Quando è successo la prima volta ho
avuto paura. La mia vita era già incasinata di suo senza alcun bisogno
di ulteriori e indesiderati interventi. Con i miei andava da schifo, mio
padre voleva soltanto che io studiassi quanto bastava per trovare un
lavoro decente e portare un po’ di soldi a casa. Mia madre invece,
voleva solo che studiassi quanto bastava a trovare un lavoro decoroso,
magari in un ufficio, dove avrei avuto la fortuna, a suo dire, di
conoscere qualche impiegato per bene con cui mi sarei potuta sposare e
fare un paio di figli, magari un maschio e una femmina, proprio come me e
mio fratello. Già mio fratello lui voleva solo che io mi trovassi un
lavoro con uno stipendio sufficiente a pagarmi un affitto. Così gli
avrei lasciato la mia camera e lui avrebbe finalmente, come mi ripeteva
ogni giorno, potuto abbandonare la sua, che in realtà era un piccolo
studio con una finestra vicina al soffitto, di quelle che si aprono solo
verso l’alto e da cui non puoi vedere nemmeno il traffico, figuriamoci
il cielo o un prato verde. Che lagna di fratello mieloso. Ma in fondo
era lui il più piccolo, per cui doveva pagare lo scotto dell’ultimo
arrivato. Se aspettava la mia camera doveva prepararsi padella e
deambulatore, perché nel suo studio ci sarebbe diventato vecchio.
Vivevo in un marasma di sensazioni e di emozioni che insieme alle
prime dolorose e devo dire schifose mestruazioni, erano entrate
prepotenti nella mia già miserrima esistenza. Fino all’ultimo avevo
sperato che non mi sarebbero mai venute. Quella che le aspettava in
realtà era mia madre, pronta a riempirmi la testa di consigli non attesi
e soprattutto prontissima a preoccuparsi per me, a proibirmi di uscire,
a dirmi di stare attenta a quello che facevo, ai guai in cui mi sarei
potuta cacciare e dulcis in fundum che i ragazzi volevano solo quello e
che mi sarei dovuta trovare un tipo per bene al momento giusto. Sì a
novant’anni. Di questo non doveva certo preoccuparsi, nessuno mi filava
manco per sbaglio e quello che i ragazzi avrebbero voluto fare con me, a
me faceva schifo solo a pensarlo. Più mi guardavo nello specchio e più
mi rendevo conto che se non mi fossi decisa a fare qualcosa, non potevo
impedire che da fuori si vedesse benissimo quello che ero dentro, una
fallita. Non avrei permesso a nessuno di entrarmi dentro e scoprirlo
finché non avessi trovato un rimedio. Chiaramente i miei erano
all’oscuro di tutto questo, sembrava che loro non vedessero niente e
niente mi chiedevano ed io non andavo certo a raccontargli i miei
malesseri e i miei dubbi, ne sarebbero rimasti sconvolti, mi avrebbero
preso per pazza e mi avrebbero fatto sentire più fallita che mai. Quei
due erano nati nella generazione sbagliata, avrebbero dovuto fare i
genitori di loro stessi, la loro mentalità era rimasta negli anni
settanta, un po’ di libertà fino ad un attimo prima che potesse
diventare piacevole.
Passavo le ore chiusa in camera con le finestre oscurate, la
musica a tutto volume creava una bolla impenetrabile intorno ai
pensieri, niente e nessuno poteva raggiungermi. Mi mettevo nuda davanti
allo specchio, un metro e sessantacinque per sessantacinque chili, mi
guardavo e sembravo stranamente normale. Sentivo però che non avrei
dovuto rimanere inerte, che da qualche parte qualcosa che non andava
c’era sicuramente. Tanto cercai che naturalmente, la magagna che
albergava in me si fece viva. Infine la risposta alle mie insistenti
domande arrivò come un lampo a squarciarmi la mente e a sconvolgere
tutto, più di quanto non lo fosse già stato. La trovai mentre, come dopo
ogni allenamento da tre anni a quella parte, rilassavo i miei muscoli
sotto l’acqua calda nelle docce della palestra, la mia seconda casa, con
le mie compagne intorno, come sorelle per me. Venne a sfidarmi proprio
nel luogo dove mi sentivo più sicura, aveva osato troppo e per questo
avrei dovuto sconfiggerla ad ogni costo. Finalmente avevo conosciuto la
mia nemica. Da quel momento l’avrei combattuta con tutte le mie forze e
con ogni mezzo a mia disposizione. Ma ancora non sapevo bene fino a dove
sarei potuta arrivare, fino a dove l’ambiguità della vita mi avrebbe
portato, fino a dove avrei spinto l’inutile braccio di ferro contro me
stessa.
Guardai la Benedetti con degli occhi che devono essere apparsi
strani perfino alla mia più cara amica Anna, che colta di sorpresa da
quel mio atteggiamento prese a passarmi più volte la mano davanti agli
occhi per verificare se vedevo o no, proprio come fanno i bambini
piccoli quando giocano a mosca cieca e chi è sotto tenta di sbirciare da
dietro la benda legata intorno alla testa. Ma ormai chi gioca più a
mosca cieca, non ci abbiamo giocato neppure noi. Ed io, come se
realmente fossi stata bendata, continuai a fissare imperterrita la mia
compagna, anche attraverso le dita di Anna. La guardavo mentre se ne
stava nuda e tranquilla sotto la doccia. Tanto la fissai che lei stessa
alla fine se ne accorse e deve avere pensato che ci doveva essere
qualcosa di troppo strano nel mio vacuo rimirarla, come se la guardassi
con occhi nuovi, come se qualcosa fosse cambiato o che magari fossi
diventata improvvisamente lesbica, finché ad un tratto cacciò un urlo
furibondo quando si rese conto che le mie pupille erano fisse,
incastrate, appiccicate, adesivate sul suo enorme sedere. Si voltò
schiacciandosi al muro, coprendosi le pudiche intimità con le mani, come
la peggiore delle attrici in un film di serie B degli anni ’70, con la
doccia che insisteva nella sua inesorabile tortura, coprendo di acqua il
suo corpo bianco, sulle possenti spalle, sulle braccia robuste, sulle
sue mani grandi, capaci di colpire così forte la palla, che più di una
volta le era capitato di prendere in faccia un avversaria e mandarla in
infermeria con il volto coperto di sangue rosso vivo colatole a fiotti
dal naso.
Col braccio sinistro si coprì vergognosa quelle due ciabatte
seminuove che si ritrovava al posto delle tette, la mano destra invece
era delicatamente posata sulla sua dolce “petunia”, così la chiamava
lei, o meglio così affermava che la chiamasse il Corsini, quello della V
A, che ogni tanto le infilava una mano dentro ai jeans per contare i
petali della sua petunia, m’ama, non m’ama, m’ama, non m’ama, oh! Lui
invece pensava me la dà, non me la dà, me la dà, non me la dà, oh! E
alla fine lei gliel’aveva data davvero. In quel momento invece a me
sembrava più un sorcio nero con i capelli rasta che un fiore delicato.
Poi fuggì, sotto lo sguardo sbigottito delle altre che non si erano
accorte di nulla, tranne naturalmente Anna. A lei non sfuggiva mai
niente di quello che succedeva intorno a me. D’altronde era così per
entrambe, anch’io sapevo e vedevo tutto ciò che riguardava lei, fin nei
minimi particolari. Normale fra due amiche, che dico di più, due sorelle
come noi. Proprio come ci sentivamo, così come ci piaceva presentarci
ai pivelli che ci sbavavano dietro e ci abbordavano al pub o in disco.
Io rimasi lì, più sconvolta e sbalordita di tutte le altre,
isolata nella bolla d’acqua che sgorgava lenta dalla doccia sopra la mia
testa, formando intorno a me un guscio che in quel momento non riuscivo
a rompere e che da allora mi è rimasto ancora addosso, un pellicola
protettiva contro gli sguardi frastornati e increduli delle mie compagne
di squadra. Anna continuava a passare la mano su e giù davanti ai miei
occhi e mi chiamava insistentemente, cercando di risvegliarmi dal
torpore catatonico in cui ero improvvisamente precipitata. Poi si mise
davanti a me, si appoggiò alle mie spalle, strinse forte con quelle due
pinze che si ritrovava al posto delle mani e prese a scuotere il mio
corpo inerte chiedendomi di svegliarmi. Per favore, ti prego, aiutami,
queste le parole che uscirono dalla sua bocca prima che divenissero
incomprensibili, storpiate dal suo pianto disperato. Dopo quella
domenica non ho più visto la Benedetti anche se ho saputo che è venuta a
trovarmi insieme al suo ragazzo. Forse lo ha fatto per chiedermi scusa,
forse per perdonarmi, forse è venuta solo perché il Corsini ha giocato a
m’ama non m’ama con la sua petunia. In fondo non me ne frega niente,
non adesso. Dopo forse, dopo, se ci sarà dopo, se ci sarò ancora.
