JAINA
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JAINA

690 A.C. – …

Il culto Jaina più che grazie alla sua teologia è divenuto famoso perché l’Ahiṃsā, il dogma della non violenza, è la dottrina che il Mahatma Gandhi, di originaria fede Hindù, adotta e diffonde per combattere la guerra di liberazione dell’India dalla colonizzazione Inglese. In India dove i fedeli sono poco più di tre milioni su una popolazione intorno al miliardo di anime, è comunque un culto rispettato e rinomato soprattutto grazie alla sproporzionata influenza dei suoi seguaci nelle attività bancaria e commerciale, le principali occupazioni che il culto riconosce proprio come le più adatte per attenersi al rispetto dell’Ahiṃsā. Come sempre l’uomo riesce a trovare un risvolto materiale anche nella più spirituale delle religioni che siano mai state concepite.

Il Jaina, infatti, non è come tutti gli altri un culto rivelato da Dio o da un qualsiasi déo o profeta ma una religione filosofica, addirittura atea, che fondamentalmente riconosce la teoria Hindù del Samsāra e le innumerevoli influenze del Karman e le trasla nel proprio culto ma non ammette alcuna Entità superiore creatrice dell’universo e fine di ogni esistenza.

Benché radicato da secoli nell’originaria fede Veda, confuso nella miriade di ramificazioni che da questa si sono estese, il Jaina come il Buddhismo, trova la propria definitiva identità e affermazione solo intorno al 500 a.c., grazie ai moti reazionari contro il Brāhmaņesimo imperante che porta alla dissoluzione dei Veda in Induismo, Buddhismo e Jaina, nuove ideologie nate dal rifiuto dell’autorità dei Veda nelle sue più materiali caratteristiche, le caste e i sacrifici cruenti e peri i nascenti Jaina, dalla contrastante proclamazione dell’ateismo, l’ascesi pura è la finalità dello spirito e ogni essere è il luogo e l’oggetto di un sacrificio interiore volto a e per se stesso divinità in potenza. L’opposizione dei Veda alla trascrizione delle Verità del Rgveda, porta, grazie alle diverse interpretazioni di volta in volta esternate da nuovi Maestri, alla nascita di numerose correnti che vivono momenti di gloria e di oblio fino a scomparire o a rimanere nel sottobosco della nascente grande fede Hindù, fra tutte solo Jaina e Buddhismo guadagnano lo status di religione e solamente il Jaina diviene un culto alternativo Indiano mentre i Buddhisti sono costretti a varcare i confini del subcontinente per trovare la pace per le loro meditazioni. Ci vorranno ancora mille anni prima che vengano fissati per scritto i canoni di questa religione dall’aspetto di filosofia, come lo sono del resto tutti i culti Indiani, a costo di scissioni che però non incideranno sulla principale norma, l’Ahiṃsā, la non violenza, ma stabiliranno solo delle lievi differenze nell’aspetto formale della religione senza intaccare il senso unitario dell’intera comunità. I seguaci Jaina sono accumunati dalla fede in colui che è considerato il fondatore della loro religione Vardhamāna, il quale invece si professava prosecutore di un culto esistente da sempre e tramandato da Pārśva Ikśvaku che egli avrebbe solamente organizzato e diffuso con le sue parole ma soprattutto con le sue azioni, anzi non-azioni, capaci di portarlo alla più sublime delle ascesi prodroma della liberazione finale da ogni pur irrilevabile traccia di Karman e della definitiva vittoria sulla miserrima legge del Samsāra. Proprio questo suo risultato finale gli vale il titolo di Jiņa, il vincitore sulle passioni, ovvero il Conquistatore, da cui conseguentemente prende il nome la religione stessa Jaina, la conquista della liberazione finale e definitiva, la vittoria sulla morte e sulla vita, conferendo al culto un carattere essenzialmente etico il cui fine non è il raggiungimento di un Paradiso dove si gode ma di uno stato spirituale in cui non ci si duole o meglio in cui non ci si deve più dolere, l’abbandono delle mondanità traviatrici e ammaliatrici per un sereno non essere eterno, il Nirvāņa, il riposo finale.

Pārśva Ikśvaku nasce a Varanasi nel 790 a.c., figlio del re Aśvasena e della regina Vāmā rinuncia all’età di trent’anni alla sua carica di principe e diviene eremita errante e meditabondo. Dopo soli ottantaquattro giorni di preghiera e meditazione raggiunge la piena conoscenza e diviene Kevalin, libero dal Karman e da ogni influenza che questo possa avere sulla sua anima ormai liberata dalle influenze mondane. Fonda la comunità dei Nirgrantha, gli svincolati dalla mondanità, a cui possono liberamente accedere non solo fedeli asceti che assurgono alla carica di monaci ma anche i laici che con la famiglia e l’attività commerciale divengono i veri pilastri sociali; detta quattro semplicissime regole a cui il fedele deve attenersi: non nuocere, non mentire, non rubare e non possedere. Di lui si esaltano due caratteristiche la compassione verso tutte le creature e la disponibilità all’aiuto che permarranno nella religione dei laici ma che invece scompariranno nella forma di culto Jaina volta alla vera liberazione nella quale diverranno determinazione e sprezzo del pericolo. Pārśva muore all’età di 100 anni per inedia volontaria raggiungendo la liberazione definitiva, la vittoria sulla vita e sulla morte e il riposo finale del Nirvāņa, lascia dietro di se una comunità sufficientemente compatta e solida da far tramandare i suoi insegnamenti nello spazio e nel tempo necessario per raggiungere e influenzare colui che sarà riconosciuto come il vero fondatore della religione Jaina, Vardhamāna Jñātr i cui genitori sono tra i componenti proprio della residua comunità dei Nirgrantha.

Vardhamāna Jñātr nasce a Kuņḑagrāma il 12 aprile 540 a.c., figlio del re del piccolo stato Indiano del Magadha, Siddhārta Jñātr, di Casta Kşatriya è contemporaneo del ben più famoso Siddhārta Gautama che elaborando anch’egli filosofie in chiara antitesi ai Veda e alla nascente religione Hindù da vita ad una nuova fede divenendo per tutti e per sempre il Buddha. Grazie alla facoltosa famiglia di appartenenza Vardhamāna riceve un’educazione principesca che lo prepara alla futura reggenza ma in lui sono da sempre presenti i germogli della spiritualità, tale è la sua profondità e la sua delicatezza che attende la morte dei genitori nel 512 a.c. per abdicare in favore del fratello e dedicarsi completamente all’ascesi e ad una vita errabonda da mendicante, dopo essersi strappato i capelli ed essersi liberato delle vesti. Alcune fonti storiche gli attribuiscono prima dell’abbandono della famiglia anche una moglie e addirittura una figlia ma le leggende ufficiali negano, probabilmente per attribuirgli quella castità che meglio si addice alla sua Santità, la castità che egli stesso professerà e richiederà ai propri discepoli. Nella continua ricerca ascetica approfondisce le ideologie di Pārśva e le mette in pratica per i dodici anni successivi maturandole internamente ed evolvendole spiritualmente durante il suo vagabondare di ascesi, apprendimento, dispute religiose e proselitismo. All’età di quarant’anni raggiunge finalmente la liberazione e la piena illuminazione a seguito di un lungo periodo di digiuno volontario, dopo aver sradicato dalla propria esistenza amore e odio, desideri, bisogni e rifiuti, diviene per i suoi seguaci il vincitore delle passioni terrene, Jiņa, pervenendo alla condizione di piena e completa conoscenza, la Kevala, che gli dona lo stato di Kevalin, anima perfetta, scevra da ogni benché minimo invisibile impalpabile residuo del Karman che ancora lo possa sottomettere al ciclo delle rinascite, alla ruota del Samsāra e per questo Arhat, venerabile. Vardhamāna diviene Mahāvīra, il grande eroe, Tīrthaṃkara dei propri seguaci, che per i successivi trent’anni organizza e evangelizza trasformando in maniera estremamente fondamentalista le ideologie di Pārśva e di fatto fondando una nuova religione, ancorché fondata su ideologie esistenti e che in queste si riconosce. Si insignisce successore dei ventidue precedenti Tīrthaṃkara e del ventitreesimo che riconosce in Pārśva, conferisce a tutti loro il titolo di Jiņa, liberati e divenuti puro spirito dell’Universo, attesta la presenza del culto Jaina fin dalla notte dei tempi nei cui più bui periodi si sono manifestati i suoi predecessori per risollevare lo spirito umano. Vardhamāna Jñātr, ormai Mahāvīra, acclamato come Tīrthaṃkara, muore volontariamente di fame a 72 anni nel 468 a.c. a Pāvā, l’attuale Patna nello stato Indiano del Bihar, entrando nel Nirvāņa, il riposo finale e divenendo il ventiquattresimo Jiņa, il suo corpo terreno ascende al cielo per impedire che il culto delle sue reliquie possa ostacolare la retta via per la liberazione, stimolando un attaccamento alla sua persona e alle reliquie che impedirebbe il completo distacco dalle mondanità, l’annichilimento necessario di ogni sentimento, amore e devozione comprese.

