ad occhi innocenti
fu per me adatto a divenire alcova
non di carezze platoniche ma di violente mani
che s’andassero a infilare dentro pertugi scuri
celati a chi non si conviene.
Di tanto porcile n’ebbi infine il corpo pieno
anche se mai fu sazio di conquistar donzelle
d’ogni regione e colore e ancor di più d’ogni età
dalle più vecchie e profanate dame
esperte e altrettanto vogliose
alle più innocenti fanciulle e ancor di più bambine
che avessero a stuzzicar pensieri miei maligni
che come navi scalcinate naufragano nella testa mia
fino a bramar, chissà, per non aver perduto nulla
di fonder le mie forme con altri uomini
imberbi o nerboruti
che m’avessero a pigliare o a me si concedessero.
Infine, ancor mai sazio
ma stanco e soddisfatto
di ogni goduria e d’ogni piacer carnale
m’addormentai solo
come neanche un cane con la rabbia sta
e rovistai tra le lenzuola sporche
delle mille pennellate date
che come pittore sopraffino spalmai senza ritegno
e senza sapere che tutto quel sortire fuori
altro non era che un buco
che stava in dentro a me
povero d’amore
che non mi fu mai dato e che non seppi cercare
e adesso vecchio e malandato
guardo quei corpi chiari nella televisione e alla finestra
e penso che a me nulla han lasciato
se non la voglia di un sorriso, di un pianto e una carezza
data da una madre al bimbo suo mentre sonnecchia nella culla
ch’è però pronta a divenir domani alcova d’amore sano
o di pestilenza infame, inutile e cialtrona.
Invidia, (latino invidia) – sentimento di rancore e di astio alla vista della felicità e dei vantaggi altrui – Teologia – tristezza provocata dal bene altrui ingiustamente intesa come eclatante dimostrazione della propria inferiorità a prova di ingiustizia subita.
Invidia
Mi passano davanti superiori
come se lor più di me
ne avessero di chissà cosa
dentro a lussuose automobili lucide ed enormi
diretti alle loro auguste dimore di quaranta stanze
mentre distrattamente
poggiano gli stanchi sguardi
sopra orologi di ori e diamanti
che brillano alla luce del giorno quanto lo fan di notte
riflessi nei luccicar dei loro averi.
Specchiano il bianco e candido sorriso
di dentature molate a mano da architetti della bocca
che glie ne forniron di novelli
per meglio apparire in società.
Si avvolgono al caldo di pelli di animali
che dalla Tundra o di Siberia camminaron tristi
fin sulle loro spalle, in su quel corpo
sagomato con lo scalpello e con il bisturi
pittato da artisti e declamato in versi vani da scrittori
quand’io non potrò mai averne
né di pelli con cui rivestirmi
né di corpi mirabili e pregiati
da ammantare con cotanta bambagia pelosa.
Per questo solo, per così misera cosa
io nulla potei se non odiar loro e odiarne la condotta
e nel contempo bramare d’esser loro stesso
o di poterne almeno vivere la vita facile e placida
colma di agi e frivolezze
a contar li denari che si tengono nascosti o manifesti
dentro banche sicure o dentro scrigni d’oro
che solo il cofanetto potrebbe dar la gioia e lo sostegno
alla grama vita mia.
Ne voglio e ne pretendo
e scambierei la pellaccia mia vizza
con la loro sì scura di soli artificiali e viaggi in alto mare
e scambierei i mie conti da pagare
con quelli che hanno in cassaforte
i loro nomi sui libri e sui giornali
la fama che li copre e li riveste
di cui non posso far altro che sbavarne di malata voglia
sì, ché alla fine gli altri
sempre meglio che a me furon dotati,
le più belle donne e le migliori idee,
le fortune e le occasioni ghiotte
che se ne cibano senza badare al caso
mentr’io mi getterei a caporifitto.
Guardo i loro occhi, i loro capelli,
la loro vita e le loro vacanze
e non c’è meglio che volerle per me
ed ogni mattina mi alzo prima del sole
con il tormento in mano
bramando i loro tempi, i loro riposi,
i lavori puliti, le piste e le sigarette truccate
da fumarsi in pace in un angolo di bar
mentre a me tutto questo è proibito
perché non lo potei arrivare, perché
nelle misere mie tasche
e nella grinzosa anima che m’accompagna
potei guardare fino a fondo senza di nulla trovare.
Allora glie ne darei di foco
ardarei loro e il mondo intero
pur di avere quel che loro n’hanno
e che io non potei mai giungere a sapere
li violento nella mia insana mente e li uccido
per far sì che manco loro abbiano a goder di ciò
che a me è vietato di conoscerne il sapore
e manco l’odore.