Era l’ultima domenica di campionato per la squadra di pallavolo di
cui facevo parte da tre anni, la “Juniores Female”, che nome però!
Quando vincevamo ci mettevamo a urlare tutte nude sotto la doccia:
Juniores Fa male, Juniores Fa male… e schizzavamo dappertutto.
Gridavamo, schizzavamo e correvamo per tutti gli spogliatoi e più di una
volta siamo riuscite a far arrivare l’acqua nei corridoi e perfino
negli spogliatoi delle nostre abbacchiate e deluse avversarie. Con un
fantasmagorico girone pieno di vittorie eravamo riuscite a conquistare i
Play Off anche se poi ci eravamo mediocremente lasciate sfuggire la
finale perdendo contro quelle finte donne della Libertas, ma non
rinunciando alla migliore soddisfazione, battere le stronze della
Virtus. Quelle la virtù non sanno neppure dove sta di casa. Sono solo
delle troiette che la danno a tutti e vengono in campo perfino truccate.
A quel punto del campionato per noi non c’era più niente da fare,
avevamo perso una partita di troppo, proprio quando io ero a letto con
la febbre, loro invece si giocavano la finale. Se la Libertas avesse
vinto con il Palladio, la squadra della scuola, un branco di imbranate e
la Virtus ci avesse sconfitto se la sarebbero guadagnate loro la
partita dell’anno. Noi invece ce l’abbiamo messa tutta per negare loro
questa soddisfazione, anche se non per merito mio. Sono scese in campo
nella loro tenuta migliore, quella delle grandi occasioni, tuta rosa di
acetato con finiture e bande laterali in blu. Che shock! Noi invece al
solito, tuta celeste scolastica e sotto la divisa classica, maglia blu,
pantaloncini rossi a bande bianche. Soliti riti, abbracci scongiuri
grida Juniores Fa male e poi tutte in posizione. È lì che sono crollata.
Improvvisamente davanti a me sono riuscita a vedere solo degli enormi
sederi e non sono stata capace di pensare ad altro per tutto il tempo.
La Virtus ha battuto, io non mi sono mossa e hanno fatto il primo punto.
Al terzo errore l’allenatore mi ha tolto e non sono più rientrata.
Abbiamo vinto, anzi meglio dire hanno vinto, tre set a zero e poi tutte a
festeggiare, ma io non avevo più niente per cui far bisboccia. Me ne
sono stata tutto il tempo seduta su quella panchina dura a guardarle
giocare, ma non ho visto niente altro che degli enormi sederi. Eravamo
tutte delle gran culone!
Quando sono entrata negli spogliatoi ho inconsciamente compiuto il
gesto che mi ha cambiato la vita e mi ha portato su questo letto di
ospedale in tre mesi. Ancora una volta mi sono guardata allo specchio e
mi sono vista come avevo visto tutte le altre. Una ragazza appoggiata su
un sedere enorme. Ero disgustosa e di lì ad una settimana sarei dovuta
andare al mare. Con quale coraggio mi sarei mai potuta mettere un
costume, un bikini poi sarebbe stato assolutamente impensabile. Ovunque e
dovunque avrei fatto vedere di me soltanto la mia ciccia,
sessantacinque chili per un metro e sessantacinque di altezza,
un’obbrobriosa palla di grasso.
Uscii in silenzio dal palazzetto, Anna accanto a me continuava a
farmi mille domande. Anna che sapeva che non avrebbe avuto risposte, che
avrebbe continuato a starmi vicino, a cercare di farmi capire, a dirmi
il milione di cose che avremmo ancora fatto insieme. Anna che piangeva a
vedermi perdere ventotto chili in tre mesi e che comunque era l’unica
che in ospedale si presentava senza qualcosa da mangiare, l’unica che
aveva capito che non avevo bisogno che mi si dicesse apertamente e
sguaiatamente che sarebbe stato meglio se avessi mangiato qualcosa. Come
faceva mio padre, scaraventando per la stanza i vestiti più grandi di
me che lui aveva pagato con i suoi sudati guadagni da umile e onesto
operaio. E neppure velatamente, come mia madre che continuando a far
finta di niente si presentava ogni giorno con una leccornia da
sottoporre all’approvazione delle mie mascelle ma che puntualmente
irrancidiva nell’ultimo ripiano del frigorifero. Anna che mi tiene la
mano per ore e piange vedendo come sono ridotta. Ma almeno adesso non
sono più una grassona. Avrei voluto perdere almeno altri due chili, ma
mi hanno portato di forza in ospedale e io non ho potuto oppormi. Mi
mancano le forze e non riesco a capire perché, ogni giorno mi fanno
salire su quella maledetta bilancia che continua nuovamente a salire e
adesso sono già tornata alla bellezza di quaranta chili. Stanno
rovinando tutto, tutto ciò che ero riuscita a costruire, con forza e
determinazione, con tattica e decisione ma forse soprattutto con tanta,
tanta disperazione.
Anna piange accanto a me, non mi dice che sono più bella, non mi
dice che ero più bella prima, ma nei suoi occhi leggo la paura, la paura
che dovrei avere io, la paura che improvvisamente possa accadermi
qualcosa di male. Ogni giorno ho guardato dentro quegli occhi e piano
piano mi sono accorta del significato del suo sguardo, di quel suo modo
melanconico di guardarmi, come se fosse l’ultima volta, come se quella
stessa sera dovessi morire. Poi è bastato un attimo. Ho rivissuto
quest’ultimo anno e negli occhi di Anna ho rivisto la mia vita, ho
ripensato ai ragazzi che ci provavano quando fino a tre mesi prima ero
convinta che nessuno si fosse mai accorto di me, ho rivisto gli occhi
azzurri di quello sconosciuto che mi guardavano in discoteca, l’ho visto
avvicinarsi e fuggire quando mi sono voltata con la mia smorfia da
donna superiore e ho dato le spalle a lui e alle sue speranze ma in
fondo anche alle mie. Avevo rifiutato quello che ero perché ancora una
volta avevo avuto paura di sbagliare, mi ero creata un alibi
convincendomi che quello che stavo facendo era per migliorarmi mentre in
realtà stavo soltanto costruendo il muro che mi avrebbe isolato da
tutto, impedendomi così di dover affrontare la vita, di dover affrontare
loro che innocentemente e inconsciamente mi avevano portato a credere
in tutto questo. Mia madre che voleva vestirmi come una donna, o meglio
come lei credeva che vestissero ancora le donne, gonna al ginocchio e
scarpe basse, mai i jeans, erano roba da ragazzi. Mio padre che
continuava a sbattermi in faccia i suoi soldi e il fatto che se volevo
spenderli non avrei potuto farlo in trucchi, vestiti e tutte quelle
stronzate che gli portavo in casa. Non ero mai riuscita a farli
contenti, tutto quello che a me sembrava oro, loro la trasformavano in
merda. Ogni volta che ero felice sapevano farmi tenere i piedi per
terra, anche se io avevo voglia di volare. Vedrai, mi dicevano, la vita è
una cosa seria, devi toglierti dalla testa tutti i tuoi sogni, studia
sodo e trovati un lavoro fisso, quando avrai figli capirai. Forse e per
questo che le mie prime mestruazioni sono state la mia grande sconfitta,
le loro profezie si stavano avverando, ma io non volevo un figlio, non
volevo capire, non volevo crescere, volevo solo piacere come mai avevo
sentito di piacere, non volevo diventare ottanta chili come mia madre o
come mia cugina. Una santa, tutta casa, lavoro, figli e marito. Sì ma il
marito la sera se ne va a casa di un’altra perchè a mia cugina non ci
si può più avvicinare tanto è grassa. Io sarei stata magra, magra come
nessun’altra e nessuno avrebbe potuto fare a meno di me. Non potevo più
guardare la mia immagine riflessa nello specchio perché quello che ci
vedevo era la realizzazione dei sogni dei miei genitori, una ragazza
normale che avrebbe sposato un ragazzo mediocre, avrebbe fatto tre figli
e sarebbe diventata un baule mentre il marito si faceva un’altra. Non
avrebbero mai vinto, li avrei sconfitti e anche delusi e questo mi
faceva male ma il piacere stava proprio lì. Insistevano così tanto a
dirmi che li deludevo che altro non potevo fare in realtà che
accondiscendere al loro peggior desiderio. Tradire le loro aspettative
per potermi sentir dire: te l’avevo detto e crogiolarmi nell’incapacità
di potergli a mia volta dire: scusate, perdonatemi, aiutatemi. Così
avrei potuto deludere pure me stessa completando a meraviglia il cerchio
perfetto dell’incomprensione. Ma in questa guerra a senso unico l’unica
sconfitta alla fine ero solo io. In questo modo avevo perso la
pallavolo, l’unico antro magico in cui ero davvero super, l’orgoglio
della squadra, forse un passaggio di categoria, in due anni la serie A.