        MAHĀVĪRA

Negli anni di evangelizzazione inizialmente Mahāvīra raccoglie i suoi proseliti soprattutto fra l’aristocrazia Kşatriya dove già da tempo, grazie agli insegnamenti Veda e Hindù, si è insinuato il sentimento spirituale della necessità di abbandonare beni e agii mondani per poter anelare ad un eternità nel Nirvāņa e nel divenire sarà inoltre la stretta interazione fra laici e monaci a consolidare e mantenere unità la comunità, si formano in questo modo le quattro dignità, Tīrtha, monaci, monache, laici e laiche interdipendenti e gravati da precetti che variano di intensità con l’aumentare della spiritualità di ognuna di esse. Saranno inoltre numerosi i regnanti e i facenti parte della corte a diventare protettori della comunità Jaina e, spesso più di nome che di fatto, fedeli anch’essi. Successivamente si aggiungono seguaci di ogni Casta, grazie al rifiuto proprio del culto Jaina della ripartizione in Vaŗna, anche se la comunità esistente oggi si potrebbe inquadrare più alla stregua della Casta Vaiśya Hindù grazie alla forte componente di commercianti e industriali a causa dello stesso Dharma Jaina che impedisce la maggior parte delle attività lavorative manuali. La sorgente comunità viene organizzata fra laicato e monachesimo istituendo per quest’ultimi il voto della castità, dando vita a due classi interdipendenti, la prima deve sostentare la seconda e questa fungerà da consigliera spirituale per tutti i fedeli, già in questo primo semplice organigramma viene a crearsi una divisione che si rivelerà la vera forza d’unione del culto rendendolo capace anche nei momenti più critici di sussistere e conservarsi fino ai giorni nostri, granello di sabbia dinanzi alla montagna Hindù.Mahāvīra è fautore dell’ascesi assoluta, definita Ascesi Pura, e colmo della propria autoconsiderazione per la raggiunta onniscienza e per il distacco assoluto che lo porta ad escludere odio e amore dalla propria esistenza, nel culmine dell’autoincensamento conserva comunque ancora il desiderio terreno di partecipare tutti della sua conoscenza, che dona ai fedeli prima dell’abbandono totale della mondanità e di rimanere soltanto come fulgido esempio di fede. Evangelizza con affascinante eloquenza, utilizzando la più comune lingua Pracrita per ampliare il bacino di ascoltatori, rivolgendosi al creato tutto nella forma del Samavasaraņa, l’assemblea di preghiera che vede il Tīrthaṃkara al centro di un cerchio concentrico di auditori enunciare le Verità rivolgendosi a uomini e monaci di ogni razza e religione, animali, creature divine e infernali bisognose di conoscere la via per la salvezza. Tra i discepoli di Mahāvīra si distinguono fra gli altri Gautama Indrabhūti legato al Tīrthaṃkara da un affetto particolare che gli impedisce il completo distacco mondano necessario al raggiungimento della salvezza che ottiene solo dopo la morte del Guru, Sudharman che ne sarà il successore alla guida della comunità Jaina e Jambu che abbandona la vita nel 404 a.c. come ultimo onnisciente liberato dell’attuale periodo cosmico ancorché discendente.La piccola comunità iniziale riceve una spinta espansionistica quando intorno al 300 a.c. l’imperatore Candragupta del Magadha fondatore della dinastia Maurya, abdica come già aveva fatto Vardhamāna e si converte al culto Jaina, di lì a pochi anni però un grande carestia colpisce la valle del Gange e una parte dei seguaci Jaina emigra a sud nella penisola de Deccan fondando un nuovo centro nello stato del Mysore, ove tutt’oggi la comunità Jaina è fortemente rappresentata. Dopo poco più di dieci anni, trascorsi i momenti peggiori, gli emigrati fanno ritorno guidati dal capo anziano Bhadrabāhu ma al loro arrivo devono constatare che i fedeli rimasti, a seguito delle pesanti difficoltà subite, hanno abbandonato alcune delle pratiche prescritte fra cui, più grave mancanza, la nudità dei monaci che si abbigliano invece con vesti bianche. Si consuma in questo modo lo scisma teologico che dà origine alle due grandi ramificazioni Jaina, i Digambara, i vestiti d’aria, gli esuli tornati in patria, la corrente ortodossa che esige la completa nudità di monaci e asceti, rifiutando l’eguaglianza dei sessi e gli Śvetāmbara, i vestiti di bianco, gli stanziali traviati dalle pene della carestia, i cui monaci e asceti vestono con un essenziale abito bianco affermando, anche tramite questa semplice postilla l’eguaglianza fra i due sessi. I primi accusano gli altri di tradimento della regola e i secondi rispondono con l’accusa di seguire usi non più consoni all’epoca presente pregna di corruzione spirituale. Pochi anni dopo la morte di Bhadrabāhu segna un nuovo indelebile solco fra le due correnti, questi è ritenuto l’unico e ultimo depositario di tutte le leggi diffuse da Mahāvīra sino ad allora tramandate oralmente, il suo venir meno scatena una spasmodica ricerca per la ricostruzione e ricostituzione del canone originale e i testi residuali sono accettati come tale dagli Śvetāmbara mentre i Digambara professano un credo i cui reali fondamenti ritengono siano ormai andati definitivamente e irreparabilmente perduti e professano la via della vita errante in contrasto con i centri cenobitici dell’avversa corrente. Entrambe attuano nel corso dei secoli un’opera di organizzazione e dividono i centri di culto in diocesi chiamate Gaccha per gli Śvetāmbara e Sañgha per i Digambara al fine di avere un miglior controllo sulla comunità e consolidare ancora di più la simbiosi fra fedeli laici e monaci.Nel corso dei secoli il culto Jaina conosce momenti di gloria e di declino a seconda dei favori o meno dei vari reggenti, riuscendo a resistere anche grazie al legame fra laici e monaci sostenuto anche nei momenti più difficili dai facoltosi fedeli, dagli interessi politici dei regnanti e dall’estremo rispetto suscitato nell’ambiente Kşatriya per l’estrema dedizione vista come sforzo personale e responsabilità pari a quella militare, ma nel medioevo, con l’avvento nel culto Hindù della Bhakti e la nascita dei Sampradāya Vişņuiti e Śivaiti si verifica una vera e propria diaspora di fedeli verso le nuove coinvolgenti correnti e la comunità Jaina si riduce drasticamente concentrandosi negli stati del Gujarat e Rajasthan nella valle del Gange, in pratica nei luoghi di massima diffusione e concentrazione di Jaina dove prevale la corrente Śvetāmbara e a sud nel Mysore, i luoghi dell’antica migrazione in fuga dalla carestia dove prevalgono i Digambara. La controriforma Brāhmanica non è l’ultimo dei mali per le religioni indigene Indiane, l’invasione Islamica è altrettanto possente e materialmente distruttiva, l’intolleranza dell’Islam verso le rappresentazioni antropomorfe di Dio e l’usanza di distruggere ogni simbolo delle altre religioni in modo da gettare i popoli nello sconforto e indurli alla conversione, porta alla completa demolizione di templi e raffigurazioni divine di ogni culto diverso dal proprio. Per i fedeli di Buddha questo momento segna l’addio all’India, la distruzione dei templi determina l’estinzione del culto mentre invece per i Jaina l’esistenza di una comunità laica e il tempio interiore rappresentato dall’Ātman ne favoriscono la conservazione fino a tempi migliori, come negli anni attorno al 1600 quando sotto la reggenza del mite e lungimirante Akbar si assiste ad un rifiorire culturale Indiano di cui beneficia anche la comunità Jaina tanto da considerare lo stesso imperatore Islamico come seguace della loro fede. La reggenza di Akbar deve essere stata di estrema apertura in quanto tutte le religioni Indiane ne rivendicano l’appartenenza al proprio culto. L’ultimo scisma è ancora prettamente spirituale e si consuma nel 1653 quando, ancora grazie l’influsso iconoclastico degli invasori Musulmani, una parte degli Śvetāmbara si stacca dalla ramificazione principale per continuare il culto con l’appellativo di Sthānakvāsin, gli abitanti in case private, ossia coloro che non necessitano di templi e raffigurazioni dei Tīrthaṃkara, la corrente che rifiuta ogni idolatria verso le immagini ancorché dei Jiņa e addirittura ritiene che il culto nei templi sia incompatibile con gli originari insegnamenti di Mahāvīra. Un’altra ancora fonda nel 1764 la corrente dei Terāpanthī, con a capo Ācārya Bhikshu, che divulga una fede pienamente rivolta alla purificazione personale e scevra da compromessi, sottostante all’autorità degli Ācārya, che qui diventa a sua volta sinonimo di Maestri, l’estrema ortodossia della corrente ne è il fulcro vitale e il sostentamento che gli dà la capacità di resistere nel tempo, nel 1949 il nono Ācārya, Shri Tulsi, fonda il movimento Aņuvrat rivolto soprattutto alla comunità non monastica che grazie al rafforzamento dei voti minori dei laici e alla loro moralità mira alla realizzazione di una società libera dallo sfruttamento, dalla povertà e da ogni tipo di violenza. Il forte legame fra laici, sovente facoltosi ma desiderosi di ispirazioni e i monaci privi di ogni sostentamento personale e prodighi di buone e sagge parole cementa però oltre ogni minima divergenza l’intero culto, aldilà delle diverse interpretazioni canoniche il sostentamento e la contropartita di spiritualità viene reciprocamente donato indipendentemente dalla corrente professata rendendo il Jaina un culto sostanzialmente unitario. Questa coesione è anche frutto della necessità di comunque resistere e sussistere nonostante tutto all’ingombrante e affascinante presenza della fede Hindù che invece proprio con il suo caleidoscopico florilegio di divinità e esuberanti manifestazioni di fede si presenta come la candela che inesorabilmente attrae a se le sperdute falene in crisi spirituale. Oggi le comunità Jaina si concentrano nel Gujarāt, nel Rājastan e nell’Uttar Pradesh e a sud nel Mysore. Sulla scia delle nuove conoscenze e dell’internazionalizzazione, in parte subita a causa dell’invasione inglese, nascono fondazioni Jaina, come la World Jain Mission che attraverso la pubblicazione The voice of the Ahiṃsā rivolge la parola Jaina a tutta l’umanità, salgono alla ribalta eminenti personalità di fede Jaina che ne consolidano l’integrità a livello internazionale anche se il culto si espande fuori dall’India solo grazie alle migrazioni e in quantità molto limitate, fra le più note Shrimad Rajacandra citato anche da Gandhi e nel quale partecipò a lasciare il segno nel nome dell’Ahiṃsā; Kanji Swami che fonda il Digambara Svadhyaya Mandir, una centro di scuole e studi della cultura Jaina.Il culto Jaina è una delle rarissime religioni non rivelata, né da un dio né da un profeta, ma una filosofia non solo di vita ma soprattutto spirituale che si è consolidata affondando le proprie radici nelle primeve domande: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? E soprattutto, perché? La soluzione a queste domande è molto semplice, non porsele ma lasciare che questa vita ci scorra addosso senza recare alcun danno a nessuna entità esistente e se possibile non esistere nell’esistenza. Chi siamo? Semplicemente non siamo. Da dove veniamo? Da nessuna parte, noi stiamo. Dove andiamo? Ovviamente da nessuna parte siamo già dove dovremmo essere. E soprattutto, perché? Per vivere nella beatitudine da cui proveniamo. La corretta riuscita di questa semplice ricetta è riservata chiaramente a coloro che dedicano la loro intera presenza al mondo alla ricerca interiore della verità, alla conoscenza, all’accettazione e alla propria