Dal baratto ai
primi affari, mi prodigavo nel cercare nuovi soci del club di Topolino
io, uomo primitivo un corno, già astuto bancario, pronto a gestire
inenarrabili capitali di dollari di chewing gum, a lottare per diventare
capoclasse, a prendere dieci grazie alla Mesopotamia e a prendere calci
da quelli di quinta, sul campo di abrasivo asfalto, nel cortile dei
summenzionati Pii Padri Scolopi. Perdere a bilie, perdere a volta la
figurina, perdere a pari e dispari e comprare borsate di figurine con i
soldi prelevati dalle borse della povera nonna, per poi vantarsi di
averle vinte in quelle gare in cui invece perdevo sempre. Iimpara
piccolo bambino impara e cibati di menzogne.
Non so cosa può aver spinto la mia incosciente incoscienza a
formulare questa inebriante e attraente ideologia, non so quanto ancora
in me fibrilli, nella speranza di prendere campo ancora, di nuovo.
Quello che non ti viene dato prendilo. Che triste vita se solo questo e
ciò che ho imparato, che triste vita lottare per non sentirmi ladro e
bugiardo, quanto in realtà lo sono stato e ancora lo sono. Per ogni
minuto, per ogni centesimo, per ogni torto comunque ed in ogni modo
portato via a chi lo deteneva con ragione, almeno con ragione nei miei
confronti. Sottrarre a chi ha sottratto non può diventare da delitto una
virtù. Che triste vita, viverla con questo amaro precetto in fondo al
mio unico, misero, doloroso e sorprendentemente colmo d'amore, piccolo
cuore.
Cosa ti è mancato? Una mano tesa, un giocattolino, una carezza, un
sorriso in famiglia, Brancaleone il giovedì sera o un semplice sì! Non è
un rifiuto ad ucciderti, sono i mille inesorabili no! Tutto quello che
cerchiamo oggi non è altro che ciò che non ci è stato dato? È così? È
semplicemente, inesorabilmente così? Vendichiamo piccoli bimbi che non
potranno mai più avere ciò che non è stato loro concesso, riempiendoci
di frustrate soddisfazioni, incapaci di colmare quei vuoti che i bambini
rinchiusi dentro di noi, ancora e per sempre, continueranno a farci
sentire. Quanto sembra facile poter indicare agli altri ciò che va e ciò
che non va, inconsapevoli, più o meno coscientemente, che non è di
alcun interesse conoscere ciò che va e ciò che non va, ma essere, avere,
dare, dire, fare, baciare, lettera e testamento. Perché devi dirmi di
no? È forse meglio vivere di privazioni che morire delle nostre stesse
semplici, meravigliose, appaganti soddisfazioni? E le privazioni a
cos'altro potranno portarci se non a meditare, compiere e abusare
prevaricazioni verso altri miseri, ignari, innocenti embrioni di vita.
E' buffo come le convinzioni degli altri, soprattutto se gli altri
sono i tuoi educatori, possano deviare la tua vita in meandri tortuosi e
inaspettati. Chi ha voluto, chi ha pensato bene per me, che io non
crescessi circondato da miei simili ma cullando piccoli bebè di
plastica, così tanto e tanto bene da adeguarmene a tal punto che allora
mi sembrò talmente normale da continuare allegramente a farlo.
Crescevo, crescevo fra i giochi mielosi delle bambine,
ingenuamente e teneramente aperto, tanto da far entrare dentro di me
tutta la loro dolcezza e la loro complicità mentre lasciavo morire di
umiliazione le mie voglie, le occhiate e le mani che anche allora avrei
allungato, sotto qualche gonna, durante una lotta o nel bel mezzo di una
zuffa. Nessuno però mi aveva insegnato l'audacia e allora morivo,
frustrato e incapace, di quella voglia che colpisce chi desidera correre
ma non ha più le gambe, anzi non ce le ha mai avute.
Star lì con loro, a fare l'eunuco credendo d'essere il re, era
appagante a tal punto, dal desiderarlo, dal cercarlo, dal farmelo
sembrare normale. Tanto normale da indebolire la mia peculiarità
genetica, non era meglio o peggio ciò che imparavo, era solo diverso,
diverso da ciò che io realmente e materialmente ero, oltre che
fisicamente e psichicamente, cavolo, un uomo!
Ho vissuto nel giardino dell'eden fino a che un bel mattino si
sono complimentati con me per non aver creato danni, per non essere
divenuto un mascalzone, per essere così amorevole e delicato ma che da
quel momento ero indesiderato e potevo ritornare dall'altra parte della
barricata, in quel mondo di belve, di sanguinari e di sporchi uomini.