Questo mi aveva promesso, meleggiandomi, il mio allenatore ma i miei non
me lo avrebbero mai permesso. Allora meglio perdere tutto per colpa mia
piuttosto che farmelo vietare ancora una volta da loro.
Sono confusa. Anna è qui accanto a me è uno straccio mi sa che qualche chilo l’ha perso anche lei.
Adesso provo a parlarle, devo dirle una cosa importante, non
vorrei spaventarla, sono due settimane che non apro bocca, spero che non
si metta a fare i salti di gioia, che mi creda e che non svenga. Se ce
la faccio a far uscire almeno un flebile rantolino, credo di avere le
uniche parole che in questo momento la potrebbero far star meglio per
me. Adesso mi volto verso di lei e glielo dico, perchè non ce la faccio
davvero più, spero che sia l’inizio della fine, sarà contenta anche la
psicologa e forse saranno contenti anche i miei genitori, almeno
stavolta. Adesso voglio solo ritornare ad alzarmi, a camminare e a
giocare, anche senza la serie A. Ricominciare a guardare i ragazzi e
farmi guardare da loro e chi se ne frega di quello che pensano, voglio
solo ritornare a vivere, a ridere, a scherzare con Anna e a mangiare,
perché mi è venuta davvero fame!
6
Consumato Latin Lover
Oggi sono triste. Molto triste. Veronica mi ha chiamato al
cellulare, maledetto aggeggio infernale e ha detto chiaro e tondo che
non vuole vedermi più. E che è inutile mandarle un altro mazzo di rose
con le scuse e quattro paroline copiate chissà dove, perché l’ultimo è
finito dritto nel cestino dei rifiuti e il biglietto ha fatto il giro di
tutti i negozi. E quegli stronzi non vedono l’ora che faccia la mia
solita capatina settimanale per potermi prendere tutti quanti per il
culo. La settimana passata mi ha visto che facevo lo scemo con Marina,
anzi il polipo come dice lei, anzi il polipo e la cozza ha voluto
sottolineare. Il problema però non sarebbe stato quello, d'altronde
Marina fa la scema con tutti, il fatto è che è capitata lì, proprio in
quello stramaledettissimo momento anche Alessia. Alessia è una perbene,
di lei ci si può fidare, così dice Veronica. Insomma Alessia ha visto me
e Marina e c’è rimasta di merda, così ha attaccato bottone con
Veronica, per l’appunto, le due stronze! Inizia a parlare e gli sciorina
lì un telenovela, dove chiaramente il personaggio principale è il
sottoscritto e gli spiattella tutta la storia. Sono mesi che le faccio
il filo, gli mando un mazzo di fiori ogni martedì, certo il lunedì sono
chiusi, che gliela meno sul fatto che la differenza di età non conta,
Alessia ha ventidue anni, e via avanti con tutte le sdolcinate puntate
che ero stato capace di metter su per riuscire a strapparle
un’appuntamento. E con le unghie e con i denti ce l’avevo fatta, la data
per il mitico incontro sarebbe stata per il prossimo lunedì. A Veronica
avevo fatto credere che lunedì c’era la presentazione della nuova
collezione in azienda e che non sarei sicuramente riuscito a tornare in
tempo nemmeno per una cenetta, l’avrei raggiunta nel suo appartamentino
direttamente per il dopo cena. Veronica aveva storto il naso ma alla
fine aveva accettato, sarebbe stato un gran bel lunedì. Sarebbe, ma non
poi non lo è stato! Alessia va avanti per dieci quindici minuti inveendo
contro di me mentre insieme continuano a spiare il primo incontro, un
caffè seduti al bar, che dopo la bellezza di otto mesi ero riuscito a
combinare con quella strafica di Marina, che sì fa la scema con tutti ma
non la da a nessuno me compreso, adesso poi. A quel punto Veronica ha
cacciato un urlo, ha messo una mano sulla bocca di Alessia e ha
cominciato a vuotare il suo di sacchi spifferandole ogni cosa, ogni cosa
di noi due.
Veronica è un anno che sta con me, ci vediamo ogni lunedì, quasi
aggiungerei io, abbiamo anche trascorso insieme lo scorso Natale e una
meravigliosa settimana a Sahrm, chissà se le ha detto che ho pagato
tutto io. Insomma un altro quarto d’ora di storie e poi tutte e due si
sono avvicinate al nostro tavolo. È il radar, il radar che non funziona
più come una volta, non mi sarebbe mai successo prima. Avrei annusato il
pericolo in tempo e sicuramente avrei trovato un modo gentile e di
effetto per allontanarmi velocemente dal bar, magari con la scusa di una
telefonata in arrivo e un oh cavolo qui non c’è campo, mi faccio vivo
io adesso devo andare, e via lontano dai guai! Mi sarei allontanato in
tempo e tutto sarebbe scivolato via liscio come sempre. Ma la minigonna
di Marina era troppo corta e il radar è andato in tilt. Quando con la
coda dell’occhio ho visto Alessia ero ancora abbastanza lucido e la mia
mente da calcolatore ha immediatamente rifiutato ciò che vedeva, del
resto non poteva essere lei non avrebbe avuto la pausa prima di venti
minuti. Quando però ho riconosciuto Veronica i conti non tornavano più,
lei l’aveva già fatta la pausa, non facevano in tempo ad aprire che già
erano tutte di nuovo a prendere un caffè, non poteva essere lì. Era
tutto calcolato, Veronica pausa alle nove e trenta e poi a diritto fino
all’una, spuntino veloce e via fino a fine turno. Alessia non faceva
pausa fino all’una e un quarto, piccolo pranzo e avanti fino alle
quattro del pomeriggio. Marina faceva un lungo break a mezzogiorno e
adesso ci stavamo gustando un bel caffè e, prima che Veronica potesse
spuntare da qualche parte, nel giro di due minuti mi sarei magicamente
volatilizzato facendo credere a Marina che ero io quello da rincorrere.
No, non potevano essere loro, decisamente, non in quel momento non… a
meno che… come fuoriuscito da un improvviso risveglio mi chiesi che ore
fossero e finalmente detti un’occhiata ai numeroni dell’orologio
regalatomi da Veronica, appunto, che inesorabili si sostituivano l’uno
all’altro senza darmi tregua. Quei traditori maligni e beffardi urlavano
un grido che sentivo solo io. Sono le una e ventisette, sono le una e
ventisette, sono le una e ventisette! Coglione! Non erano una visione,
ero stato io a lasciar scivolare inesorabilmente il tempo lunghi i
fianchi di Marina o mentre mi perdevo, affondando gli occhi in quella
voragine rosea e soda fra i suoi enormi seni.
Non ricordo più quante me ne hanno dette tutte e tre, ho
assolutamente cancellato i miei balbettii e le mie scuse abbozzate, non
ero per niente preparato ad affrontare quell’impari incontro che mi
vedeva battuto già al primo gong! Alle due ero riuscito ad andarmene dal
centro commerciale quasi in catalessi, come in stato di ebbrezza
avanzata, ubriaco di tutte le parole che mi erano state rivolte da tre
donne che inveivano contro di me contemporaneamente, trentatre minuti di
bombardamento serrato. Alessia ha pure alzato le mani, anche se non è
riuscita a colpirmi. Ci mancava solo una sberla, sarebbe stata la
ciliegina sulla torta della mia peggior umiliazione. Un tempo sarei
riuscito a calmarle tutte e tre, mi era già capitato qualcosa di simile
anche se non in flagranza di reato. Sarei riuscito a districarmi nella
selva oscura delle accuse e me ne sarei andato via con calma ed eleganza
e con tre nuovi appuntamenti. Ma in quel momento non riuscivo a pensare
che a Veronica, al nostro bellissimo Natale, alle meravigliose vacanze a
Sharm e a tutto ciò che improvvisamente vedevo sfuggirmi tra le dita
come la sabbia fine del deserto. A tutto ciò che avevo continuato
stupidamente a portare avanti solo perché era l’unica cosa che ero
veramente capace di fare, vendere. I vestiti o me non faceva nessuna
differenza.