mortificazione fisica, essendo il corpo mondano la manifestazione più lontana dalla beatitudine. Agli altri non rimane che attenersi il più possibile alle rigidissime norme nella speranza di innalzarsi di vita in vita fino a viverne una che attraverso durissimi sacrifici doni il Nirvāņa, ma magari non questa, forse è meglio la prossima. Pur riconoscendo l’esistenza di divinità il Jaina non attribuisce loro alcuna sorta di eternità, anche se conducono vite esageratamente lunghe persino queste sono sottoposte alla legge del Samsāra e solo attraverso il ritorno alla vita umana e al corretto utilizzo spirituale del Karman riusciranno ad interrompere il ciclo di rinascite per divenire parte dell’essenza eterea e beata dell’Universo.Dall’iniziale immagine di infinito senza spazio né tempo, l’Universo assume, nella letteratura successiva alla definizione e alla stesura del canone, la forma antropomorfa, quale metafora del macrocosmo nel microcosmo. Ancora una volta troviamo la fotocopia dell’immenso a nostra misura, ancora una volta “Come in cielo e così in terra”. L’universo che mantiene una grandezza impensabile pari a quattordici Rajju, dove un Rajju è la distanza coperta in sei mesi da un dio che viaggia alla velocità di due milioni di miglia al secondo, è pervaso dalla presenza di anime, siano queste incorporate in esseri immobili, con un solo senso come le pietre oppure mobili con due o più sensi. Le anime possono essere Abhavya, destinate a rimanere imprigionate per sempre nella materia a causa della loro errata fede oppure Bhavya capaci di salvarsi attraverso la vera fede. Vi sono poi le Nigoda, quelle anime ridotte allo stato vegetativo impossibilitate a partecipare al sistema delle rinascite. L’Universo antropomorfo viene tripartito e vede nella parte bassa raffigurarsi gli inferi, dove dannati e demoni confusi gli uni con gli altri si infliggono pene a vicenda fino ad aver scontato ognuno la propria pena salvo per quelle anime le cui sanguinose colpe non possono avere redenzione. Nella parte di mezzo, di forma circolare ci sono mondi e oceani concentrici e il Bharatavarşa, il nostro mondo, l’unico da cui si può ascendere al Nirvāņa. Nella parte superiore dimorano gli déi, che godono del loro temporaneo guiderdone nell’effimera gioia della bellezza e della gioventù, grazie ai loro meriti spirituali che però non sono stati sufficienti a far loro guadagnare la Mokşa, fine che potranno ancora perseguire solo dopo il loro ritorno alla forma umana. Oltre l’Universo, oltre la sommità dell’Uomo-Universo si trova la regione dal lieve pendio, il luogo ove soggiornano scevri da ogni mondano legame i Siddha, ebbri della sconfinata beatitudine senza fine, anime pure nella completa conoscenza della non essenza.La Teologia del culto Jaina, dalla sua nascita fino ad ancora oggi, più che cercare di dare un proprio indirizzo in ordine a Cosmogonia, Cosmologia ed Escatologia, volge all’annullamento e alla contraddizione delle altre teorie religiose. Tutto ciò che razionalmente e logicamente non può essere dimostrato perde la sua efficacia e la sua validità. Per i Jaina l’Universo è. Eterno ed increato non essendo possibile dimostrare la sua creazione ne tantomeno la possibilità futura di una sua distruzione. Non può essere improvvisamente apparso dal nulla pertanto decadono tutte le teorie religiose che si basano su questo assunto, non può essere né un’emanazione né una creazione divina perché non si riscontra razionalità nella volontà di una divinità, la cui esistenza sarebbe comunque da dimostrare, nel dar luogo al mondo. Quali motivi lo avrebbero spinto a tale gesto? Non il desiderio certamente in quanto il dio già di per se perfetto non avrebbe desideri, non per amore o compassione dell’umanità in quanto prima dell’eventuale creazione non ci sarebbero dolori ne addolorati da consolare misericordiosamente, non per puro diletto perché ne sminuirebbe la figura divina, il mondo diverrebbe semplicemente un balocco nelle mani di un fanciullo. L’ipotetica divinità poi con quali mezzi materiali propri e disponibili avrebbe creato l’Universo? È forse lei l’unica materia esistente prima della creazione? E se ce ne fossero state altre anch’esse avrebbero interagito come è normale funzione della materia stessa forse anch’esse autonome divinità? E se il mondo invece fosse solo un’illusione o una realtà parallela quale valore avrebbero le azioni compiute non comportando effetti concreti? Beni e mali compiuti hanno allora lo stesso valore, uccidere o dare la vita non comporta differenza per il destino dell’uomo, ma l’umanità essendoci realmente deve invece aver cura del proprio destino eterno.Stabilito che nessuno dei postulati esaminati può avere una logica e razionale esecuzione se ne deduce che questi non siano validi e pertanto non rimane che accettare l’unica e sola verità Jaina, l’Universo è. Era, è e sarà ed è sempre stato. Inoltre, né Dio né tantomeno un dio esistono, sia per le affermazioni già in precedenza espresse, sia perché nessuna divinità avrebbe creato un mondo colmo di mali e dolori come questo solo per esaminare la capacità umana di salvezza, tale azione non sarebbe certo degna di un Entità misericordiosa e onnisciente come la si vuole descrivere, la misericordia avrebbe evitato all’umanità tutte queste pene, l’onniscienza ne avrebbe conosciuto l’incapacità di affrontarle. L’unica deduzione logica e razionale è dunque che né Dio né tantomeno un dio esistono, rifiutando la pura e sola cieca fede e il misticismo che soli possono portare a credere a prescindere. L’unica e sola verità e che l’Universo è, con tutte le sue particelle sparse per ogni dove, Jīva autonome il cui unico e solo fine è non più essere, unico e solo modo in fondo per non più soffrire e solo la legge del rimerito attraverso il Samsāra può permetterne il compimento, non serve un dio a controllare e verificare, è il Karman attraverso il suo accumularsi materiale sull’Ātman o meno a regolarne e permetterne la salvezza. Da sempre i Jaina attestano le loro affermazioni avendo cura che le stesse non siano a loro volta contraddittorie o contraddicibili ma alla fine è sempre possibile scrutare una falla su un argomento così delicato.Il complesso della retta fede, retta conoscenza e retta condotta costituisce la via della liberazione” così asserisce Umāsvāti affidando i Jaina di allora e di oggi alla dottrina di Mahāvīra la cui onniscienza riconosciuta ne è garanzia di verità, di quelle verità che lo stesso Umāsvāti elenca nelle sette verità fondamentali, le Tattva. Il Jīva, la sostanza spirituale, l’anima; l’Ajīva, le sostanze inanimate nel senso di prive di anima; Āsrava, l’afflusso della materia nell’anima; Bandha, la schiavitù mondana; Saṃvara, l’interruzione di afflusso di materia; Nirjarā, l’eliminazione della materia che affligge l’anima; Mokşa, la liberazione. Questa è la strada tracciata da Mahāvīra, una via da percorrere nell’Universo, attraverso i suoi elementi, lo spazio, Ākāsa; il moto e lo stato, Dharma e Adharma; il tempo, Kāla; la materia Pudgala l’unica essenza corporea; l’anima, i Jīva le uniche sostanze animate, infinite e quando pure, le une uguali alle altre. Tutto all’interno dell’Universo e oltre quello niente che possa muoversi o star fermo. La materia è composta dai suoi atomi che si comportano secondo la loro natura aggregandosi fra di loro e attraverso quarantadue canali di collegamento con l’anima per loro natura aderiscono al Jīva generando il Karman, anch’esso da sempre esistente altrimenti il Jīva mai sarebbe caduto nel circolo vizioso del Samsāra, che determina in tal modo la condizione di ogni vita, il Jiva è pertanto da sempre e per sempre indissolubilmente legato al Karman. L’unione fra la materia e l’anima da vita ad una creatura vivente priva ormai delle originali caratteristiche del Jīva e schiava dei legami mondani fin quando non raggiunga la Mokşa. Il corpo materiale, l’unico visibile, avvolge l’anima insieme ad altri corpi non visibili come il corpo Karmico una sorta di aura colorata, la Leśyā, che cangia a seconda dello stato morale del corpo, assumendo le varie colorazioni, nero, azzurro, grigio, giallo, rosa e bianco. Occorre a questo punto un artificio affinché Jīva e materia si distacchino e questa è la dottrina di Mahāvīra che sola e unica può portare alla liberazione finale e al Nirvāņa.Ma i conti non tornano.L’Universo è, con tutte le sue particelle, increate ed eterne e ad un tratto, allo stesso modo in cui non si capisce scientificamente come possa essere accaduto, il Jīva, la monade spirituale pura si presenta ammantata di Karman, è qui la falla, o il Jīva è di per sé macchiato da una sorta di peccato originale, di cui tra l’altro ne se ne capirebbe logicamente e razionalmente il motivo, o altrimenti Jīva è e Jīva rimane senza nascita al mondo materiale. Il Jīva è spiritualmente puro e niente è più lontano dalla materia del Jīva, come lo sarà infatti dopo la Mokşa, per cui nonostante i quarantadue canali e tutta la voglia che la materia abbia di aderire al Jīva, questo di per se e per sua propria natura rifiuta la materia, anzi proprio la sua natura, ne impedirebbe il contatto e l’adesione, ancorché entrambi increati ed eterni sono elementi distinti che devono in qualche maniera esser stati uniti, affinché siano invece increati eterni e indivisi da sempre si ritorna alla teoria del peccato originale. Perché l’anima non è increata pura? Perché esistono i quarantadue canali? Sono forse le tentazioni di provare a vivere in purezza anche una vita mondana? Ma l’onniscienza del Jīva non lo renderebbe capace di sapere già che ciò non è possibile? Non sarebbe proprio questo che asserisce il culto Jaina?Per il culto Jaina però questo avviene o addirittura già è, da sempre, senza rispondere alle domande fondamentali, senza chiedere perché. Forse attraverso la fusione nucleare, dovuta allo scontro o all’incontro di Jīva-Atomi con atomi-materia, ciò spiegherebbe come mai per la salvezza di un Jīva-Atomo, elemento dell’Universo, si debba poi ricorrere all’annichilimento di così tanti atomi-materia. Solo la loro fusione nucleare, che comporta un decadimento della materia che bene si adatterebbe al decadimento mondano della vita, o addirittura la fissione che concentrerebbe in entità di minor peso, l’uomo, il valore spirituale dei Jīva-Atomo che lo compongono essendo l’uomo mondano certamente poco dotato di virtù spirituali. Anche qui allora alla fine bisogna come sempre affidarsi solo alla semplice fede. Il Jīva-Atomo circondato di atomi-materia ha ormai raggiunto la povera forma umana, costretta in un mondo abbietto le cui poche gioie non possono dare un senso all’enorme manifestazione di mali e dolori che la attanagliano, solo attraverso le regole del culto Jaina dopo un innumerevole ciclo di vite si giunge infine alla liberazione, la Mokşa, il Nirvāņa del riposo eterno, la non esistenza. Solo attraverso la condizione umana il Jīva-Atomo può anelare a divenire non esistente, lontano dai drammi mondani, incorrotto e incorruttibile, lasciando dietro di se la materia che lo aveva avviluppato, polvere eravamo e polvere ritorneremo. Antoine-Laurent Lavoisier afferma con la sua legge di conservazione della massa che “Niente si crea e niente si distrugge ma tutto si trasforma” per cui gli atomi dell’Universo quelli sono e quelli restano ma sono pari in numero o più numerosi dei Jīva? Perché se