Nonna, ma se non c'era un altro modo per impedirmi di diventare cattivo
come chi aveva fatto del male a te, perché non hai lasciato che lo
diventassi ugualmente ma che almeno lo fossi nella maniera più giusta,
tanto cattivo lo sono diventato lo stesso, come una donna. Anzi più
cattivo, come l'uomo che sono e come la donna che è entrata in me. Tanto
che a volte mi sembra che le donne si facciano male fra di loro e poi
ne diano la colpa agli uomini. Le prime a gridar puttane sono le donne,
gli uomini ci vanno a letto! La chiamavano Bocca di rosa…
Crescevo e quando le ho dovute tirar fuori non me le sono più
sapute trovare. Perché c'erano ma le avevo messe da parte per sentirmi
uguale a loro, a quelle bambine che mi riempivano di attenzioni e di
carezze non perché ero io, come credevo ma perché c'ero solo io con
loro. E con quelle due palle celate sarei cresciuto fino a capirlo, fino
a poterlo sentire. Povero brodo mi scrissero dieci anni dopo e mi parve
tanto ovvio e cosi narcisisticamente umiliante che non lo cancellai mai
più. Così tanto per farmi un po' più male.
Nonna: persona dolce e affettuosa che vuole bene a…, lasciamo
perdere il dolce e affettuosa e al posto di persona metterei termine
astratto. E per quanto riguarda il voler bene, la mia di nonne, nonna
Genny, di bene ne ha voluto a… a Betty, forse e a nessun altro tranne
che a se stessa. Anche questa è la solita storia, chi non ha mai
ricevuto non può donare amore, ma da qualche parete dovremo pur
cominciare. In fondo ci può servire anche dare la colpa a qualcuno, per
riuscire ad accettarci ad accettare i nostri errori, le nostre paure, la
nostra stessa misera, unica vita. Ed io ho deciso! Darò la colpa di
tutto a lei. Non l'ho mai carezzata e baciata quanto quel giorno che era
distesa immobile, dentro la sua bara di legno. In piedi, accanto al suo
feretro, lì, con il broncio triste a farmi vedere ed ammirare dai
parenti, falso e bugiardo quanto non avrei mai potuto meglio dimostrare
d'essere! Ci sarà pure stato un motivo, per mettere in scena questa
ignobile dimostrazione d'affetto che non c'era? Possibile, che in fondo
ne fossi realmente, orribilmente e tragicamente contento? Per le
figurine che le ho dovuto stracciare sotto il naso, per farle credere
che non avevo paura di lei? Per come maliziosamente riusciva a farmi
credere di dare più attenzione a mia sorella che a me? Mentre in realtà
l'interesse nei confronti di mia sorella, altro non era che oppressione,
che Betty probabilmente ha anche mal sopportato in quegli anni
fatidici, culla e fulcro della sua futura ribellione!
Intorno a me i vecchi morivano, i giovani scappavano di casa
lasciando messaggi tremendi di disperazione e lasciando me con l'astio
in gola, per non aver visto e mai più potuto vedere quel film nero di
uccelli brutti e piccolini che tanto mi aveva tratto a se. Quanto la ho
odiata d'aver scelto proprio quel giorno per levarsi di torno. Quanto
non ho capito quello che mi stava accadendo intorno, non aver capito la
fuga di Francesca e non aver sentito le lacrime di Betty, Io, che già
allora avevo una maiuscola davanti al mio Ego, ad altro non potevo
interessarmi quella sera, se non a godermi un film di Totò, farmi
quattro risate e andarmene a letto, a sognare quelle donne che non avrei
mai avuto.
D'altronde quella con le mie sorelle era una lotta impari, per
tutti noi allo stesso modo, ad accaparrarsi un po' d'amore. E di quel
poco che ce n'era, davvero ne sarebbe toccato una cucchiaiata appena per
ciascuno. Ma ero un bambino, che altro potevo mai pensare e
soprattutto, dove potevo mai trovare quel sentimento di tristezza nei
confronti di una situazione così tragica e straziante, se non mi era
stato insegnato l'amore? In fondo perché mai avrei dovuto rinunciare al
mio per donarlo, rimanendo loro vicino, perché, se non sentivo che
nessuna di loro rinunciasse al proprio per donarne a me, stolto e cieco
ragazzino.
Ma di questo non ci sono e non ci sono stati colpevoli, il mio non è un atto d'accusa, solo una richiesta di perdono!
Ricordo solo due sabato della mia infanzia in famiglia, in uno
abbiamo avuto un incidente con la vecchia ottoecinquanta caffellatte,
l'altro ha avuto un tragico rientro, con Francesca ad aspettarci
sdraiata tre metri più sotto da dove si era lanciata, stupida, impavida
scivolatrice ribelle. Possibile che non ce ne siano stati altri,
possibile che ci sia stato solo Montespertoli o soli a casa! Eppure mi
ricordo verdi pic nic a Montalbano e domeniche in piscina a
Pietramarina. Perché non sono riuscito a strizzarci fuori un po'
d'amore, eppure non è stata un infanzia infelice la mia, non ci sono
stati soprusi o privazioni vitali, qualche scapaccione di troppo e un
bel po' di ceffoni ma niente che abbia mai potuto portarmi a vivere nel
terrore, forse solo troppi miseri no! E forse urlati troppo forte! Ma
quando, quando e perché il giocattolo si era già rotto? Forse prima,
prima che io possa ricordare o immaginare. E' davvero nella culla che mi
sono mancate le carezze di mio padre? E' forse nei perdoni cristiani
non ricevuti da un cristiano di professione come mio padre. E quante
coccole avrebbe dovuto farmi mia madre per farmi credere che in fondo
l'amore da qualche parte c'era? No, non rivendico quello di cui potrei
essere stato defraudato, troppo facile sparare a zero verso mille
stremati colpevoli senza colpa. E lo scrivo mentre piango! Mi piacerebbe
soltanto averlo provato. Così, tanto per sapere come poteva essere, per
sorridere una volta di più, per imparare prima com'era amare, non
farmelo prescrivere da un dottore!