Brucio loro e le loro menti
per tutto ciò che sono riusciti ad avere ed io no
per quel che sono riusciti a fare, a dire,
a sapere, a conoscere e ad urlare
ed io no.
Mi misuro allora
con l’ultimo degli sfortunati della terra
fino a scovar che anch’egli
è più giocondo di quant’io lo sia mai stato
sì che alla fine, ne provo ghigno pure per lui
e mi ritrovo perso, misero e solo.
Gola, (latino gula) – forte desiderio, bramosia – Teologia – appetito disordinato di cibi e bevande.
Gula
Non fu la fame
che mi fe’ indugiare nella scelta
quell’attimo di più
perché il dilemma era soltanto fra il prima e il dopo
se avessi ad ingoiare avanti
un cannolo ripieno di delizie e poi una sfoglia
coperta di glassa e caramello
o se meglio fosse l’incontrario.
Non era l’appetito che mi fece avvicinare al banco
a rimirar preziose e luccicanti
le gioie che l’artista di cucina ebbe compiute
e messe in bella mostra
dietro un vile contrafforte di vetro
a separarle dalla mia mano, grassoccia e tremula
che ancora non riusciva a sceglierne
mentre i piedi paffuti sotto le gambe tozze
pareano saltellare come quelli di un bimbo bramoso
quant’io sarei, dinanzi ad un gelato porto
ma non voluto dare.
La voglia incontenibile
di gettarmi su tanta delizia
scatena la mia lingua
che impaziente di assaggiare qualsivoglia delicatezza
percorre avanti e indietro la murata delle mie labbra
come sentinella in attesa di veder lontano
o meglio vicino
ciò che gli fu ordinato di annunciare.
La mia faccia si confonde in una smorfia
che mi rende pari all’animal
che grufola di ghianda in ghianda
e come lui io me m’ingrasso
non solo di lardo, di dolcetti e cibi cotti
ma anche della morbosa delizia
di saper che ciò che m’introdussi in sacco
dalla bocca di qualcun altro di sicuro lo cavai fuori
e nulla avrei mai speso di me
per dare ad altro stomaco
quel che avrei potuto mangiar io.
Come porco sullo spiedo gira
io vagolo la vita che mi gira intorno
come navigatore sperso all’equatore
e m’abbrustolisco le carni marce di fuori
quanto le ebbi dentro
loro insieme all’anima mia
che mai si degnò di chiedermi distratta
se io n’avessi di bisogno
o se di tale ingurgitare foss’io schiavo
nella malefica illusione
che nell’incorporare tutto
divenissi io padrone
di chi per me n’avea preparato
mentre bavoso e flaccido degli anni che ho passato
mi ritrovo io ad esser servo della fame mia
che avea da riempir dei stomaci
che a mettercene roba ce ne voleva
perché quei sacchi vuoti
non eran nella pancia mia grassa e beata
ma nell’anima cieca, vile e sbandata.
Ira, (latino ira) – moto dell’animo improvviso e violento che si rivolge contro qualcuno o qualcosa suscitato generalmente da offese altrui – Teologia - indebito e violento desiderio di vendetta, di condanna o di punizione.
Ira
Monta
e come cavallo furioso galoppa
per valli tormentate e colli impervi
come se se ne andasse in pace al trotto
su di una pista piana e ben battuta.
Mi trascina
fantino ignaro delle profondità in cui mi può menare
verso lande sconosciute ove gridar
è l’arma per far intender se e le proprie ragioni
cieca mi conduce a combattere guerre e devastar paesi
a schiacciare gli amici come i peggior nemici
a calpestar l’amore mio e della dama
per cui lo cuore mio ne batte.
Ed in un turbinar di parole rosse e schiaffi
rode di gelosia, rode di supremazia e di inutilità
irrompe nell’animo lieve e fa scompiglio di ogni affetto,
di ogni ricordo, di ogni lacrima versata
tramuta le risa in ghigno malefico
scuote come tremoto
sì che la voce mia poi s’altera e diventa come il tuono
rombando a destra e a manca
che pare lo Dies Ire
tanto funesta e scura
vibra sopra le genti e sopra il mondo intero.
La gente poi ti teme e ti ribrezza
che non si può fidare
di chi se ne fa prender spesso e a malo caso.
C’è poi quella dei giusti
che pure il Figlio del falegname
la scagliò contro a coloro che gli invasero la casa
ma quella e di disperazione
per la parola che se n’andò perduta
non udita da genti che altro avevano a pensar
che non pregare ma ordire biechi affari in suolo sacro
e guadagnar monete da celare.