ogni essere vivente o meno inabitante l’Universo è dotato di Jīva, quando io spacco una pietra quale delle due parti è ancora dotata di Jīva e quale no, ma tutte le pietre dell’Universo, non sono forse il risultato dell’agglomerarsi e del disintegrarsi continuo di atomi? E dall’unione carnale di due corpi dotati di Jīva come può nascere uno o tre o dodici esseri viventi a loro volta dotati di Jīva. Chi e come trasmette al nascituro il Jīva? E il dito, la mano, il braccio che dovessi perdere trasformati in humus sono privi di Jīva? Ma non sono gli stessi elementi che calpesto accumulando Karman per l’offesa recatagli in quanto Jīva? E i capelli che perdo? E l’ameba, organismo unicellulare che si riproduce tramite la semplice scissione è dotato di Jīva? E se sì, dopo la scissione quanti Jīva ci sono, uno o due? O ogni atomo è un Jīva-Atomo o le pietre, le piante, forse gli animali e magari anche qualche essere umano, come a volte effettivamente sembra, sono privi di Jīva-Anima. E inoltre possiamo essere certi che quando questo Jīva-Atomo-antimateria nel Nirvāņa si dovesse scontrare con un altro Jīva-Atomo-antimateria tutto non possa ricominciare da capo provocando negli eoni del tempo la riduzione dell’Universo ad un solo Jīva-Atomo che alla fine altri non sarebbe che Dio? L’unico capace, attraverso la sua scissione volontaria o endemica di dare nuova vita all’Universo. La scienza può avvalorare o contraddire tutte le teorie religiose, le teorie religiose poco possono contro l’evidenza della scienza se non si affidano all’ineluttabilità degli eventi provocabili solo da un Entità che possa trascendere la scienza. Difficile, a duemilacinquecento anni dalla sua asserzione, che una teoria religiosa così complessa e completa possa passare indenne il vaglio della conoscenza e del progresso. Ma un credente Jaina risponderebbe con serenità che Jīva e materia sono increati ed eterni e che per loro natura sono imprescindibilmente uniti da sempre fino alla Mokşa e che se spaccando una pietra se ne formano due, allora abbi cura di entrambe perché non puoi sapere in quale delle due alberghi un Jīva che ancora spera di raggiungere un giorno il Nirvāņa lasciando nel mondo tutta la sua materia, atomi, cellule e pensieri.Possono esservi forse più Jīva in una pietra, rimasti vicini intrappolati nella stessa materia oppure nessuno ma ciò che è sicuro è che in ogni spermatozoo o in ogni ovocita deve necessariamente esserci un Jīva, o essere Jīva essi stessi, altrimenti il neonato ne potrebbe essere sprovvisto, ma la castità richiesta non sarebbe allora un impedimento ai Jīva non nati di raggiungere il Nirvāņa? L’alternativa è che il Jīva entri nel corpo umano attraverso il respiro o il cibo ma allora perché non nutrirsi della carne di una capra dando al Jīva in essa albergante la possibilità attraverso la condizione umana di raggiungere il Nirvāņa? E se fosse il latte materno a donare il Jīva, nella madre albergherebbero forse due Jīva nello stesso momento? E quale dei due viene trasferito al figlio?No, decisamente i conti non tornano, ma il fedele e pio Jaina non ha bisogno della calcolatrice perché semplicemente crede, come ogni fedele e pio praticante di ogni altro culto o religione.L’ideologia del Samsāra si afferma immediatamente nel culto Indiano, già nel Rgveda la teoria dei cicli Cosmici ne impone l’accettazione e l’affermazione ed è sostenuta sia dalle classi dominanti, quale spiegazione razionale del disuguale destino umano e della manifesta non equità nella ripartizione del bene e del male, che dalle classi inferiori quale ultima speranza di poter, attraverso la gestione del Karman, ottenere migliore esistenza nella vita successiva. Ma nel culto Jaina la possibilità di gestire il Karman decade nell’affermare che anche le azioni positive sono portatrici di Karman seppure facilmente eliminabile. Solo la non azione dopo aver ripulito completamente l’Ātman con l’Ascesi Pura è capace di portare alla liberazione dal Samsāra, l’astensione diviene condotta di vita, la rinuncia via per la liberazione. “Astenersi dal fare del male alle altre creature, astenersi dalla falsità, dall’appropriarsi delle cose altrui, dall’unione sessuale, dalla cupidigia di possesso, dall’ira, dall’orgoglio, dalla fallacia, dall’avidità, dall’amore e dall’odio, astenersi dalle contese, dalla denigrazione, dalla delazione, dalla maldicenza, dal piacere e dalla ripugnanza, dall’inganno e dalle menzogne, tenersi infine lontano dall’errore, che è simile a spina: questa è la via per la quale le anime si elevano”, questo porta però sovente il pio Jaina ad operare più per rinuncia che per vera e propria moralità per cui l’asceta ovviamente non compirà cattive azioni ma non sarà neppure capace di compierne di buone, solo la sua propria non azione lo avvicinerà alla liberazione per suo solo ed unico vantaggio, non la buona azione verso gli altri, le molte buone azioni compiute dai fedeli Jaina, soprattutto donazioni in denaro per l’appunto, sono eseguite solo dai laici i quali in questo modo scrostano il proprio Ātman dal Karman negativo e pur non raggiungendo la liberazione si assicurano che l’esistenza successiva sia altrettanto se non ancor più agiata. Un’opportunità da non scartare, si investe il denaro per la vita presente e se ne incassano gli interessi in quella a venire.La cultura Indiana è da sempre in continuo rinnovamento, alla ricerca della corretta via per la liberazione dal momento in cui ha realizzato quanto sia effimera e inutile la ricerca di una beata permanenza in una vita che è comunque destinata a finire. Essendo quindi l’impermanenza propria della vita l’Indiano è alla ricerca di qualcosa che non sia permanente ma che sia sottratto all’impermanente quindi qualcosa di diverso dalla vita negando anche l’intima validità dell’esistenza terrena attraverso la pratica dell’ascesi che nel culto Jaina si concretizza nell’estrema mortificazione della carne fino alla morte per digiuno volontario, il Sallekhanā, manifestazione esplicita del rifiuto della vita, unico viatico per la liberazione e l’eterna non esistenza nella non vita, unico modo per conseguire il Nirjarā, l’eliminazione totale del Karman accumulato, il digiuno è la massima ascesi materiale, la confessione, il rispetto dei maestri e lo studio sono invece l’ascesi spirituale che la precedono. Infine, l’Ātman si libera della corporalità e nelle sue ridotte dimensioni ascende in linea retta al punto più alto dell’Universo, godendo assieme alle altre anime liberate della perfezione assoluta pari a quella che per le altre religioni è riservata soltanto alla suprema divinità. L’essenza divina è moltiplicata all’infinito confermando in questo modo l’assunto che in ogni uomo si annida la propria unica potenziale divinità. L’universo si anima dunque di infinite e autonome monadi non esistenti ognuna Dio nella sua unicità lungi dal desiderare, soprattutto dal desiderare di creare.Nella completa assenza di una divinità onnipotente e creatrice non mancano però concreti punti di riferimento per l’adorazione dei fedeli Jaina, questi sono i Jiņa, i vincitori, coloro che sono riusciti a sconfiggere la dura legge del Samsāra tramite la costante applicazione delle norme lasciate da Mahāvīra e l’ascesi pura, sono coloro che hanno compreso l’essenza dell’Universo e adesso ne sono parte integrante. Il raggiungimento di questa vittoria contrariamente a tutte le altre religioni lo si ottiene soltanto individualmente, con il personale intimo sacrificio della vita ad abbandonare la vita, senza che nessun dio o altra entità possa in qualsiasi modo favorirla o concederla arbitrariamente. Quella verso i Jiņa, infatti, non è una vera e propria adorazione questi sono rispettati per la meraviglia della loro esistenza e servono non come viatico ma come ispirazione e insegnamento per lo spirito del fedele. Quella del Jiņa è una figura ispiratrice in quanto vittoriosa non in senso materiale quanto nel senso stesso della vita, i Santi Jaina, i perfetti, i Siddha, le vere divinità del culto Jaina ispiratrici e non esauditrici di preghiere. Per coniugare l’individualità e l’indipendenza del cammino Jaina con le umane necessità di richiedere un aiuto superiore questo compito è stato assegnato alle comuni divinità, spesso traslate dal culto Hindù, che godono del momentaneo premio di divinità per le loro meritorie vite che però non sono state sufficientemente attinenti alla legge Jaina da portarle alla liberazione. Compiono grazie e soddisfano preghiere con i sovrumani poteri assegnatigli dalla loro posizione ma solo dopo il loro ritorno alla condizione umana potranno di nuovo tentare di raggiungere la Mokşa. Questa peculiarità dell’appartenenza al genere umano è la manifestazione della possibilità di riscatto dall’impermanenza, dovuta all’illusoria vita sulla terra, con il raggiungimento della permanenza eterna per il mezzo della realizzazione della vera e pura divinità potenziale che è insita in ognuno di noi di divenire Siddha.I Santi per antonomasia della religione Jaina sono i ventiquattro Tīrthaṃkara che di quando in quando si sono rivelati sulla terra per ristabilire l’ordine nella dottrina Jaina. Il primo di questi è Bāhubali Ŗşabha detto Gommata, la cui origine si perde nelle leggende Jaina. Combatte al fianco del fratello Bharat per la conquista del regno ma dopo la vittoria vi rinuncia lasciandolo a Bharat per dedicare la propria vita all’ascesi pura, alla conoscenza e alla liberazione. La sua raffigurazione più famosa è il Gomateśvara, una statua alta diciassette metri innalzata a Śravana Belgola nel Karnataka, innalzata intorno all’anno 900 dalla dinastia reale Jaina dei Ganga, lo raffigura in piedi nella posizione Kayotsarga, in immobile ascesi incurante della vegetazione che lo avvolge e degli animali che lo infestano, incontaminabile dalle mondanità, nella pura obiettività, raggiunge l’armonia interiore che lo porta alla Mokşa. La figura è completamente inespressiva a significare l’equilibrio raggiunto, esempio per i fedeli e stimolo per il loro abbandono delle mondanità. Ogni dodici anni una grande festa attira centinaia di migliaia di devoti, in questa occasione i monaci ungono la statua, ricoperta da vernice impermeabile per la sua conservazione, con olii, latte, miele, burro, essenze e fiori d’oro e d’argento oltre a gemme preziose. La celebrazione cominciata nel 1398 avrà la prossima rappresentazione nel 2017. Bāhubali Ŗşabha detto Gommata ma famoso con l’appellativo di profeta Ŗşabha, appare nella terza età discendente, circa quarantamila anni fa, dona agli uomini le leggi, li suddivide nelle quattro Caste e insegna loro i mestieri per le future necessità, è il primo Siddha a ricevere il Dāna da un laico quando accetta da un re dello zucchero per interrompere momentaneamente il digiuno che lo porterà alla liberazione e alla sua santificazione in Tīrthaṃkara. Dopo Bāhubali Ŗşabha detto Gommata, gli altri Tīrthaṃkara appaiono tutti nella quarta età e sono Ajitnath, Sambhavanath, Abhinandannath, Sumatinath, Padmaprabh, Suparshvanath, Chandraprabhu, Suvidhinath, Sheetalnath, Shreyansanath, Vasupujya, Vimalnath, Anantnath, Dharmanath, Shantinath, Kunthunath, Aranath, Mallinath, Munisuvrata, Nami Natha, Neminath, Pārśva Ikśvaku e Vardhamāna Jñātr detto Mahāvīra. L’attuale quinta età non ha visto ancora apparire il suo Tīrthaṃkara che probabilmente apparirà sul finire della sesta per