A queste condizioni le mie sorelle non potevano certo rientrare
nei miei interessi, erano un contorno, troppo piccolo per accorgermi di
loro, se non per menarle. Non sento di aver mai desiderato veramente che
non ci fossero o che non ci fossero state, c'erano e le ho amate,
odiate, giocate, senza mai, purtroppo, lasciarle veramente entrare
dentro di me e probabilmente senza essere mai riuscito a scalfire la
loro corazza e penetrare nel loro unico, misero, doloroso e
sorprendentemente colmo d'amore, piccolo cuore. Perché vi sembrerà
strano ma ce lo avevano anche loro e io che non me ne ero accorto!
Perdonatemi che sto venendo a perdonare voi. Per riuscire insieme a
perdonare lei che ci dia la forza di perdonare lui, che avrà bisogno di
tutto l'amore del mondo per perdonare chi lo ha privato dell'amore di
cui aveva immensamente bisogno.
Crescevo e menavo, perché non sapevo amare e rendevo alle mie care
sorelle quello che il mio signore mi dava come pane quotidiano.
Crescevo, pieno di quel nulla che credevo di non avere, ma che abbondava
invece intorno a me, senza che me ne importasse un fico secco. Passavo
le giornate a giocare da solo, sicuro d'essere il più forte e il più
piaciuto, a esser preso in giro dai miei pari e ad essere coccolato come
un peluche dalle mamme delle bambine che riempivano la mia vita.
Ingenue madri che inconsapevoli del serpe che si sarebbero covate in
seno, avrebbero voluto un bel bambino proprio come me ed io mi gongolavo
d'essere il più desiderato. Allora però non riuscivo a formulare un più
maturo pensiero, che ci avrebbero fatto mai con un castrato nel
pollaio, buono a farsi mirare e rimirare, sarebbe finita poi che ne
avrebbero fatto un covo di pavoni, con la voce stridula ma senza
coglioni
Ma in quei momenti la mia felicità trovava la sua dissetante fonte
proprio nell'amore ricevuto da quella mamma che non era la mia e da
quella sorella che non era una della mie. In quei giorni in cui venivo
dimenticato negli ingressi del doposcuola dei Pii Padri Scolopi a
desinare con i bambini e a cenare con i bidelli, tu, cara Sandra,
semplice e umile, sei stata il mio fratello maggiore, il mio faro, la
mia guida. Semplicemente perché amavi un piccolo bambino che ti voleva
bene e al quale mancava solo un po' d'amore. Quel fraterno amore che
riceveva da te, grazie al fatto di essere lì a raccoglierne mentre lo
donavi intorno. Con la semplicità tua naturale e con l'umiltà serena e
candida che ti contraddistingueva, in quel mondo che già allora
prometteva di diventare la fiera delle vanità che oggi viviamo. Sei oggi
quella che sei ed io sono divenuto quello che ti descrive adesso, c'è
chi non si cambierebbe con te ma non so se sia migliore una vita come la
sua, la tua o forse la mia.
Ed anche quella è stata vita mia. Anzi, proprio quella è stata
vita mia, vera, vissuta e soprattutto sentita, come un'alba, come un
certezza da cui poter ripartire, anche se può esser rimasta abbandonata
in una distesa immensa, deserta di dubbi. Mi vedo ancora, con la bocca
socchiusa e la lingua a far capolino dalle mie labbra rosse, dipingere
la bandiera degli USA insieme a Sandra, il nostro simbolo, quello della
nostra squadra, io e te ai più straordinari "giochi senza frontiere" da
strada che siano mai stati giocati. Che meravigliosa vita, viverla con
questa immensa gioia nel mio unico, misero, doloroso e sorprendentemente
colmo d'amore, piccolo cuore.
Crescevo, crescevo e guardavo mia madre lavare e stirare
esattamente nel modo in cui era stata ammaestrata e come, non essendo
riuscita ad insegnarlo alle sue figlie, aveva tramandato a me. La
polverosa, tragica, sterile arte delle pulizie. Così tanto e naturale
capitò bene, per loro chiaramente non per me, che io la imparassi da
andare a finire che, quando non ce n'era d'altro, me ne serbavano un
poco sotto forma di scale da strusciare. E il povero pollo, di pelle
raggrinzita, continuava a piegar la testa e non sapeva far altro che
gridare qualche chicchirichì di rabbia, piangere e dar beccate, quando
nessuna ragione stava tra le sue zampe.