Un tempo era diverso c’erano negozi ovunque, nei centri delle
città, nelle piazze affollate di turisti, lungo i viali dei piccoli
paesi di provincia, ovunque e soprattutto distanti l’uno dall’altro. In
quei negozi, negozi veri, ci potevi trovare delle Signore padrone con la
esse maiuscola, vere donne, magari un po’ in là con gli anni ma sempre
ben tenute, appariscenti e maliziose con qualche ruga in più forse ma
con stile, eleganza e con tutta la merce in mostra. E che gran merce,
anche senza l’aiuto del bisturi. Adesso solo centri commerciali, negozi
uno uguale all’altro, uno di seguito all’altro, una inaugurato dopo un
altro che ha chiuso. Dentro ci trovi decine e decine di giovani
commesse, tutte belline, tutte carine, tutte con la pancia di fuori e
l’orecchino all’ombellico ma quasi sempre senza un argomento in comune
con cui attaccare. A prima vista un gran bell’allevamento da cui
piluccare avidamente, in realtà un enorme pagliaio da setacciare
disperatamente alla ricerca di quell’unico preziosissimo ago. E dire che
io quell’ago l’avevo veramente trovato, mi aveva punto con la sua
esuberanza ma era affondato in me con la sua dolcezza e la sincerità che
facevano di Veronica una donna, una donna unica. Invece ho voluto
continuare a rovistare in quel guazzabuglio di ombelichi e mi sono perso
nel frastuono incessante delle infinite storie fantastiche che credevo
di raccontare a loro ma che in fondo erano rivolte solo a me stesso. Non
ero più capace di smettere, anche se dopo che ho incontrato Veronica
non ho mai compicciato niente di serio con nessun’altra. Ma non riuscivo
a fermarmi e mi rituffavo senza sapere il perché, in quel mondo che mi
assomigliava sempre di meno e che forse anche per questo tentavo
vanamente di far mio. Cellulari che squillano, sms uno via l’altro,
risatine. Ci provi e queste non capiscono o fanno finta di non capire.
Oppure capiscono ma non riescono a credere che tu ci stia provando in
quel modo, con quell’atteggiamento un po’ rispettoso un po’ paraculo,
così antico, antiquato, arcaico, un dinosauro dell’approccio. Sono
venticinque anni che mi appresto al primo contatto sempre allo stesso
modo, pacato, gentile e raffinato ed ho sempre ottenuto il risultato che
mi aspettavo. Ma adesso non funziona più ed ogni sconfitta non ha fatto
altro che rafforzare la mia testarda voglia di insistere. Nonostante
tutto, nonostante Veronica. Avevo il mio metodo, era sempre stato così
semplice, non poteva improvvisamente smettere di funzionare, non potevo e
non volevo e crederci.
Mi aveva insegnato il povero Alfredo, pace all’anima sua. Grande
venditore e grande scopatore, aveva la mia età quando è morto, un brutto
incidente in mezzo alla nebbia, una corsa da un letto all’altro
accelerando troppo. Io avevo quasi vent’anni e lui mi portava con se
ogni giorno, a imparare il lavoro e a rimorchiare per i paesi della
piana del Po. Un po’ di Emilia un po’ di Veneto, una donna in ogni
porto, un mazzo di fiori per ognuna, una poesiola, una galanteria e il
gioco era fatto. Adesso è cambiato tutto, le donne non hanno più bisogno
di romanticherie, vogliono la loro libertà, che le porti in palestra e
le vada a riprendere, ma vogliono sudare da sole. Le Signore sono
scomparse sostituite da manichini in silicone con le tette tre misure
sopra la media e le labbra capaci di contenere quaranta albanesi in
fuga. Intorno una masnada di bambinette apprendiste che mentre ti
avvicini hanno già fatto il resoconto delle firme che ti porti addosso:
scarpe, cintura, orologio, bracciale e adesso devi far vedere pure
l’etichetta delle mutande. E io appeso alla mia ciambella ero riuscito a
sopravvive in questo oceano inospitale, consolandomi con il ricordo dei
miei vecchi successi, facendo la conta di quante ce n’erano state e
illudendomi che ce ne sarebbero state altrettante, anche se gli ultimi
due anni erano stati davvero di magra. Alla fine ne avevo trovata una, o
forse era lei che aveva trovato me. Questo tanto desiderato incontro mi
aveva dato nuova carica ma invece che lasciarmi avvolgere dalle strane
sensazioni che intorpidivano e beavano il mio corpo e la mia mente, ho
utilizzato quella carica nel solo modo che mi si confaceva, riprendendo
la caccia con rinnovato vigore. Non ho combinato un bel niente ma ogni
giorno sprecavo inutili ore attaccato a labbra, a seni, a gambe che non
avrei mai toccato ma che sentivo di non poter smettere di inseguire. E
dopo tutto questo mi sono ritrovato nel più banale dei finali,
accorgersi di quanto valeva davvero per te quello che hai appena
perduto.
Ma oggi sono triste. Molto triste. Veronica mi ha chiamato e ha
detto chiaro e tondo che non vuole vedermi più. Un tempo sarebbe stata
una liberazione, in fondo un rapporto troppo lungo impediva di poterti
dedicare con le dovute attenzioni alle relazioni che stavi coltivando.
Uh, quante mi hanno lasciato e quanti sospiri di sollievo ho tirato
subito dopo aver finto un disperato tentativo di riavvicinamento. Quelle
che ti lasciavano erano le migliori, erano quelle che se ti
ripresentavi dopo sei mesi, andavi a colpo sicuro e poi… addio! Metodo
Alfredo, metodo sicuro. Mi ricordo ancora la scenata di Denise, ferma e
impettita sulla soglia del suo negozio a urlare e gesticolare come le
riusciva tanto bene, con tutta la piazza a guardare prima lei e poi me,
sorridendo soddisfatta di quel nuovo pettegolezzo da far circolare. Con
Denise ho trascorso altre tre magnifiche serate sfrenate con precisa
cadenza semestrale, metodo Alfredo, metodo sicuro. Poi sono io che sono
diventato sempre più insicuro, fino a Veronica fino a credere che tutto
fosse come prima, fino a non capire che ero io il primo a non volere che
tutto fosse ancora come prima. Mi è mancato quell’attimo, quello in cui
concepisci e capisci, senza rinnegare il passato, che giusto o
sbagliato, è e rimarrà meravigliosamente passato, senza alcun obbligo di
continuare a viverlo. Abbandonarlo con un saluto e senza rammarico,
gettarsi attraverso il presente in quello che il futuro ti vorrà
regalare. Ma io ho voluto continuare a vivere la vita di Alfredo,
proseguire da dove lui era stato costretto ad interrompere, per vivere
quella parte di vita che gli era stato impedito di continuare, per
dimostrare che ero grande quanto lui, che valevo quanto avrei voluto
dimostrargli di valere quando era ancora in vita. Per quello che mi
aveva insegnato, per ciò che avevo imparato. Ma poi realmente cos’era
tutto ciò che avevo vissuto? A quale lezione avevo assistito? Quali
regole e soprattutto per quale fine se adesso, un passo dopo la parola
fine, mi ritrovo da solo. Solo, dopo aver vissuto ogni momento in
funzione del passato, non guardando mai avanti. Mentre invece, se
soltanto avessi alzato lo sguardo, avrei potuto scorgere un attimo della
mia vita e forse, con la sua mano nella mia, avrei potuto vedere
accanto a me Veronica.