avviare la fase ascendente dell’Utsarpiņī.Il Jiņa ha vinto sulla vita, non solo sulle mondanità, sul superfluo, sul voluttuoso, ha vinto sulle imprescindibili necessità insite nel fatto stesso dell’esistenza, quei bisogni che si devono e sottolineo devono, soddisfare in quanto specifici e biologici del corpo umano, mangiare, bere, defecare o urinare. Questi sono i soli ed unici reali bisogni umani, tanto che nella lingua italiana proprio l’ultimo stadio di questi che è una naturale conseguenza dei primi due, è definito, in un parlare corretto ma soprattutto con i bambini piccoli, “fare i bisogni” ovvero defecare, cioè “fare”, quindi materializzare fuori dal nostro corpo, quelli che sono stati “i bisogni”, mangiare e bere, che sono entrati nel nostro corpo. La morte per digiuno volontario è l’affermazione che annichilisce i bisogni, è la vittoria, Jiņa, sui bisogni: mangiare, bere, defecare. Morire di fame vuol dire riuscire a vincere sui bisogni della vita, cioè essere più forti determinati e tranquilli di ciò che la vita ci permetterebbe, tanto da non aver più bisogni. Vincere sulla vita ha come naturale conseguenza la vittoria sulla morte, vincere i bisogni significa riuscire a non dare significato alla vita in quanto non ha più senso priva dei bisogni, frivoli o corporali che siano; quindi, quale senso si potrebbe mai dare alla morte che ne è il termine ultimo? La vita mondanamente è cercare di non morire, la morte è soltanto la paura di perdere la vita ma se la vita non ha più alcun significato non si può aver paura di perdere il nulla e il vocabolo morire non ha più senso né significato quindi con la morte, che non è più un traguardo da non raggiungere, si conquista, Jiņa, la vita eterna, il Nirvāņa, l’eterno riposo in cui non si soddisfano opulentemente tutti i bisogni e i desideri terreni, come altre religioni promettono ma ci si bea di non averne più.Un semplicissimo paragone è quello di svegliarsi al mattino in un giorno di festa in cui non si ha assolutamente niente da fare, cosa ci potrebbe mai spingere ad alzarci da letto, senza desideri, senza bisogni, perché non continuare a dormire? Vivere senza desideri e senza bisogni porta di fatto al sonno eterno della morte che ormai priva anch’essa di ogni senso, non ci fa più paura, di più, non ci fa più, perché paura è ormai una parola che non ha più nessun significato non temendo per la nostra incolumità e per la nostra vita per la quale non abbiamo talmente più alcun interesse che anche la stessa parola temendo, non sappiamo più quale significato possa mai avere. Qui mi fermo perché a questo punto si innesca un circolo vizioso filosofico che alla fine porta a affermare che queste stesse parole non hanno né senso né significato e che probabilmente non sono state neanche mai dette né scritte, figuriamoci lette.Secondo Mahāvīra il fine ultimo del fedele Jaina è la liberazione dal Samsāra e questo è il solo e unico scopo da perseguire durante l’esistenza, interrompere definitivamente il ciclo di rinascite, per divenire essenza dell’Universo. La filosofia Jaina è puramente realista, l’esistenza è suddivisa fra sostanze animate e inanimate, Jīva, l’anima, l’Ātman, la monade Spirituale e Ajīva, non anime affermando la separazione fondamentale fra Jīva e Ajīva, vivo non vivo, il Jīva è la monade spirituale dell’essenza della libertà che è impigliata nella rete del Karman e finché non trascende la materia e se ne libera rimane serva e prigioniera del Karman stesso, quando era, nella notte dei tempi, e sarà, dopo la liberazione, completamente priva di Karman, l’anima, l’Ātman, il Sé capace di conoscersi riflessivamente, gode e gioisce delle quattro perfezioni, la visione infinita, la conoscenza infinita, la beatitudine infinita e la potenza infinita che la rende capace di non essere nell’esistenza infinita. Jīva è l’essenza spirituale, Ajīva è l’umanità o qualsiasi altra della miriade di sostanze che compongono i regni animale, vegetale e minerale, visibile o invisibile ancora contaminata dal Karman. Jīva è l’essenza dell’universo liberata, Ajīva e tutto ciò che ancora lotta nel Samsāra. Quindi l’uomo non è vivo, Jīva, pur essendo vivente ma è Ajīva, non vivo proprio in quanto ancora vivente e gli unici esseri viventi da sempre esistenti per loro stessi sono i Jīva, increati e immortali. Anche l’Universo esiste per sé stesso, nessuno ha creato l’universo, se Dio o una qualsiasi altra divinità avesse creato l’universo dovrebbe aver avuto il desiderio di creare e il desiderio renderebbe Dio imperfetto in quanto incompleto perché mancante di qualcosa che ancora desidera mentre Egli non potrebbe essere imperfetto, per questo motivo non può aver creato l’Universo, di conseguenza Dio non esiste. L’universo tutto prende posto in accordo con l’armonia della natura. Nessuno domina l’Universo, nessuno decide o favorisce che cosa chiunque possa prendere, ogni individuo riceve la propria contropartita come conseguenza del proprio Karman. Le essenze basilari dell’universo sono l’Anima, Jiva; gli Atomi, Pudgalastthinkaya; il Moto, Dharmasthikaya; lo Stato, Adiharmasthikaya; lo Spazio, Ākāşaşikaya e il tempo Kāla e non possono essere create da nessuno, ogni Anima è indistruttibile, Amar, perciò non può essere creata ma soltanto subisce una ciclica trasformazione in base al suo Karman. Il numero di Jīva nell’Universo è infinito e la liberazione è talmente difficile da raggiungere che la maggior parte di queste dovrà trasmigrare pressoché eternamente nel Samsāra.L’Universo è senza inizio e senza fine come lo è il Kāla, immerso in un’infinità ciclicità di ere cosmiche di ascesa, possibilità di liberazione e discesa impedimento della liberazione indipendentemente dal Karman. In verità questo estremo fatalismo è mitigato secondo la filosofia Jaina dall’Anekāntavāda, l’indeterminabilità dell’essere, il pluralismo relativo degli aspetti della realtà, una teoria che pur tenendo conto dei cinque elementi dell’Universo il Tempo, Kāla; la propria natura, Sabhava; il Karman; il fato, Niyati; lo sforzo personale, Purushartha; pone la verità di ogni intento in relazione al punto di vista e a sostegno porta un antica parabola che così recita: “Un re in un tempo molto antico, mandò a chiamare tutti coloro che erano nati ciechi. Dopo che questi si furono raccolti in una piazza mandò a chiamare il proprietario di un elefante a cui fece portare in piazza l’animale. Poi chiamando a uno a uno i ciechi diceva loro: questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia? E uno diceva una caldaia, un altro un mantice a seconda della parte dell’animale che gli era stata fatta toccare. Un altro toccava la proboscide e diceva il ramo di un albero. Per uno le zanne erano un aratro. Per un altro il ventre era un granaio. Chi aveva toccato le zampe le aveva scambiate per le colonne di un tempio, chi aveva toccato la coda aveva detto la fune di una barca, chi aveva messo la mano sull’orecchio aveva detto un tappeto. Quando ognuno incontrò l’altro dicendo quello a cui secondo lui somigliava l’animale discutevano animatamente perché ognuno era convinto assolutamente di quello che aveva toccato. Perciò se gli chiedevano a cosa somigliasse un elefante diceva l’oggetto che gli era sembrato di toccare. Naturalmente se uno diceva un mantice e l’altro una caldaia volavano gli insulti perché nessuno metteva in dubbio quello che aveva sentito toccando la parte del corpo dell’elefante. Il re vedendoli così convinti della loro sicurezza e litigiosi si divertiva un mondo. Ma alla fine decise di aiutarli a capire, e a due a due li invitava a toccare quello che aveva toccato l’altro e a chiedergli a cosa somigliasse. Così tutti dicevano quello che sosteneva l’altro e si invertivano i ruoli. Come se fosse stato un gioco li invitò a parlare tra di loro e alla fine tutti si formarono l’idea di come in realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era un mantice con un ramo di un albero nel mezzo e a lato un aratro con due tappeti sopra un granaio sostenuto da colonne e tirato da una fune di barca.” In pratica le scritture sostengono ciò che è valido in linea generale, l’espandersi della spiritualità corrisponde al ciclo di ascesa e il degrado mondano al ciclo di discesa, ma rispetto al singolo, nonostante le innumerevoli difficoltà, anche il ciclo di discesa non impedirebbe il raggiungimento della liberazione qualora la Sabhava e il Purushartha innalzino spiritualmente l’individuo fino a contrastare e superare l’avverso Niyati. Ma nessuno può saperlo con esattezza, la verità è in possesso solo di coloro che sono stati liberati come lo era per la Monade Spirituale originaria, quell’anima, Jīva, Ātman incorrotta dal Karman colma di coscienza e conoscenza dell’esistenza sotto ogni aspetto ed in ogni tempo, mentre in questo mondo corrotta dal pulviscolo del Karman e prigioniera del corpo materiale è pressoché priva di coscienza e imperfetta nella conoscenza, risulta pertanto inutile la ricerca della verità, di una verità o di quale sia la migliore o più vera verità perché questa ricerca è alla fine completamente inutile per il concreto raggiungimento della Mokşa, perché solo dopo la liberazione saremo in grado, non solo di conoscere ma addirittura di essere l’unica, sola verità. Questa teoria è il tema approfondito nel testo Syādvādamañjarī, il mazzo di fiori della dottrina della relatività redatto intorno al 1200 dal Maestro Mallişeņa che affronta uno dei postulati fondamentali del culto Jaina, l’Anekāntavāda, le molteplici verità definito anche con Syādvāda, la dottrina del potrebbe essere, la quale asserisce che ogni giudizio è provvisorio, valido solo relativamente alle circostanze spaziotemporali, all’oggetto e al soggetto. Il culto Jaina ritiene con queste due asserzioni di avere colto il significato dell’esistenza tanto che Anekāntavāda e Syādvāda divengono appellativi dell’insieme della dottrina dell’eterna legge dell’eterna verità a mitigare l’Agnosticismo e il Dogmatismo delle altre religioni, riconosciute anch’esse tutte per il tramite dell’Ahiṃsā che essendo rispetto per tutto lo è anche per le ideologie, asserzione pericolosa che potrebbe portare all’accettazione di qualsiasi teoria formulata, il Maestro Haribhadra afferma di essere seguace della ragione e rispettoso di ogni religione ma che soltanto la pratica della dottrina Jaina porta al conseguimento della liberazione e della salvezza. Puoi essere pio di ogni culto ma all’apice della tua ascesi solo con l’applicazione dell’Ahiṃsā portata al suo estremo momento, la morte per digiuno volontario, può portare alla liberazione, alla salvezza dalla vita di questo mondo e alla completa visione della verità. I sette punti di vista della verità, Naya, appartengono a chi possiede la conoscenza assoluta, altrimenti la visione rimane prigioniera dei singoli Naya, ogni fenomeno infatti può essere analizzato senza fare distinzione fra qualità generiche e qualità specifiche ovvero tenendo conto solo delle une o delle altre, limitando l’analisi all’aspetto del momento, trascurando l’etimologia o privilegiando tale aspetto, o esaminando il nome utilizzato per designare il soggetto. Dare prevalenza ad uno solo dei Naya porta a valutare la realtà in maniera solamente parziale e solo l’applicazione di tutti e sette i Naya dona l’intuizione dell’unica e sola verità, ma soltanto tramite la dottrina Jaina e la conseguente liberazione.LA