Povero sciocco potrei soltanto aggiungere oggidì, se non sapessi
che quell'allocco altri non è se non tutto l'amore che adesso tengo in
me, raggranellato con fatica lungo un'immensa, misera, unica vita, la
mia.
Ma allora era più grande in me, la forza del martirio a cui mi
volevo sottoporre di quanto riuscissi a vedere come io mi umiliassi, non
davanti agli altri, bensì al maschio con le palle che se la rideva
dentro di me. Lui la notte se la passava tra bagordi, donne e giochi,
vittorie e spassi, creati ad hoc dentro ai miei sogni ad occhi aperti e a
me lasciava la merda della vita che lui non era riuscito a far
diventare vera. Bella forza a fare finta son bravi tutti. Io la vita
però, misera e unica quanto vuoi però l'ho vissuta per davvero.
Crescevo, il tempo passava e i pianti di un bambino non erano più
bene accetti nelle palestre e nelle aule, dove i primi amori nacquero
così in fretta che finirono prima di essere mai cominciati. Quelli
furono anni di speranza, di intensa attività e di frequentazione con la
mia ristretta ma tosta cerchia di amici. Fabio, Marco, Dario, io, la più
strampalata accozzaglia di orrori umani. Anni dopo solo un film dal
titolo "La rivincita dei Nerds" avrebbe reso giustizia alla nostra
bruttezza, grettezza e incapacità di rapporto con il sesso femminile.
Però ce le spassavamo, erano gli ultimi momenti prima di incominciare a
crescere davvero. Gli ultimi giochi prima di dover sembrare grandi a
tutti i costi. Prima di cominciare a fumare sigarette, a fumare altre
cose e prima di cominciare a perdersi. Lezioni, giochi e sedute
spiritiche, gli ultimi sereni ricordi di una parentesi rosea che
rinchiude in un soffio i tre anni più sereni dei miei primi trent'anni
di vita. Forse perché a quell'età non avevamo più niente da chiedere di
quello che ci era mancato e ancora non ci mancava quello che presto
avremo cominciato a chiedere. In una vita di brutti ricordi, quei giorni
apparsi insipidi di tranquillità, passano via veloci lasciandomi tre
doni grandiosi: la non sofferenza, tre brutti ceffi e il dolce ricordo
di Eleonora.
Crebbi ancora e dopo quel primo candido no, primo di una
sconfinata serie, fui costretto a rinunciare alla lacrime pubbliche,
arma ormai obsoleta per attirare l'attenzione a quell'età. Abbandonai
questa umida pratica in modo da far credere d'esser uomo e ritrovarmi
poi a profanarle abbondanti su mura dure di mattoni o su cuscini duri di
rabbia. In quegli interminabili pomeriggi di stupida e ingenua
solitudine trascorsi chiuso, maledettamente chiuso, in quella stanza.
Quante nocche sbucciate, su quelle mani, impotenti e allo stesso tempo
innocenti, davanti ad un mondo a cui non ero per niente pronto a fare
fronte. Chissà cosa mi tenne lontano in quei giorni, dalle amicizie nate
trai banchi a cui non detti vigore, dalle gite scolastiche a cui non
partecipai. Chissà perché a un certo punto smisi di espandermi. Mi
ritrovai a settorizzare la gente che era intorno a me. I vicini di casa,
cresciuti come me, rimasero comunque per me dei bambini. Non riuscii
che a continuare e ancora oggi per me lo sono, che a vederli troppo
piccoli per essere frequentati, non ragazzi grandi con cui proseguire e
ampliare una vita di amicizia. La scuola fu il mio mostro imbattibile e
di conseguenza i compagni di scuola furono, malauguratamente, compagni
di scuola e questo si rivelò un grosso handicap. Non solo non riuscii a
farli diventare compagni di vita ma non fui all'altezza nemmeno di
sentirli compagni di studi, se non gli ultimi spiccioli di giorni prima
degli esami. Troppo chiuso, maledettamente chiuso in quella stanza che
fu il mio regno, di cui ero il solo re, il solo guardiano e il solo
prigioniero.
Crescevo e mi ritrovavo incapace di vivere. Quanto, proprio in
quei momenti ho sentito la mancanza di aver fatto a cazzotti, di averle
prese e date, di aver giocato a calcio o corso in bicicletta. Di aver
fatto tutte quelle cose stupide e normali che fanno tutti e di essermele
godute, senza che fosse ogni volta una gara, una competizione impari
con quello stronzo che abita dentro di me. Quanto mi è mancato di aver
spalmato un po' di muscoli sopra queste quattro luride ossa che poi solo
nell'essere strano, hanno trovato la via per ottenere quello che di
normale non avevano addosso per riuscire a farsi notare in mezzo alla
massa. Quanto in un milione di quei momenti, ho sentito gravare su di me
la mancanza di un bel paio di palle, capaci di farmi sentire l'homo
horribilus che avrei desiderato essere, insensibile ma potente!
Ho cercato invano sostegni nel mio passato ma ad ogni ostacolo che
mi si parava davanti, di qualunque tipo esso fosse, non potevo far a
meno di sentirgli ancora, infinitamente, ennesimamente, inesorabilmente
pronunciare quella frase che fu una mannaia da ghigliottina sul mio
tenero collo di bambino.