5
La Vigna
Ancora non riesco a credere che sia successo veramente, ormai
anche i brutti sogni si sono fatti così rari da farmi dimenticare quel
giorno tremendo, ma i primi tempi… oddio i primi tempi è stato tutto
veramente un incubo. Come quelli che tre o quattro volte per notte mi
facevano svegliare di soprassalto, urlando dalla paura e talmente sudato
da avere l’impressione di essere ancora là, dieci metri sotto il
livello del mare intrappolato nella fusoliera squarciata di quel
maledetto aereo. Per fortuna ci portarono in salvo talmente lontano da
casa da costringerci a prendere nuovamente un aereo per tornare in
Italia, altrimenti, ancora a distanza di un anno, non so se avrei il
coraggio di rimettere piede dentro a quel tubo di acciaio così imponente
ma allo stesso tempo così delicato. Abbiamo fatto di tutto per
dimenticare, sia io che Giulia mia moglie e dopo tutto questo tempo e un
po’ di aiuto medico, finalmente invece possiamo ricordarlo. Almeno noi
possiamo ricordare e parlarne, gli altri no, gli altri sono quasi tutti
morti. Ci siamo salvati solo in diciotto e ancora non riesco a capire
come e perché.
Scrivo adesso perchè solo ieri ci siamo rivisti tutti insieme, ad
un anno esatto dalla tragedia. Abbiamo parlato un po’ anche delle beghe
penali e civili, di tribunali e avvocati, ma in fondo non era questo
quello che interessava a tutti noi, tanto fra un paio di mesi comincerà
il processo vero e proprio e in quell’occasione avremo modo di
incontrarci ancora ma ci saranno altre cose di cui parlare, altre da
dire ed ascoltare, diversa sarà l’emozione per i motivi più terreni che
ci porteranno là insieme a i parenti di quelli che non ce l’hanno fatta.
E allora sarà ancora più dura, vedere quei volti disperati di madri,
figli, fratelli e sorelle che ci guarderanno con odio e rammarico, a
loro modo invidiosi del fatto che noi siamo sopravvissuti e i loro cari
no. Saranno lì a sperare di vivere un brutto sogno da cui risvegliarsi
accanto alle persone che amano e compiangere indifferenti la nostra
stupida, inutile morte. Sarà uno straziante e drammatico modo di
ritrovarsi, ieri invece è stata una celebrazione, quella della nostra
rinascita.
Abbiamo pregato, per noi, ringraziando del grande dono di questa
seconda vita e per i centocinquantadue che non ce l’anno fatta, per i
quali speriamo ce ne possa essere un’altra ovunque sia, luminosa ed
eterna. Abbiamo riso qualche volta, anche se all’inizio la tensione
rendeva l’aria quasi solida, impenetrabile a qualsiasi emozione, poi
sono stati come sempre i bambini, Filippo ed Elena, a rompere il
ghiaccio, felicissimi di essersi ritrovati, di poter giocare a
rincorrersi intorno al tavolo al quale i grandi, come sempre, parlavano
di cose troppo serie e barbose per loro. Abbiamo pianto molto ma non è
stata una cena di disperati era una riunione di fortunati, di scampati,
di persone che da allora hanno dato alla vita un valore completamente
nuovo e diverso da quello di un tempo. Tutti tranne i piccoletti, forse
loro hanno davvero dimenticato, non solo accantonato quel tremendo
giorno di agosto. Hanno giocato tutta la sera insieme divertendosi con
niente altro che loro stessi e un paio di sedie e a un certo punto ho
avuto un brivido di terrore che mi ha catapultato nel passato, per un
attimo mi è parso che avessero avvicinato le sedie l’una all’altra e
fingessero di essere i piloti di un areoplano. Fra tutte sono proprio le
loro facce che non potrò mai dimenticare, incastonate dentro ai
giubbini di salvataggio, occhi sgranati, bocche spalancate e urlanti,
illuminate dalla luce della vita, il sole della rinascita che stavamo
per intraprendere, il faro abbagliante e caldo dell’elicottero che ci
stava venendo a salvare.
Era un volo charter, come ce ne sono migliaia ogni giorno in ogni
momento, il numero non mi è mai voluto entrare in mente, nonostante
l’abbia letto e riletto un milione di volte. Sui giornali, sulle carte
processuali, sui referti della polizia marocchina e di quella spagnola.
Era il volo non mi ricordo, un charter come tanti altri e come alcuni
altri a un certo punto è venuto giù, le sue grandi ali argentate hanno
smesso di sbattere, come quelle di un airone colpito a morte da un
inconsapevole cacciatore. Cedimento strutturale del meccanismo di
iniezione. Questo è stato il verdetto degli esperti e se il tribunale lo
confermerà o no sarà il punto di partenza di tutte le cause civili
possibili ed ipotizzabili che ne deriveranno, trascinando all’infinito
il tormento dei parenti, nel ricordo di quei momenti inutili e delle
immagini strazianti che li accompagneranno per sempre nelle loro menti
al posto dei sorrisi degli abbracci e degli attimi vissuti assieme.
Tutte quelle briciole di vita che per ognuno di loro avevano un
significato, cancellate da un tuffo nel mare profondo.
In parole povere l’aereo era talmente usurato e malandato che non
ce l’ha fatta più, i motori si sono spenti e tanti saluti a tutti. Noi
oltre a tutta la fortuna del mondo ed alla grazia infinita di Dio,
dobbiamo la nostra vita al buon caro Ahmed, che ha avuto la forza e la
freddezza di riuscire a far planare quel bestione fino ad un pelo dal
mare. A dire la verità il nome sarebbe molto più complesso ma come tutti
i nomi musulmani tiene celato in mezzo a se qualcosa che fa riferimento
a Dio, Halla, che alla fine dopo mille distorsioni e variazioni si
risolve in un semplice Ahmed, che guidi una carovana nel deserto o un
bestione di acciaio tra le dune dei cieli. Questo suo dono divino gli ha
dato il sangue freddo di ragionare anziché disperarsi, io avrei
indossato il paracadute in fretta e furia per gettarmi dal finestrino
all’insaputa di tutti e chi s’è visto s’è visto. Per fortuna io lavoro
da uno spedizioniere, non potete nemmeno immaginare quanta merce faccio
volare ogni giorno, ma non guido io, ci sono migliaia di Ahmed che sanno
quello che stanno facendo e il nostro lo sapeva, decisamente sì. Aveva
cominciato la manovra mezz’ora prima che il peggio accadesse ed ha fatto
quello che gli è stato possibile per cercare di salvarci tutti, lui
compreso e c’era quasi riuscito. Se avesse guidato un aereo un po’
meglio tenuto sarebbe andata diversamente ma quel catorcio nonostante il
pilota abbia effettuato un perfetto atterraggio scivolando sull’acqua,
come tutti abbiamo avuto la sensazione, tanto che qualcuno ha pure
abbozzato un applauso un minuto prima di venire inghiottito dal mare, si
è spezzato in tre ed è finito il putiferio. Un attimo di silenzio, dopo
i minuti interminabili e colmi di grida di aiuto, di urla strazianti di
facce impaurite che hanno accompagnato quella lunghissima discesa da
aliante e poi è accaduto ciò che di più spaventoso può turbare gli
incubi insicuri di una notte agitata. Chi non ha mai sognato di cadere?
Ma la fantasia ha il buon gusto di fermarsi un istante prima
dell’inevitabile facendoci svegliare sudati e ansanti nel buio
confortevole di una camera. Noi abbiamo vissuto tutto quello che nei
sogni turbati dal polpettone, dai rimproveri del capo, dalle ansie
d’amore viene evitato, abbiamo concretizzato l’incredibile completando i
sogni interrotti di tutti, un attimo di silenzio e poi è cominciato il
finimondo.
Eravamo partiti da Marrakech alle 17.35 stanchi e accaldati, dopo
una settimana di tour nel meraviglioso entroterra marocchino, con i suoi
colori ed i suoi profumi inconfondibili, una breve visita alla ultime
propaggini sabbiose di Sahara e per finire il meritato riposo, una
settimana di mare ad Agadir in un villaggio piccolo ma piacevolissimo
dove ci eravamo divertiti un mondo creando una compagnia spassosa, come
riesce sempre facile in occasioni come queste. Una valida alternativa
alle pesanti nebbie mattutine che impedivano di abbronzare e ci
costringevano a passare ore e ore infagottati fra parei e asciugamani
imbronciati e infreddoliti sulle nostre sdraio ma imperterriti ogni
mattina e alle fredde, no meglio dire gelate acque dell’atlantico dove
solo alcuni bambini e pochi intrepidi bagnanti si inoltravano per una
nuotata, solo moto d’acqua e surf per i turisti stranieri. Il mare però
non rimaneva solitario e malinconico, era pieno di famiglie di
marocchini in vacanza, torme di bambini schiamazzanti e gruppi di
ragazzi e ragazze come su ogni spiaggia del mondo.