      SVASTICA JAINA

Il culto Jaina riconosce un anima ad ogni elemento presente nell’Universo, visibile o invisibile, tutta la materia è vivente e animata, e chiaramente nella migliore delle tradizioni Indiane la classifica e gli assegna un grado crescente a seconda delle possibilità reali di raggiungere la liberazione basato sui cinque sensi umani che presenti tutti, danno all’anima la capacità di apprendere, comprendere ed agire per ottenerla, sono dunque livelli non evolutivi in senso materiale ma della consapevolezza che sola può aprire le porte ad iniziare il percorso per la liberazione. Al livello più infimo si trovano le anime con un solo senso, il tatto, come gli elementi principali, terra, aria, acqua, fuoco e tutto il regno vegetale; un gradino più in alto le anime con due sensi, il tatto e il gusto, come i vermi e gli invertebrati con il guscio; al terzo livello si aggiunge l’odorato includendo così le anime di formiche e falene; al quarto si utilizza anche il senso della vista allargando l’elenco delle anime a locuste, api e farfalle; al livello più alto i cinque sensi si completano con l’udito per includervi le restanti anime degli esseri infernali, degli animali, degli uomini e delle creature celesti. Il passaggio da un livello all’altro, in entrambe le direzioni lo si deve al Karman, che come in tutte le religioni Indiane altro non è che la sommatoria delle azioni che possono favorire o ostacolare il raggiungimento della Mokşa. La caratteristica del culto Jaina è che in questo caso il Karman è inteso in senso propriamente materiale, visto come una sorta di pulviscolo che subdolamente si posa sull’anima, rendendogli via via sempre più difficile la cognizione della consapevolezza fino ad irrigidirla dentro il corpo materiale e impedirgli ogni favorevole trasmigrazione. Non solo il Karman è materiale ma anche l’anima stessa e la sua materialità è il fulcro del culto Jaina in quanto è l’essenza vera e materiale dell’anima che riceve il frutto positivo o negativo dell’azione compiuta consolidando il principio della responsabilità personale dell’Ātman nell’agire, il libero arbitrio che giustifica le cattive azioni e le scelte sbagliate. L’ulteriore difficoltà è data che non solo le cattive azioni, come l’egoismo o la violenza, depositano Karman pesante sull’anima ma anche quelle positive la ricoprono di un leggero velo. Solo con lo sforzo, il Purushartha, e la disciplina religiosa si può tentare di intraprendere la via della liberazione, solo accollarsi sofferenze come la mortificazione del corpo hanno l’effetto di soffiare via questo malefico pulviscolo e liberare l’anima per predisporla alla liberazione, alla Mokşa, al Nirvāņa. Una volta liberata dal peso del Karman l’anima si innalza leggera fino all’apice dell’Universo ove dimorerà nella beatitudine sempiterna. Materialmente questo passaggio avviene con un’estrema devozione e una completa dedizione allo spirito in questa vita e anime sante come quella di Mahāvīra si liberano degli ultimi residui di Karman grazie all’estremo sacrificio finale quello della morte per digiuno volontario che porta queste anime ad accedere immediatamente al Nirvāņa. Il sacrificio è il modo ultimo per raggiungere con certezza la Mokşa, la mortificazione definitiva del corpo umano ormai distaccato completamente dalla concezione mondana vista come pena. Sostanzialmente la religione Jaina è profondamente pessimistica, non c’è alcuna speranza oltre all’individuo, non c’è Dio o divinità che possano aiutare ad ottenere il fine ultimo, solo la consapevolezza che il mondo è un luogo di dolore e miseria estremi così profondi e ripetuti che neanche i rarissimi momenti di illusoria felicità possono dargli senso, una felicità mai reale ma sempre e solo frutto dell’incessante oppressione dei dolori e delle miserie, tanto da non far neppure concepire al pio Jaina di come si possa provare questo tipo di emozione, come narra la parabola dell’uomo nel pozzo. “C’era una volta un uomo che oppresso dalla povertà, lasciò la sua casa e partì pe un altro paese. Ma dopo alcuni giorni perse la strada e si trovò a vagare in una fitta foresta. Qui incontrò un elefante impazzito, che lo caricò con la proboscide alzata. Egli si diede subito alla fuga ma ecco comparirgli davanti un terribile demone con in mano una spada affilata. Tremando dalla paura si guardò attorno in tutte le direzioni alla ricerca di una via di scampo, vide un grande albero e si diresse di corsa verso di esso. Ma non riuscì ad arrampicarsi sul suo tronco liscio e spaventato a morte si gettò in un vecchio pozzo là vicino. Mentre precipitava cercò di afferrare un fascio di giunchi che spuntavano dalla parete e vi rimase disperatamente attaccato scorgendo sotto di sé un groviglio di serpenti che si contorcevano disturbati dalla sua presenza e sul fondo un enorme pitone nero con la bocca aperta pronto a divorarlo. L’uomo si rese conto che la sua vita ormai sarebbe durata per quanto i giunchi avessero retto il suo peso ma all’improvviso apparvero due topolini, uno bianco e uno nero che si misero a rosicchiare il suo appiglio. Nel frattempo, l’elefante inferocito per non aver travolto l’uomo abbatté l’albero facendo cadere nel pozzo un favo di miele che precipitò dritto sull’uomo, al che le api presero a pungerlo rabbiose su tutto il corpo mentre per caso una goccia di miele cade sulla fronte dell’uomo e scivolando lentamente raggiunge le sue labbra procurandogli un momento di sollievo. Allora egli cominciò a desiderare altre gocce dimenticando i pericoli della sua esistenza.” Il succo di questa tragica avventura è però tutto nell’interpretazione dei Maestri Jaina: “L’uomo è l’anima, il suo girovagare nella foresta è l’esistenza. L’elefante selvaggio è la morte, il demone la vecchiaia, l’albero rappresenta la salvezza, ove non c’è paura della morte ma che nessun uomo corrotto dai sensi è in grado di raggiungere, il pozzo è la vita umana, i serpenti le passioni e il pitone l’inferno, il fascio di giunchi è il tempo, i topi sono i giorni e le notti nello scorrere del tempo, le api sono le malattie e le miserie umane, le gocce di miele infine i piaceri triviali, i godimenti mondani. Come può un uomo saggio desiderarli e abbandonarsi a loro in mezzo a tanti pericoli e avversità?” La debolezza umana corrotta dalla mondanità è quindi proprio questa, il celarsi miseria e tribolazioni dimenticandole dietro un velo la cui trama è composta da diafani, effimeri, illusori piaceri. Solo il distacco dalla carne e dai suoi godimenti permette di intraprendere la via della liberazione, la vittoria sulla vita e sulla morte. Ma non è poi così facile. L’Universo è inabitato da un numero infinito di anime e i cicli della rinascita non sono poi tanto brevi per cui molto raramente l’anima può essere destinata a trasmigrare in un corpo umano e tale vantaggiosa ventura deve essere sfruttata al meglio da ogni individuo nel tentativo, purtroppo il più delle volte vano, di raggiungere la Mokşa. Il fedele Jaina può sfruttare questa occasione acquisendo, attraverso un’estrema dedizione, il Triplice Gioiello, la Retta Conoscenza, la Retta Fede e la Retta Condotta. Per avviarsi sulla via del Triplice Gioiello è necessario professare il culto Jaina e conoscere il Credo che questa religione Atea confessa, applicarsi nello studio e imparare dagli insegnamenti dei Guru questa è la Retta Conoscenza, la conoscenza della giusta via per vincere su questa vita. La Retta Fede è credere fermamente nei dogmi del culto Jaina per avviarsi al distacco dalla vita mondana. Infine, la Retta Condotta è applicare alla propria esistenza ciò che si è conosciuto e in cui si crede piamente, condurre la vita per abbandonarla e mortificarla, separarsi dall’inutile prigione del corpo per divenire nel Nirvāņa. Ovviamente attenersi alle prime due indicazioni senza poi una completa dedizione nella terza non sorte alcun effetto positivo per la liberazione, anche per questo i fedeli tutti, sia monaci che laici fanno voto di Retta Condotta per attenersi a tutte le prescrizioni Jaina, la più importante delle quali è l’Ahiṃsā.