Fischia.
Se ti prendono in giro, tu fischia. Se ti maltrattano, tu fischia.
Se ti picchiano, tu fischia. Se la vita è una merda, tu fischia. Quante
volte infinitamente, ennesimamente, inesorabilmente tu hai dovuto
fischiare? Chi ti ha fatto fischiare? È stato tuo padre? È stata la
nonna? O piuttosto la vita di campagna o la guerra, il
millenovecentoquarantatre o la sindrome di Peter Pan. Chiuso,
maledettamente chiuso in quell'epoca che fu il tuo regno, di cui eri il
solo re, il solo guardiano e il solo prigioniero.
Il sabato sera era
di febbre e se glie lo avessero insegnato… Ah se glie lo avessero
insegnato, sarebbe stato maledetto, vigliacco e spudorato. Perché non
gli mancava di certo la faccia ne il costato e un po' di muscoli ce li
avrebbe potuti mettere sopra, piano piano, se non lo avessero mandato da
Dio proprio mentre incominciava a rompere il fiato. Povero piccolo
bambino, cresciuto e rimasto bambino, non capace di prendere ma ancora
li a chiedere, con la manina tesa, come se si trattasse di caramelle,
come se quelle zuccherose delizie da scartare fossero sicure prede
celate nella borsa di zia Lina, con quel retrogusto di naftalina ma
dolci al primo impatto. Niente miele ne orzo, per lui rimase solo la
naftalina e con quell'etereo aroma nella testa, cominciò a brancolare
nella jungla fitta della discoteca e a rimbalzare così tanto che alla
fine gli sembrò normale. Quell'incapace, inetto, buono a nulla, candido
amorevole, innocente babbeo che sono. Cotte, ricotte e prese a botte,
uno smilzo bambino fuori moda, con i calzoni a campana quando tutti ce
li avevano stretti alla caviglia e quando le bande erano una meraviglia a
cui non fu capace di appartenere. Stare a guardar passare per casa la
peggio feccia del paese, lui che avrebbe frignato al primo dito che gli
fosse stato puntato addosso. Rimirare quei grandi, che poi in fondo
altro non erano che un paio d'anni più vecchi di lui e desiderare
ardentemente d'essere come credeva fossero loro. Menefreghista, stronzo e
potente.
Venivo su, storto e zoppicante, tremante in un mondo troppo più
grande di me. Fischia mi dicevano, se ti prendono in giro e se
continuano non ci giocare più. Ma tu grande signore mio che m'hai
educato a questa vita, perché non hai voluto insegnare a me quel
coraggio che tu non hai avuto? Perché è inutile che tu menta, l'hai
fatta vedere a tutti la tua paura, la tua paura di morire che altro non
era e non è stata, che la tua paura di vivere. Nemmeno noi, tuoi figli
siamo riusciti dove già avevano fallito tutti, persino lei. Nemmeno io
sono riuscito a farti amare la vita senza paura, senza vergognartene.
Senza le tue dure ansie non eri capace di vivere. Così a me rimane
almeno la triste gioia di averti fatto amare la tua temuta, santa e
disperata morte. Un bambino inerme nelle mie mani, diligente ed
ubbidiente ad ogni mio ordine, nella innocente speranza che questo gli
donasse un altro po' di quella meravigliosa vita, che senza dire niente a
nessuno e grazie alla mamma, a Francesca, a Betty e a me, alla fine
aveva capito d'amare.
L'eremita mi avevano insegnato a fare ed io d'ogni compagnia sono
rimasto poi solo. E non avrei davvero saputo che farci con loro, perché
sarei riuscito sicuramente a prendere finché me ne avessero dato ma non
sarei mai stato capace di dare per quanto me ne avessero chiesto. E
dentro di me, triste e sconsolato, cantavo piangendo di rabbia e di
voglia di tornare indietro, perché il più fico amico è chi resisterà,
chi di noi, chi di noi resisterà! E il più fico amico sarebbe stato chi
insieme a me avesse resistito. Solo dopo, stoltamente incazzato con gli
altri, mi sono accorto che ero proprio io invece quello che se n'era
andato. Tranne uno tutti li persi, elementari, medi e superiori e poi
anche a quello gli lasciai prendere una strada, assicurandomi che fosse
diversa dalla mia, lui nebbia di nome ed io che solo e da solo mi ci
sono ficcato. Troppo semplice, troppo tranquillo e bene amato, troppo
sereno e contento di stare in questo mondo, perdonami Alessandro se non
son stato in grado di rimanerti accanto. Tu no, ma io avevo troppo
bisogno di "una vita spericolata" e ci siamo persi di vista così,
semplicemente come accade ovunque ogni giorno, ci vediamo! E poi più
niente. Almeno con Enrico ci siamo lasciati ufficialmente, chiamami
quando non ti servo gli ho detto e lui non mi ha chiamato più. O forse
era a me che non serviva più.