Sull’aereo c’era tutto il gruppo, i più pazzi erano sicuramente
Sandra e Carlo, due tipi incredibili di Urbino, sempre a fumare, dalle
sigarette ai sigari fino ai rarissimi narghilè con quanto era possibile e
legale metterci dentro, la piccola Elena la loro figlia, costretta a
fare da padre e madre ai due sgangherati genitori che si ritrovava, in
fondo però una famiglia felice. Si volevano molto bene e si vedeva e se
ne vogliono ancor di più ora dopo essere risorti tutti assieme dalle
acque. Sull’aereo occupavano la penultima fila di sinistra. Poi c’erano
Mirko e Paola di Milano, bancari e con un po’ di puzza sotto il naso ma
simpatici. Con loro viaggiava Filippo, il figlio, un signorino di nove
anni, uno più di Elena, pirla era la parola che più di ogni altra usciva
da quella sua boccaccia ma ogni volta che la apriva erano risate
assicurate. Ogni mattino si presentava in spiaggia con una tenuta
diversa, sempre tutto in tinta, dalle ciabattine al cappellino, per non
parlare poi degli occhiali da sole, credo di avergliene visti almeno tre
paia diverse al giorno, forse aveva una valigia solo per quelli, ogni
volta che rientrava in camera se ne usciva con un paio nuovi,
naturalmente sempre in tono con la mise del giorno.
Come ti cambia la vita e quello che ti fa passare, si sono
licenziati entrambi, hanno venduto tutto ed hanno aperto un agriturismo
vicino a Bolgheri, l’anno prossimo trapianteranno dei filari di vite.
Quel giorno saremo sicuramente tutti là a fare i provetti contadini,
chissà quante ne combineremo e chissà Filippo ed Elena cosa si
inventeranno tra polli, galline e maiali. Comunque faremo del nostro
meglio, soprattutto quando sarà ora di pranzo, ci delizieremo con
qualche leccornia arrostita sull’aia e un buon bicchiere o forse due di
Sassicaia dalla vigna del vicino, un assaggio di quello che le nostre
mani vorrebbero poter ottenere con quella di Mirko e Paola.
Loro occupavano la penultima fila di destra, Filippo aveva il
posto vicino al corridoio dall’altra parte a far casino con lui, come
sempre, una spumeggiante Elena. Dietro c’erano Antonio e Lisa, i
fidanzatini, i più giovani del gruppo, allegri e spassosi in ogni
situazione. Erano stati un po’ l’anima della vacanza, Antonio trovava
sempre qualcosa di divertente da fare ogni volta che la stanca e la
fiacca si facevano sentire. A Marrakech aveva rubato un cammello in
piena piazza Jem el Fna e quella volta ce la siamo davvero vista brutta,
tanto che c’è voluto l’intervento di tutto il gruppo per far capire
alla guida che era solo uno scherzo senza malizia e questa a sua volta a
dovuto convincere il cammelliere, tra parentesi ci è costato cinque
euro a testa che non abbiamo assolutamente voluto indietro, quando lo
spettacolo è avvincente e spassoso merita il suo prezzo. A Rabat era
riuscito a far spogliare una guardia per farsi fare una foto in divisa
davanti al mausoleo a Mohammed V, qui non ci avrebbe salvato nessuno, se
qualcuno ci avesse scoperto saremmo finiti tutti quanti a spalare
sabbia a vita nel Sahara. Lisa avrebbe ballato anche senza musica, a
dire la verità ogni tanto lo faceva, ed era capace di coinvolgere tutti
quanti nel suo sfrenato dimenarsi, ha fatto ballare persino me che conto
i passi anche per camminare, Giulia ha detto che pur di abbracciare una
ragazza giovane come Lisa avrei danzato anche con tutù e scarpette, la
solita maligna. Ultima fila lato destro, Antonio al finestrino a fare la
telecronaca della trasvolata, quando non era in piedi a coordinare le
operazioni di divertimento, Lisa accanto a lui e poi Giulia, con i suoi
occhi luminosi e il suo meraviglioso sorriso a sminuire qualsiasi
panorama si potesse godere da quell’altezza.
Dall’altra parte del corridoio io a guardare Giulia tutto il
tempo. Accanto a me il mio fratello di vacanza Lucio, scapolo,
ragioniere, sfigatissimo. Ci siamo trovati e ci siamo piaciuti, a dire
il vero i primi giorni ho temuto fosse gay, poi l’ho trovato in camera
mia a scopare con Fabiola maestra elementare di Catania, siciliana
verace e caliente, pelo ovunque in abbondanza ma veramente bella. Lucio è
di Trieste ma con Fabiola si sono già incontrati diverse volte da Mirko
e Paola e se tanto mi da tanto ci sarà presto un trasloco, almeno
appena a Fabiola daranno il trasferimento in Toscana, tanto Lucio ha già
il posto assicurato, receptionist e tuttofare all’agriturismo “La
Seconda Vita”. Lucio era sfigatissimo ma la sfortuna questa volta l’ha
lasciata a casa, definitivamente. Siamo tutti convinti che se ci siamo
salvati è proprio grazie a lui, il suo incontro con Fabiola gli ha tolto
di dosso tutte le maledizioni che si portava dietro e gli ha regalato
l’amore, l’allegria e una nuova vita. Tipico scapolo, non single, perché
i single sono sempre alla moda, ballano, bevono drink e scherzano, lui
invece era proprio il tipico scapolo che vive da solo in una casa troppo
grande per le sue esigenze. Ha indossato lo stesso completo per
l’intero tour, bermuda kaki maglietta beige, almeno fino al terzo giorno
e gilet mimetico milletasche con infilato dentro tutto l’armamentario
per la fotografia. Una persona perbene, molto colta con i piedi piantati
per terra ma un sacco di fantasia che fino ad allora riusciva a
materializzare solo con le foto. Fabiola ne è stata affascinata fin dal
primo giorno, d’altra parte Lucio è un bell’uomo solo che la sua troppa
esagerata timidezza gli aveva tarpato le ali fino a convincerlo di
essere senza speranza. Fabiola aveva preso la sua timidezza, la vana
speranza e la sfiga, ne aveva fatto un fagotto e l’aveva gettato nelle
nebbie dell’atlantico il secondo giorno ad Agadir e visto che come ha
raccontato poi, lui non la baciava allora ci ha pensato lei.
Lucio viaggiava con l’amico Marino, professore di Inglese alle
medie in un paesino vicino Trieste, lui si che era single, si porta a
spasso Lucio per attirare le donne e poi colpisce come una zanzara, zac!
Adesso dovrà mettere la testa a posto o trovarsi un nuovo compare.
C’era lui nella loro camera a scopare con Maria quel giorno, per questo
Lucio si era infilato in camera nostra a mia insaputa, perché loro
dicono di no ma sono sicuro che Giulia era al corrente di tutto, chi
altri avrebbe potuto dargli le chiavi epoi lei è sempre stata un
inciuciona, avrebbe fatto carte false pur di metterli insieme e alla
fine c’è riuscita. Anche Maria è di Catania, anche lei è maestra
elementare, anche lei ha pelo nero ovunque, specialmente sotto il naso
ma al contrario di Fabiola non è una gran bellezza, per lo meno a mio
modesto parere. Fabiola era seduta accanto a Lucio una parola a noi un
occhio al finestrino. Marino e Maria sedevano sulla sinistra davanti a
Mirko e Paola, erano impegnati a lasciarsi dopo l’avventura estiva, più
che altro era Marino che scaricava Maria, in realtà non si sarebbero mai
lasciati perché prima di arrivare alla rottura del loro rapporto si è
spezzato in due l’aereo e non hanno mai più avuto necessità di dirsi
niente in merito, si sono allontanati piano piano e adesso sono due
buoni amici, almeno quando sono in gruppo con noi. Giulia mi ha
assicurato che ogni tanto si vedono, lui è cambiato molto dopo quanto è
accaduto e anche se continua a fare lo scapolo impenitente in quel di
Trieste si è legato moltissimo a Maria. Se lo dice lei sicuramente è la
pura verità, io come al solito nel campo degli intrighi amorosi non
riesco mai a vedere cosa succede sotto al tavolo.