Nefasta, inutile e volgare
mi prende a volte per le più semplici cose della vita
come uno spillo
che anziché pender da una parte
va dall’altra contrario al voler mio e al mio interesse
così m’impadronisco del sapere
con piglio scuro l’ammonisco e lo scaravento via
sì che capisca che chi comanda qui
è chi di voce ne ha da vender e assai.
Sempre n’arriva
per cose contro noi
talvolta a nostro inciampo
talvolta a nostra colpa
ma d’ogni azione che ho visto fatta per sua mano
contro un uccellino, contro la vita o contro l’uomo
con un cannone, con la bomba o con la carezza in mano
mai ne ho veduta una
che abbia risolto vite, questioni o lazzi
senza che poi se ne sia discusso
ai tavoli dei potenti o dinanzi ad un bicchiere.
Allora io mi chiedo
a che servì
se non a liberarmi l’animo impellente
gridare contro un bimbo o contro un deficiente
che ti sorpassa a destra o contromano
meglio sarebbe stato
contro un muro a calci e pugni
sciogliere il duro cuor che mi fe’ peso e non su te
che non m’avevi mai offeso.
Accidia, (greco akedia) – difetto di operosità nel fare il bene, negligenza, inerte indifferenza verso ogni forma di azione – Teologia – fastidio o tedio nell’operare il bene, negligenza per ciò che riguarda le cose di Dio.
Akedia
Sto
immobile
e me ne passa assai diversi in testa
ne programmo e ne stabilisco
di quello che da fare ci sarebbe
e come e quando e sempre di sicuro sia domani
che sia portare a te, che sia chiamarti
che sia una cosa bella e grande, che sia un peso
o una piuma leggera
l’una sicura cosa è che giammai la si fa oggi ma dimani.
Giovine principiai a rimandare
quando sui banchi duri seppi che poteo studiare poi
quello che oggi aveo di tra le mani
e in quella scuola di tentazioni empita
imparai subito a rimandare a mai.
Ce ne son state di cose brutte assai
che poi d’un tratto a forza di lasciarle rotolare
mi son tornate indietro doppie
e sulla gobba poi mi son rimaste pese e vistose
se non agli altri a me
che altro non so che fare
che pianger la miseria mia
che tutti i guai mi caricano il collo
e non mi dico nello specchio dell’anima
che tale colpa fu mia sola
per non aver fatto, oppur detto,
una semplice cosa che era di piuma
ma piombo m’era parsa
tanto non aveo passione di condurla.
Così me la ritrovo avanti, ogni dì pronta,
a farmi passar la voglia
persino di mangiare e far l’amore
pronta a dare di consigli
solo quelli ch’è meglio di non fare
tanta la gente, tante le azioni che n’abbisognano di me
delle mie mani, dei denari che reco in saccoccia
dei pensieri miei, dell’arme e dell’amore
che basterebbe un gesto, una carezza
una parola in un orecchio, un soldo dentro la coppa
grinzosa delle cineree mani del poverello
che fuori della porta si prostra ai piedi miei.
Di sicuro qualcuna della cose ne farò
ma adesso no
perché di certo cose più magne ed importanti
la vita mia n’ha da fare
che non giustizia, dare amore o peggio
con le mani mie, calce e cazzuola costruire
per me o per altri
con la fatica non sola del sudore
ma della mente, del pensiero
che già riempirsi il capo di parole me ne stufa.
Forse potrei far uno, forse due
ma il gabbio poi mi piglierebbe a doverne far cento
allora meglio lasciare che il tempo passi
senza che il dito mio mosso si sia
senza che il mal che ne consegue se ne vada via
tenendo sottobraccio tutto il bene mio
a ritrovarmi poi senza una casa, senza ventura
amici e conoscenza, senza coscienza
di ciò che aveo e che voleo donare
ma che non ebbi nella mente tempo a fare.
Adesso mi ritrovo zeppo di occasioni perse
per l’indolenza che mi tenne molle sul divano
col dio telecomando nella mano
ma sempre fisso sul solito canale
che anche decidere di dare mossa al dito
fu cosa difficile da fare, più che da dire.
Vuoto di tutto ciò che non riuscii a donare
perché la mano nella tasca non gettai
per trarre un soldo solo d’elemosina
adesso tutto quello che non feci non mi ritorna fatto
e quello che non donai non fece spola a me centuplicato
né nella materia né tantomeno nella gioia
che quale sia sì la cosa ch’era a fare
mi fe’ fatica dirla e anche pensare
ora non ritrovo manco le mosche in mano
che fa fatica a loro far oggi compagnia
e rimandano a domani
anche il solletico da farmi in sulle mani.
Fonti: Enciclopedia Rizzoli Larousse 2000 – Zingareli 2001 edizioni Zanichelli.