Intorno tutto diventò ricco all'improvviso. Appariscente,
scintillante, sembrare più che essere. Uno stralcio di tempo dove, più
ancora di altri, l'apparenza la faceva da padrone e il look era la nuova
unica e sola fede riconosciuta. Con quel poco che mi rimaneva in tasca
mi ci buttai anch'io nella ricchezza di quegli anni, di Full Time, di
rockoteca, donne poche e tizzoni ardenti assai, che per un po' lasciai
fumare soli davanti a me, prima di agguantarli insieme ai colli di
bottiglia, per perdermici dentro e dissolvermi in quel fumo agre di erba
arrostita. Per non vedermi, se non nei fondi opachi di calici amari in
cui roba scura c'era ma non era caffè. Bensì il mio penoso essere o non
essere che, nonostante tutto il mio mascherarmi; a carnevale, in casa e a
scuola, con gli amici e con le donne, con gli altri e con me stesso,
alla fine mi ritornava addosso e mi seppelliva nella melma del mio odio e
dell'invidia.
Mare a non finire, motori, ravioli in scatola e sacchi a pelo,
nelle pinete e sulle spiagge, senza una meta e senza soldi, solo
divertimento, egoistico sano puro divertimento adolescenziale. Anni
finalmente goduti, assaporati fino in fondo, fino a quel fondo
raggiungibile fino a quel fondo conosciuto ma almeno goduti. Con
l'incoscienza del menefreghismo e dell'egoismo. Shhh, c'è Bruno! Spiagge
affollate intorno a noi ma, forse riuniti in un gruppo più unico che
raro di sfigati, noi soli in mezzo al nulla, noi soli senza che ce ne
importasse, noi soli ad ascoltare il boato di gioia sulla spiaggia. La
Fiorentina ha perso, è in serie B. Noi alla capannina a Cecina a
guardare le olimpiadi. Noi alla Mazzanta a leggere le imprese di
Azzurra! Noi a Rimini, 69 e 96. Noi in Spagna senza nemmeno vederla. Noi
ad Istanbul, "From Empoli the Revolution". Noi in Grecia tra i campi di
maria. Noi, che finchè non ci siam persi dietro alle sottane siamo
rimasti uniti, incollati, saldati. Poi è arrivata la vita maledetta, a
portarci via le cene ubriache di vomito e pazzie, di macchine sfasciate e
Pironì, a portarci via le feste dell'unità, i mondiali dell'82 e i
morti di Bruxell, a portarci via gli incidenti, le moto distrutte e i
punti in testa, a portarci via i peloso, le Vespe e i pic-nic a
Castiglioncello a portarci via la vita!
Noi, sempre alla ricerca di quella valle morbida e scura che
doveva dar gioia ma che portava solo rabbia se non c'era, perché di
solito non c'era. E quando c'era, ce n'era poca e da lontano e quando ci
fu mi portò più rabbia ancora. Sul limitare di quell'attimo che doveva
donare i colori della vita e i sapori dell'esistenza. Quando dopo la
scuola si comincia ad assaggiare quell'indipendenza agognata per anni,
tra le sottane madri e i padri scappellotti, come l'ultimo degli ovini
che pecoroni si guardano intorno e si adeguano al fare del branco, che
era allora quello di timbrare il cartellino comunque fosse quella buca
che l'inghiotte, come tutti mi lasciai trascinare in una storia
principiata troppo presto e finita troppo tardi della quale, alla fine,
non c'è altro da dire purtroppo.
Se non di quel piccolo pensiero che non fu fatto in tempo ad esser
formulato che qualcuno pensò bene di disfarsene. E io rimasi lurido con
le mie mani in mano senza difenderlo.
Dopo la ribellione, la coppa dei campioni, le belle cosce materne
guardate da sotto in su, in una sera di troppo vino, di troppa birra e
di troppo tutto come troppo spesso capitava. Dopo la miserrima riscossa
del bambino che punta i piedi imbronciato contro il mondo intero, mi
rinchiusi svelto in una cella buia e fredda, che m'avevano fatto credere
la suite di un grande albergo, tanto che dentro ci sono rimasto un
decennio. Prima a cercare di capire come c'ero finito e poi a come avrei
mai potuto uscirne fuori.
Arrivò il lavoro a cavarmi d'impaccio. Almeno qualcosa c'era a
darmi l'illusione di quella soddisfazione che non riuscivo a trovare in
un abbraccio che non volevo ma da cui non sapevo estraneo allontanarmi
con grazia, finché non mi allontanai con sgarbo. Stanco dello
spergiurare a destra e a manca che sarei stato capace d'aspettare quello
che era ormai trent'anni di cui facevo a meno ma del quale, in realtà,
bramavo conoscere al più presto ogni tipo, ogni forma, ogni possibilità
di dimostrazione, di quello sconosciuto per me sentimento che era
l'amore. Eppure me ne era girato intorno ma impaurito da ciò che non mi
era stato presentato, non me ne accorsi e lo lasciai sciogliere via in
sorrisi di madre e carezze di padre che non seppi riconoscere e non
volli vedere intorno a me, pur di poter domani, che è poi oggi, dire che
non m'avevate amato. Come siamo inconsciamente stupidi e capaci di
rovinarci l'esistenza. Maledetti, orgogliosi e permalosi. Incapaci di
dare, se prima non abbiamo perlomeno ricevuto il doppio di quello che
potremmo mai sganciare dalle nostre aride, vuote tasche, spoglie di
sentimenti colmi di interesse.