Accanto a loro sedevano Vincenzo, Beatrice, Gianna e Fausto. Sono
di Roma, tutti impiegati in varie aziende, non erano con il nostro tour,
li abbiamo conosciuti al villaggio e come accade spesso abbiamo legato
con loro solo gli ultimi giorni, quando hanno smesso di parlare solo di
lavoro e si sono messi a giocare con noi ai turisti. Fu Giulia a
promuovere l’idea di sedersi nelle ultime file, da li avrebbe dominato
tutto lo spazio visivo disponibile, dentro e fuori dall’aereo. Aveva
salvato Lucio dalla sfiga cronica, facendolo innamorare di Fabiola e ha
salvato tutti noi da una tragica fine. Solo diciotto persone sono
scampate, le ultime tre file di quello stramaledetto volo charter
Marrakech Roma.
Avvertii un forte sobbalzo, feci finta di non considerarlo con
quella superiorità strafottente di chi ha gia volato e non fa più caso
ai vuoti d’aria e con la coda dell’occhio si guarda intorno per vedere
chi ha avuto paura e si fa grosso della sua sicurezza. Dieci minuti dopo
me la sono fatta sotto dalla paura e non è un eufemismo, sentii il
seggiolino scaldarsi e inumidirsi poi non ci fu più il tempo di fare
niente. Non era un vuoto d’aria, era il motore di destra che ci stava
salutando. Hostess e steward cominciarono a correre su e giù per il
corridoio, si accesero le luci che invitavano ad allacciare le cinture
di sicurezza e avvertivano di non fumare, anche il motore di destra
aveva deciso di smettere di fumare, mai saggia decisione fu presa in un
momento meno opportuno. Dopo dieci minuti l’andirivieni delle hostess
cominciava a creare un po’ di disturbo nella maggior parte dei
passeggeri, il panico stava per scatenarsi. Passarono altri cinque
minuti e ci fu un nuovo sobbalzo molto più forte del primo, il motore di
sinistra stufo di sobbarcarsi l’intero lavoro era andato a fare
compagnia a quello di destra nella zona non fumatori. Guasto al
meccanismo di iniezione, così fu rilevato dall’indagine che seguì al
disastro, nonostante il pieno il serbatoio si rifiutava di passare il
carburante ai motori, che indispettiti e permalosi decisero di
spegnersi. In quei quindici minuti il mitico Ahmed, il suo Dio l’abbia
in gloria, era riuscito a scendere dalla quota di crociera di quasi
diecimila metri a meno di duemila ed aveva dimezzato la velocità. Il
miracolo però lo compì riuscendo ad abbassarsi ancora a motori spenti,
planando vertiginosamente senza mai precipitare. Lui ci ha salvato la
vita, diciotto vite ed è ha donato la sua.
Dopo che si fu spento il secondo motore l’aereo cominciò a pendere
verso la punta ma Ahmed riuscì a non farlo piegare da nessuna parte, a
quel punto tutti avevano capito quello che stava accadendo e scoppiò il
finimondo. La gente urlava e si dimenava, noi urlavamo e ci dimenavamo,
poi improvvisamente Antonio ci gridò di prendere i giubbotti salvagente
sotto i sedili e di restare con le cinture di sicurezza allacciate. Chi
gli avrà mai regalato tutto quel sangue freddo, tanto da poterlo
trasmettere anche a noi che come bravi soldati ipnotizzati ubbidimmo
all’ordine. Vedevamo il mare avvicinarsi rapidamente, troppo
rapidamente, erano le 19,35 il sole era basso dietro di noi e rendeva
incredibilmente luccicante quel mare dorato dentro il quale stavamo per
tuffarci indesiderati e senza desiderarlo.
Le maschere per l’ossigeno oscillavano come tanti pendoli
impazziti penzoloni al soffitto dell’aereo, chi sveniva, chi vomitava,
chi urlava e noi impietriti dall’ordine perentorio di Antonio avevamo
indossando i giubbetti salvagente come tanti stupidi idioti ad una prova
di evacuazione, come se non stesse succedendo realmente.
Lo schianto fu tremendo il contraccolpo ci frustò tutti ben bene,
spezzandoci la schiena vertebra per vertebra, il rumore fu assordante e
mentre il mondo stava finendo Antonio gridò di sganciare le cinture.
L’aereo si spezzò in due, l’acqua e la violenza dell’urto spazzarono via
le file davanti a noi. La fusoliera rimbalzò sull’acqua e si infilò a
capofitto nel mare in un tempo infinitamente breve, portandosi dietro il
suo carico di vite legate ben strette con le cintura di sicurezza. La
parte posteriore fece pressappoco lo stesso ma quando andò ad infilarsi
nel mare non aveva una punta con cui farsi largo, l’acqua entrò fino a
poche file da noi, travolgendo e distruggendo tutto ciò che incontrava,
la coda rimase immobile per qualche secondo poi si ribaltò completamente
prendendo ad inabissarsi all’indietro mentre noi già cominciavamo a
muoverci verso l’incredibile buco che si era aperto sull’azzurro scuro
di quel tramonto estivo. Io e Lucio scattammo nel corridoio prendemmo su
i bambini e cominciammo a correre prima che la risalita lungo il
corridoio divenisse troppo ripida. Elena in braccio e Giulia a farsi
trascinare per mano urlante e impaurita quanto me. Abbiamo scalato quei
pochi metri arrancando fra i detriti, siamo arrivati uno dopo l’altro a
conquistare la cima di quella montagna metallica per buttarci in mare e
nuotare più veloci possibile. Poi tutto è svanito nel mare agitato
risucchiando anche alcuni di noi sott’acqua, ci siamo legati gambe e
braccia tutti assieme e abbiamo resistito al vortice che voleva
travolgerci con in avido gorgo finale. Poi abbiamo pianto, abbiamo
gridato, abbiamo sofferto freddo e abbiamo avuto paura, tanta paura
tantissima.
La cosa magica é che sia Filippo che Elena hanno recuperato i loro
piccoli bagagli personali, gli unici capitati a portata di mano nel
convulso momento della riemersione li ha ritrovati entrambi Antonio. Chi
altri poteva essere capace di un prodigio come questo.
I primi soccorsi sono arrivati dopo due lunghissime ore in balia
del mare, impauriti, felici, increduli, uniti. Stavamo abbracciati per
riuscire a scaldarci tutti con il contatto dei corpi e per tenere i
bambini all’asciutto sopra di noi, non so quanto ancora avremmo potuto
resistere ma non ce ne fu bisogno. Il resto è scritto su tutti i
giornali, su i referti della polizia e sulle carte processuali, ma da
nessuna parte sta scritto come è potuto accadere, quante infinite
combinazioni inimmaginabili ci hanno portato intorno ad un tavolo ieri
sera. Nessuno di noi riesce a capire come abbiamo fatto a scampare a
quel disastro, nessuno crederebbe mai di poter rivivere quei momenti,
quegli attimi pieni di decisioni e di istinto che ci hanno portato in
salvo.
La vita davvero è un soffio leggero che quando lo senti è già
passato. Amate, amate voi stessi e chi vi sta intorno, chiunque esso
sia, la vita è troppo meravigliosa e breve per perdere tempo a
preoccuparsi. Costruite e amate. Amate e lasciate qualcosa dietro di
voi, un figlio, un libro, un sorriso o una vigna.
4
Caro Diario
Giovedì 7:
Stasera mi ha davvero umiliata. È un mese che continua a ripetermi
le solite storielle. Che devo stare tranquilla, che adesso le parla,
che ormai è arrivato il momento di chiarire tutto e che nemmeno lui ce
la fa più a sostenere lo stress dei nostri sotterfugi. Vorrebbe vivermi
alla luce del sole, andare in centro tenendomi per mano, ridere e
scherzare davanti ad una tazza di caffè, mentre il mondo ci gira intorno
incurante di noi e del nostro folle, stupendo, meraviglioso amore.
Amore. Sì ma quale amore, se solo dopo che l’abbiamo fatto mi ha
confessato che non le ha ancora detto nulla.
Non c’è stato il modo, non il momento, non il luogo adatto per
poterle dire con tranquillità tutto quello che da mesi si tiene dentro.
Tutto, tutto di noi, che abbiamo un futuro insieme, che abbiamo
interessi in comune, che vogliamo le stesse cose e vogliamo farle in
due, noi due. Ma quale noi due è possibile se continuiamo a trascinare
inutilmente questo rapporto senza dargli la possibilità di esprimersi e
di farsi valere. Lui prima però doveva soddisfarsi, il porco e solo dopo
che ha fatto il suo comodo mi ha tirato la mazzata, mentre ancora mi
beavo di noi, volata dritta al settimo cielo a cullarmi dentro stupide
fantasie da ragazzina, piene di giri intorno al mondo mano nella mano.