MONACI ŚVETĀMBARA

Alla base di tutta la teologia Jaina si trova la pratica dell’Ahiṃsā, senza la quale non sussiste in alcun modo la possibilità di progredire nel lungo viaggio fino alla Mokşa. La non violenza non è intesa soltanto come atto volontario, che ovviamente è aborrito e provoca una concentrazione notevole di Karman negativo sull’anima con la conseguenza dell’impedimento alla liberazione se non una retrocessione nella scala delle anime a livelli inferiori ben più lontani dalla Mokşa, ma anche come accadimento incidentale, per questo, anche il laico Jaina deve attenersi a determinate prescrizioni che impediscano anche il fortuito danneggiamento a qualsiasi altro essere vivente visibile o invisibile e addirittura agli stessi elementi naturali. L’Ahiṃsā è talmente importante e fondamentale nel culto da Jaina da trasformare il proprio significato dal carattere lessicale negativo, non violenza, a quello positivo della Dayā, la premura per tutti gli esseri animati, dove per animati si intende il vero senso della parola cioè provvisti di anima, l’Ātman, ovvero l’intero Universo. Tale avvertenza porta ovviamente ad un estremo vegetarianesimo, non essendo possibile uccidere un essere animato dotato di tutti e cinque i sensi, mentre invece è possibile sacrificare forme di vita inferiore, i vegetali, per il sostentamento di quelle superiori come l’uomo. L’Ahiṃsā però addirittura preclude l’ingestione anche di determinati tipi di piante, per esempio aglio e cipolla perché considerati sedi di numerose anime ma forse in realtà soltanto perché sono considerati afrodisiaci, inoltre è vietato mangiare al buio in quanto l’oscurità impedirebbe di controllare la presenza di animaletti o insetti, la verdura deve essere lavata bene in modo da liberarla di ogni intruso vivente senza arrecargli danno, inoltre sono precluse anche tutte le attività manuali lavorative potenzialmente dannose, il Jaina non è un contadino perché arando potrebbe uccidere qualche animaletto oltre a offendere la stessa terra, non è un fabbro perché il fuoco può bruciare insetti disattenti oltre a arrecare estremo danno al materiale stesso che sta lavorando, dare una martellata sull’incudine le arreca indicibili conseguenze, ne deriva che da subito i Jaina si sono affermati in attività puramente commerciali e finanziarie in modo da non correre il rischio di ferire alcunchì, gli enormi guadagni saranno poi riversati sulla comunità tutta con offerte a templi e ai monaci. Ne desumo d’impatto due caratteristiche negative, la prima è che la religione Jaina ha assoluta necessità che nel mondo vi siano persone che non la professano, anche per questo l’attività di proselitismo è assente, in un mondo Jaina vivremmo nudi cibandoci di bacche, sarebbe molto facile la pratica del digiuno volontario e la morte per fame sarebbe l’unica possibile non più una scelta. Il Jaina è dunque egoista come Credo, non mira alla salvezza di tutti ma ognuno opera solo e soltanto per la propria e questo in realtà è un dato di fatto e un dogma del culto, l’assenza di un qualsiasi tipo di dio impedisce un progetto escatologico comune. Lasciare agli altri tutti i duri lavori per concentrarsi solo su attività finanziarie probabilmente nasce dal fatto che all’inizio questa religione si diffuse fra i ricchi Kşatriya che già non praticavano attività riservate agli intoccabili dei Veda e che ben si muovevano nell’ambiente finanziario, la limitazione ha però probabilmente impedito fin dagli albori che almeno la laicità Jaina si potesse capillarmente diffondere nelle Caste minori impossibilitate nell’intraprendere ex novo fruttifere attività commerciali, quindi chi è disgraziato nella sua disgrazia resti frutto delle manchevolezze delle sue precedenti esistenze. Più sei in basso più difficoltà hai e meno aiuto puoi avere dal tuo Credo e dagli altri fedeli, sembra lo specchio esatto della società capitalista moderna. La seconda è che tale atteggiamento non è considerato frutto di Karman negativo, la zuppa di orzo che io mangio è frutto del lavoro di un altro che egli stesso, a pena dell’autoproduzione di Karman ancorché positivo in quanto futuro Dāna destinato ad asceti e monaci. Ara, semina, monda, macina, cuoce per me questa zuppa di pane, la quale nel suo tragitto dalla mano del contadino che spinge l’aratro alla mia che me ne cibo ha ucciso chissà quanti e quali esseri viventi, offeso terra, aria, acqua e fuoco e il mio cibarmene come può non essere causa di Karman negativo quando tutte queste pene sono state inferte, ancorché indirettamente, per il mio solo e unico sostentamento. Capisco perché il digiuno volontario sia l’unica via per la Mokşa, ma quanto dovrei digiunare per scrollare dalla mia anima tutto il Karman positivo e negativo che ha sprigionato la mia sola esistenza? Posso vivere due, tre, sei mesi prima di consumarmi definitivamente e morire, in uno stato di semi incoscienza, raggiungo davvero il Nirvāņa? O è una strada illusoria senza alcuna via d’uscita? Ma questi sono solo i dubbi di un profano che vede in questo culto mille scappatoie e inganni, ancor più senza Dio, un dio o altra entità controllante, ma forse in questo caso è invece peggio, la menzogna a sé stessi diviene inutile, la giustificazione non ha valore perché se la fede non è ferma il fedele potrà ingannare gli altri ma dentro di se sa che poi purtroppo rinascerà ancora. Un occhio esterno può anche bearsi di un’eventuale rinascita, in fondo è un opportunità per rifarsi delle beffe della vita corrente, ma un Jaina sa, sente nel profondo della sua anima che una nuova vita equivale soltanto a nuove tribolazioni, un pio Jaina si libera con serenità di tutto il Karman, sia negativo che positivo e con l’assoluta inazione evita di accumularne di nuovo e chiaramente il non agire comprende il non cibarsi, è questa la consapevolezza di chi intraprende il viaggio per la Mokşa e con il digiuno, inevitabile più che volontario, conquista l’anelato Nirvāņa ove potrà finalmente non essere per l’eternità, confermando che il culto Jaina non è la fuga da qualsiasi forma di esistenza, dal verme alla divinità, che altro non è che inutile sofferenza, dolore e tribolazione ma la strada che conduce alla non esistenza eterna, per alcuni culti in giro per il mondo e per gli atei per ottenere ciò basta morire, per qualcuno già non esistiamo! Inutile chiedersi dove sia in tutto questo l’Amore, ovunque motore del mondo, perché il culto Jaina non prevede Amore! Né per se stessi né per gli altri, non prevede amare in quanto fonte di Karman, positivo, ma che lega l’anima al corpo e le impone altre sofferenze, le gocce di miele che ci illudono con la meraviglia della vita impedendoci di vedere la meraviglia della non esistenza.