Conti e contanti mi sollevarono quel che credevo l'animo ma era
solo l'alibi che si formava lentamente in me, per tenermi sempre più in
quelle catene in cui mi rinchiudevo, trovandovi la sicurezza del non
dover dire ho sbagliato, del non dovermi dare alla vita col rischio che
la vita mi desse del fallito mentre con te fallivo ogni giorno di più.
T'amai forse, di quel sentimento giovane che nasce dal non aver
avuto, come un bimbo piccolo a cui per la prima volta donano una palla.
Solo dopo, col tempo e con l'aiuto di chi non teneva a me per parentela
ma per soldi, capii che potevo sceglierne il colore, la grandezza, il
gusto e il tatto. Fino a che non capii che dentro ad un palla piena
d'aria, tolto l'aria non c'era più niente. Fuggii così credendo ancora
di scappare, ritrovandomi invece a vivere, a provare, a sentire e
finalmente a conoscere amore.
Non cercai più palloni ma trovai una donna, che a dire il vero
trovò me, nel fondo di un cassetto di conti fatti ritto su di un
piedistallo in faccia al sole e che finalmente mi fece scendere, umile, a
bearmi della immensa grandezza di non esser niente, se non me stesso
insieme a lei.
Piansi tra le tue mani Patrizia e t'amai della passione, della
ribellione, della frustrazione, della libertà che mi regalavi
incatenandomi a te. T'amai del vento che correva tra i tuoi capelli,
dell'acqua che ti bagnava impertinente e prima ancora dell'attesa che
lessi in fondo a quei due mari scuri in cui ancora mi bagno quotidiano e
mi rispecchio. Per me sei importante ma non voglio farti del male,
mormorai sperando di abbracciarti e tu prendesti la mia testa fra le
mani e donasti il risveglio ad uno stupido addormentato nel folto della
foresta di carte bollate, decreti e leggi, dietro a cui non potevo più
nascondermi.
E m'abbandonai a te prima, a me e infine a noi.
Nato tra panni, cresciuto nella carta, non avvezzo a carezze, mi
ci volle tutto il tuo amore a saziarmi dell'aridità di quel deserto che
mi aveva fatto crescere rachitico, come una pianticella che ha bisogno
dell'acqua che le scorre vicina ma non la bagna mai.
La meraviglia di essere in te Patrizia e nel viverti giorno per
giorno, dell'amarti e del declamarti eterea e candida in versi e
sognarti, desiderarti e ancora amarti, spudorata e tigre con me. Non
sono i mille bigliettini, né le parole che ci trovi dentro, sono le
carezze che adesso riesco con tanta naturalezza a farti, solleticandoti
il cuore con i miei versi, con le mie mani, con quello che con te sono
riuscito a fare, a costruire, a sentire, provare, credere. Fino a far
vacillare le tue paure e portarti a credere che anche tu stessa,
meravigliosa ennesima Candy Candy, puoi essere amata, indiscutibilmente,
indissolubilmente, inaspettatamente e realizzare i tuoi bisogni, i
desideri e infine anche i tuoi sogni. Fino a quello che anche se non lo
realizzassimo insieme, ne lasceremo comunque dietro di noi in eredità a
questo stupido mondo, che ci voleva far credere d'essere inospitale ma
che proprio nelle sue miserie, nelle morti di fame e nei cancri che
sparge al vento, vive la meraviglia dell'assoluta verità. Proprio perché
c'è chi ha bisogno e bisogno di noi, noi lo possiamo amare. E amiamoli
allora, i padri, le madri, i parenti tutti, i nemici, gli ex mariti e
quelli che non riusciamo a lasciare, gli ex amici e quelli che non
riusciamo a trovare. Amiamo, e lasceremo noi qui ad amare, anche quando
non ci saremo più.
Adesso, dopo la fame, la sete e i bisogni tutti, satollo infine
dell'aver dato e dell'aver ripreso, mi gusto il quotidiano averti, il
quotidiano esserti e il quotidiano starti che dona a me la felicità
serena di sentirmi e d'esser io, non del narciso ego d'apparire ma del
sapere che io sono e che tu sei con me.
Son morto e poi
risorto, finalmente, tra le braccia di un angiolin bellin bellino, sceso
a scuotermi dal mio torpore, colmo di sogni illusori ma senza carne da
toccare. Salvato dall'incoscienza di una vita colma di niente, piena del
silenzio dell'inesistenza, reame dell'indifferenza, strappato dalle
grinfie di un narcotico oppiaceo che ti fa credere di non sentir dolore,
solo perché non riesci più a percepire nemmeno le più piccole umili
gioie. Non posso parlare di un tempo in cui non ci sono stato, un tempo
che non ho sentito scorrere sulla mia pelle, in cui non ho pianto, non
ho gridato, non ho sbattuto i pugni nel muro. Non mi sono ribellato!