Non le ho parlato e adesso non è nemmeno il momento di farle
capire niente… questo ha saputo dirmi dopo che avevamo fatto l’amore.
Non ho potuto dargli modo di continuare, quelle parole mi hanno
risucchiato dal mio mondo di inutili sogni per scaraventarmi
violentemente a terra. Nel tempo che a lui è occorso per sgranare gli
occhi e spalancare la bocca per assumere quell’espressione da ebete
sorpreso, io mi sono alzata, lavata, vestita e l’ho lasciato da solo in
quella squallida camera, sporca di sesso delle centinaia di stupidi come
noi, come me, che vanno lì a cercare chissà cosa ed escono senza aver
trovato niente. Non voglio vederlo, non voglio più vederlo ne sentirlo e
voglio scordarmi che esiste e che sia mai esistito.
Venerdì 8:
Oggi mi ha mandato ventisette messaggi. Ah, oggi si preoccupa per
me, perché non se ne è preoccupato ieri sera o il giorno prima magari e
preoccupandosi per me, perchè non ha detto tutto a sua moglie, anzi alla
sua padrona. Fabio fai questo, Fabio fai quello, portami qui, portami
là e non lasciarmi per un'altra! Ce la vedo con quei capelli da strega,
rossi come il fuoco di notte, tutti arruffati, ma non si pettina mai?
Sembra ci sia passato in mezzo un gatto rabbioso che rincorre il suo
topo. Se mi capita a tiro gliela faccio vedere io la rabbia, uno a uno
gli strappo quei capelli, sempre che non sia una parrucca, così mi
rimangono in mano tutti insieme e non ci penso più.
Ventotto. Ti amo, ti penso, mi manchi, sii paziente. Perché
continui a prendermi in giro? Adesso spengo il telefono e faccio finire
questa tortura.
Sabato 9:
È uno stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo! Tanto lo so che non
la lascerà mai. E’ inutile che continui a mandarmi messaggi. Perché non
la smette, non posso nemmeno accendere il telefono che subito comincia a
fare quel dannato beep beep. Non lo voglio, non ci voglio pensare, non
voglio pensare a niente, stasera mi spengo e non ci sono per nessuno,
nemmeno per me stessa. Adesso chiudo anche questo stramaledetto diario
pieno di tutti i momenti meravigliosi che ho passato con lui, di tutti i
sogni che poi immancabilmente si sono trasformate in sadiche illusioni.
Sono andata a rileggere quello che ho scritto il cinque del mese
passato, era sabato e la strega era andata al paese dalla mamma. Certo
che quando vuole, e soprattutto può, sa come fare a rendermi felice.
Lago, passeggiata e amore intenso fino a notte fonda, poi però tremendo
rientro in città e separazione.
A pensarci bene però quando mi ha lasciata sola sul marciapiede
davanti casa, lì per lì ero al settimo cielo, ma adesso mi rivedo
triste, chiusa nel mio vestitino bianco, strinto all’inverosimile che si
sarebbero potute vedere le mutande se Fabio non me le avesse strappate a
morsi. Stava cominciando a piovere io guardavo la sua nuca nel riquadro
del finestrino posteriore dell’auto che si allontanava, i fari rossi mi
accecavano un po’ ma davano al tutto quell’alone di mistero che in quel
momento mi faceva sentire parte di un intricata trama da film di
spionaggio. Noi eravamo i buoni e la facevamo alle spalle della cattiva.
Adesso mi guardo, ferma sul marciapiede, come se fossi una qualunque
automobilista che attraversava l’incrocio nel buio di una sera piovosa
qualunque e vedo una donna in punta di piedi che saluta verso il niente,
verso nessuno e mi sembra ridicola. Misera e ridicola. Illusa, misera e
ridicola. Eppure quella sera sono stata davvero bene, mi ha fatto
sentire come se fosse un giorno qualunque di una settimana di un tempo
infinito, senza che dovessimo partire, senza dover tornare, come se
fossimo noi sempre e comunque e mi ha fatta sentire amata.
È uno stronzo stronzo stronzo stronzo stronzo! Ma io sono
completamente, totalmente, maledettamente innamorata di lui e in questo
momento non sono in grado di riuscire a veder chiaro nella nostra
situazione. Lascio il telefono spento. Domattina lo riaccenderò e con
calma mi rileggerò i suoi messaggi, con estrema calma, senza farmi
prendere dall’orgoglio e dalla rabbia. Non posso rischiare di perdere
tutto questo per colpa mia
Domenica 10:
Cazzo vuoi rispondere! Questo è stato l’ultimo messaggio che mi ha
mandato ieri sera. Alle nove e quarantacinque. Probabilmente era nel
bagno di qualche ristorante del centro, uno di quelli in cui non mi può
portare. Avranno mangiato a lume di candela o magari insieme ad altri
amici, come noi non facciamo mai. E poi tornati a casa avranno fatto
l’amore. Anche se a me dice che non lo fanno più. Ma a questo punto non
so più se credergli o no.
Adesso provo a chiamarlo.
Non risponde! Deve essere insieme a lei chissà dov’è. Oggi è una
meravigliosa giornata di sole, saranno andati al lago o magari sono in
qualche centro commerciale a fare shopping. Sì, dev’essere così, la
sanguisuga gli starà spillando un po’ di soldi e lui per non farla
arrabbiare striscerà quella cartina in silenzio. Beh, che questo
silenzio almeno gli porti consiglio e si renda corto che lei lo sta solo
consumando senza dargli un briciolo di amore. Io invece se lo avessi
per me ventiquattr’ore al giorno tutti i giorni saprei come farlo stare
bene, come coccolarlo, come lasciarlo divertire insieme e me. Ma come fa
lui a non capire e a non prendere il toro, anzi la vacca per le corna e
spiattellargi in faccia tutta la verità. Sarebbe così semplice. Io non
ti amo, amo un'altra, fra noi è finita, addio. Poi sarebbe un gran
casino ma almeno sarebbe un punto di partenza.
Chissà cosa stanno facendo adesso. Io non riesco più nemmeno ad
annoiarmi davanti alla televisione. In ogni programma non fanno altro
che parlare di amore, di coppie che si lasciano e si prendono, di sesso,
di quanto fa bene, che tutti lo fanno o che nessuno lo fa. E a me non
rimane altro che uno stupido telecomando che non ubbidisce ai miei
desideri. Puff. E lei non c’è più. Puff e lui e tutto per me. E ci
andiamo noi in centro a mangiare a lume di candela. Continua a non
rispondere, questo vuol dire che è sicuramente con lei e che se lo sta
tenendo ben stretto. Mi sa che questa volta ho esagerato. Cavolo l’ho
lasciato lì come un pesce nel secchio, senza alcuna possibilità
d’uscita. Me la sono filata, un po’ da codarda a dire il vero, anche se
ero così incazzata che se fossi rimasta lì avrei detto e fatto cose di
cui poi mi sarei sicuramente pentita, ma almeno avremmo parlato.
Sicuramente lui aveva qualcos’altro da dirmi, certo non poteva essere
solo … sai non le ho ancora detto niente! Magari era, non le ho potuto
dire niente ma… e poi magari qualche notizia positiva. Il piano B! Le
spie hanno sempre un piano B a portata di mano, qualcosa da studiare e
organizzare assieme. Invece l’ho piantato in quella misera stanza da
solo. Certo qualcosa doveva esserci sicuramente altrimenti non mi
avrebbe mandato ventisette, no ventotto messaggini a dire il vero
ventinove ma l’ultimo non lo prendo in considerazione, a quel punto
doveva essere veramente arrabbiato. Sono stata una stupida. Scema scema
scema scema, ma come ho potuto perdere il controllo in questo modo.
Ho provato di nuovo ma non risponde. Sarà meglio che spenga la
televisone, ovunque giri ci sono solo immagini di gente che si
abbraccia, che si ama e che sta facendo l’amore. Non ho proprio voglia
di morire d’invidia in questo momento.
Non risponde non risponde. Maledizione. Ho combinato un bel
casino, adesso chissà se lui vorrà ancora un’isterica come me. Ti prego
rispondi, ti prego rispondi! Niente, l’utente da lei amato non è al
momento raggiungibile. Speriamo possano raggiungerlo almeno i miei
pensieri e lo riportino da me. Non me ne importa niente se sta ancor