Inorridisco ancora al solo pensarci e se lo paragono alla mia
fantotragica infanzia, quest'ultima mi pare la vita spensierata nel
paese delle meraviglie. Lottato. Rassegnato. Ibernato dalla morte e
infine dalla morte risvegliato. Come ho imparato l'amore "Siamo uomini
ho innamorati" ve lo ha di già narrato.
Perdonatemi l'egoismo, perdonatemi per questa vita.
Come tanti sono arrivato troppo tardi a vedere e sentire.
Dopo avervi fatto tutto il male di cui sono stato capace, chiedo ancora una volta il vostro amore ed il perdono.
Piango ancora sulle mie ferite, non più gocce d'odio ma lacrime d'amore.
E infine amo.
Amo la vita e amo voi.
E in conclusione non posso far altro che contraddirmi e
confermarmi allo stesso tempo, rassicurando tutti sulla cosa più
essenziale che, nonostante tutto quanto possa esser stato o sia
sembrato, rimane unica, misera e vera: oltre ad amare voi, io amo me!!!
Sì, amo me, amo la vita e amo anche voi.
Voi che non avete trovato posto tra le righe ma che volente o
nolente, con al gioia la rabbia, la tristezza e la felicità, porto
comunque serenamente dentro di me, voi la mia vita: il tronco d'albero
vicino alla vite accanto al quale mi sono sdraiato durante la mia prima
crisi d'asma, i carciofi fritti all'asilo, la bambina che mi faceva la
corte all'asilo, la mela con la buccia buttata nel cestino mentre facevo
il girotondo ancora all'asilo, Abano a bangare i banghi, quella volta
che di ritorno da Abano babbo mi portò in regalo la fattoria con tutti
gli animali, le cose sconce sotto i garagi, Walter e Marchino, Fabio,
quella volta con l'ottoecinquanta che abbiamo avuto un incidente su una
strada sterrata, il campino, il vialino delle streghe, l'omino pazzo,
nascondino, Stefano, Federico, Albertone, Giancarlo e Giancarlo,
Rivazzurra, la mitica grande immensa Juve, il minibasket, l'Azione
Cattolica Ragazzi, Padre panchetti, Adele, tutte le volte che ho rubato
alla coop, i soldatini, le figurine, rischiatutto, quella volta che sono
tornato a casa alle otto e che fuori c'erano almeno venti o trenta
persone a cercarmi e io ero da Riccardo a giocare al gioco del
risparmio, la chitarra di plastica, Goldrake e Gundam, la
Ciclopasseggiata Empolese, tre volte in gita scolastica alle cinque
terre, Pasqua Maria, la lente a contatto, il cinema alla coop, le amiche
di Francesca delle quali ero sempre innamorato specialmente Marinella,
le amiche di Betty che non riuscivo proprio a sopportare, i miei amici,
quelli con cui stavo bene insieme e quelli che mi prendevano
puntualmente in giro, tutti i miei compagni di scuola, la maestra
Viviana Ricci, il professor Caponi e le sue avventure in giro per il
mondo, la professoressa Nunziati e l'ombelico di Gesù bambino, la
professoressa Giudizi e gli elastichini, il triangolo e la rotonda, le
ripetizioni di tedesco a Livorno e i treni per arrivarci, quella volta
che abbiamo vinto la finale di pallavolo, il caro povero Daniele,
Villeneuve, Platini e Boniek, tutte le ragazze a cui sono stato dietro,
tutte le ragazze che mi sono state dietro, tutti i concerti che ho
visto, quella volta che ho visto il viso di Gesù su di un muro e la
volta che lo ho letto nelle stelle, la curva imprendibile all'isola
d'Elba, il Cagiva e il Ciao, l'eschimo, il PX, le Bude, la Panda e la
127, Diddi e Gori pescioloni, il PG93, il Tenax, il grande, immenso,
unico, speciale, maledetto e amatissimo Angolo dal quale non potrò mai
portare via quel pezzetto di cuore che c'è murato dentro, madre e padre
delle mie più scellerate azioni, che alla fin fine sono state le più
belle proprio per quando, come e perché son state fatte, le birre, le
canne, le scorribande della giusta giovinezza e dopo la folle, illusa
felicità i fari nella nebbia, Silvia Volpi, Fabio Coli, Otello Lotti, la
seconda, urlata, rabbiosa coppa dei campioni vinta dalla Juve, Andrea
Taddei, Pasquale di Bologna, Luca Paoli e più importante di tutti la mia
seconda vita, l'indescrivibile, smisurato, cresciuto, coccolato,
colmato di tutto ciò che non avevo avuto, di tutti i trenini che avevo
desiderato, di tutti i lego che non avevo montato, di tutte le
meraviglie che avevo sognato, santo, dolce, bambino, insegnato, educato,
amato Mattia, che solo e unico è riuscito a traghettarmi indenne fino
alla mia sublime, pazzesca, armoniosa, gridata, serena, gioiosa, colma
di sì, pacifica, elettrizzante, unica vera vita: Patrizia!