La tradizione Jaina affonda le proprie radici in una delle tante ramificazioni dei Veda e con queste fondamentalmente condivide soltanto il concetto del Samsāra e quello del Karman, anche se con una visuale leggermente ma profondamente diversa. Per i Jaina il Samsāra ha soltanto una ciclicità discendente, Avasarpiņī lungo la quale si sprofonda dall’apice dell’estrema prosperità nel corso di sei età verso il tempo dell’abiezione assoluta per poi risalire lungo la fase ascendente, Utsarpiņī. Attualmente, com’è ovvio constatare, siamo nella quinta età dell’Avasarpiņī. Le due estremità rappresentano i momenti in cui è più difficile raggiungere la liberazione proprio per l’eccessiva manifestazione del bene all’apice superiore e del male in quello inferiore, le età mediane sono invece quelle più favorevoli all’ottenimento della Mokşa, proprio per l’estrema spiritualità che possono stimolare i momenti più critici che segnano un passaggio, un ultimo atto prima della rinuncia nella fase discendente e un barlume di speranza in quella ascendente. Il ciclo completo del Samsāra, della durata totale di duecentocinquantaduemila anni, contraddistingue soltanto i momenti ricorrenti che possono favorire o meno il suo superamento ma non è indicativo di una fine dei tempi che porti alla dissoluzione del mondo e a una sua successiva ripresa, il tempo è unico, perenne e irripetibile. Questa visione, costantemente influenzata dal gigante Hindù che circonda il mondo Jaina, ha però prodotto una teoria in aperto contrasto con la fluidità del tempo in avanti, si è arrivati a ritenere che dopo i ventiquattro Jina che sono venuti al mondo per insegnare la via per la liberazione, il carattere discendente e ascendente del Samsāra, farà si che il futuro porti alla nascita di altri ventiquattro Jina. Questa teoria afferma però l’enunciato di individuazione della fase discendente attuale e la pone fondamentalmente al suo termine, come se il messaggio di Mahāvīra avesse portato inaspettati frutti positivi o come se la fase discendente, indipendente dalle azioni umane fosse giunta duemilacinquecento anni fa al proprio naturale termine di durata dando l’avvio alla conseguente fase ascendente, il solo periodo in cui grazie ai particolari favori del Karman questo è più facilmente annientabile, ciò dovrebbe portare ad un esplosione di spiritualità e ascetismo capace di far sì che molte anime possano finalmente vincere la dura legge del Samsāra cosa che in realtà non mi sembra per niente corrispondente alla quotidianità né in India né altrove nel mondo dove l’abbandono delle religioni spirituali a favore del materialismo e dell’unico vero dio, uno e trino Sesso, Potere, Denaro, imperversa indisturbato. Inoltre, stabilisce un inizio del tempo indipendentemente da quale sia la prima fase, in cui si inserisce il tempo in cui i Jiņa si sono manifestati la prima volta ma che comunque contrasta con l’idea Jaina della perennità del tempo, senza inizio, senza fine. Stabilisce poi il numero di Jiņa che si manifestano durante una fase discendente, ventiquattro e il corso della conseguente fase spirituale che altresì potrebbe avere una durata anche di un solo attimo, passato il quale si ripresenta la necessità di avere dei Jiņa guida per raggiungerla nuovamente e quindi potremmo avere per esempio una qualsiasi fase durante la quale tre Jiņa si sono manifestati nella fase di discesa, poi due giorni di spiritualità, poi ancora otto Jiņa, spiritualità e Ascesi Pura per un mese e sette Jiņa, ascesi e infine gli ultimi sei Jiņa conosciuti, essendo impossibile stabilire quanti Jiņa ci possano essere stati oltre la più remota memoria umana. Il fedele però ha bisogno di credere che tornino, perché ha paura ed è abbandonato al mondo dal mondo e non può impedirsi di credere che siano ancora ventiquattro perché questo crea ordine nel caos dell’Universo. Io invece credo che nemmeno l’Universo sappia, quando due meteore si scontrano, quanti granelli si diffondano nello spazio e quanti e quali di questi possano cambiare la nostra vita, li sparge e resta a vedere cosa accade. Quando squilla il telefonino puoi sempre scegliere di non rispondere e fermarti all’incrocio o di rispondere travolgendo un bambino, un cane e un impiegato comunale sulle strisce. Se il nostro destino è segnato e disegnato diventa inutile ogni nostra singola azione, quindi sapremmo senza aver imparato, saremmo senza esserlo diventato, Jīva eterni privi di Karman, in realtà la vita è potenzialità e probabilità infinite, certezze nessuna.

In questa latitanza di certezze il fedele Jaina prega, ama, mangia fino a che non ha la forza di riuscire soltanto a pregare per liberarsi completamente del Karman che è considerato come una vera e propria sostanza materiale che si deposita sull’anima come una sorta di pulviscolo. Dopo centinaia di anni di evoluzione teologica e spirituale dei Veda, nel 699 a.c., anno della sua morte, Pārśva getta le basi per una vera e propria religione ma è soltanto nel 508 a.c. che Vardhamāna, da quel momento conosciuto con l’appellativo di Mahāvīra, il Grande Eroe, organizza il nascente movimento religioso e ne stabilisce un vero e proprio canone, ancorché orale, che trasmette ai propri seguaci i quali lo tramanderanno pressoché invariato per i mille anni a seguire fin quando, nel 512 a seguito del concilio di Valabhī nel Gujarat viene concordata la prima stesura scritta che ne garantisce l’immutata sostanza per il futuro, il Siddhānta. La prima redazione è nella lingua sacra dell’Ardhamāgadhī, una varietà dell’antico Pracrito, questo ha garantito in seguito l’individuazione delle aggiunte che sono state eseguite nei secoli successivi, sia come interpolazioni che come commentari o speculazioni. Il corpus canonico tratta la cosmologia, l’etica e la filosofia del culto e contiene inoltre studi agiografici, leggende e controversie con i Veda e con le altre teorie eterodosse dei Veda. Le scritture sono suddivise in sei parti dette Membri, i Membri principali sono a loro volta suddivisi in undici Anga, i Membri ausiliari in dodici Upānga, quelli di argomentazione varia in dieci Prakīrņaka, i testi sparsi, seguono i testi monastici redatti in sei Chedasūtra, le regole di disciplina, le esternazioni metodologiche e infine i testi base divisi in 4 Mūlasūtra, le regole fondamentali. I Membri più significativi sono il primo Anga, l’Ayāra, che tratta delle norme di condotta; il secondo Anga, il Sūyagaḑa, fonte dei paragoni sulle varie dottrine; il quinto Anga, Viyāhapannatti, sull’enunciazione delle spiegazioni dal quale unico si conoscono i tratti distintivi della personalità di Mahāvīra in quanto esso riporta le sue modalità di evangelizzazione. Tra i Chedasūtra è fondamentale il Kalpasūtra, codice di disciplina, redatto da Bhadrabāhu, la cui sola lettura è di per sé meritoria e fonte di Karman positivo, tra i Mūlasūtra l’Uttarajjhāyā, il proseguimento dell’istruzione, illustra il comportamento ideale della vita ascetica. Il Canone è riconosciuto come l’enciclopedia dei fondamenti della scienza sacra e profana e risulta essere particolarmente tedioso, monotono e di difficile lettura ma il suo intento non è quello di affascinare o essere strumento di completamento per il fedele quanto quello di servire da stimolo per l’interpretazione. Proprio questa sua caratteristica e la maturità speculativa raggiunta nei secoli dai Maestri e dagli studiosi Jaina pur non apportando variazione al Canone originario favorisce la fioritura di commentari e approfondimenti che consentono l’adeguamento e l’ammodernamento e la contestualizzazione ai secoli successivi. Fra i poligrafi più rinomati si ricordano Kundakunda che nel 300 circa nella sua speculazione mistica sull’introspezione afferma che l’anima di per sé è estranea al contatto e ad ogni influsso, può solo essere imprigionata nel Karman e da esso esserne liberata grazie alle azioni del corpo materiale; Umāsvāti, vissuto a cavallo fra il 300 e il 400, che redige il Tattvārthasūtra, gli aforismi sul significato della verità, il quale dà alla dottrina un ordine rimasto ancora oggi e riconosciuto da tutte le correnti; nel 600 Siddhasena opera un azione di sistemazione della logica del Canone; nel secolo successivo è attivo Haribhadra, Hindù di origine ed educazione Brahmaniche convertito alla filosofia Jaina che redige analisi e speculazioni sull’intera dottrina allo stesso modo di Hemacandra nel 1100 circa, questi, inoltre eminente e attivo politico, converte il principe Kumārapāla inducendolo a creare nel Gujarat uno stato ispirato ai precetti Jaina soprattutto nell’osservanza del fondamento dell’Ahiṃsā; nel 1200 Mallişeņa redige il Syādvādamañjarī, il mazzo di fiori della dottrina della relatività. Numerosi sono i testi che vengono redatti nei secoli grazie anche alle copiose donazioni che vengono fatte dai ricchi Jaina alle comunità monastiche, questo porta ad una produzione epistolare nutritissima che abbraccia ogni branca dello scibile sacro e profano e non disdegna di impossessarsi di usi, costumi ed epiche Hindù. Nella migliore delle tradizione della grande fede Indiana nascono leggende e racconti sulla vita dei Tīrthaṃkara, non solo dei due storicamente conosciuti e conoscibili, Pārśva e Vardhamāna ma anche di quelli perduti nel tempo oltre ogni memoria. Tra le varie leggende la più inadatta al culto Jaina, il quale fondamentalmente professa una teorica uguaglianza di tutte le Ātman e disconosce le caste Hindù, ricorda che, come lo si narra per Kŗşņa, l’embrione del concepito Vardhamāna sia stato trasferito nel grembo della madre dal grembo della moglie di un Brahmano poiché un profeta deve nascere da famiglia nobile e ricca. È chiara qui l’influenza Veda e Hindù la quale asserisce l’impossibilità che da Caste inferiori possano nascere grandi uomini, ancora una volta le interpolazioni successive creano distorsioni ed aberrazioni estremamente contrastanti con l’originaria dottrina Jaina. La leggenda continua raccontando che al nascituro viene dato il nome di Vardhamāna traducendolo in “accrescitore” grazie ai benefici effetti che si manifestarono nel reame, in realtà la corretta traslitterazione del nome di Vardhamāna meglio si adatta alla sua figura, “colui che si accresce” nei paesi di lingua latina sarebbe definito Omen Nomen, accrescere la propria anima e la propria esistenza fino a farla diventare beatitudine nella non esistenza sembra proprio il destino che Vardhamāna porta scritto nel proprio nome.

Tra i testi Hindù trasportati in toto nelle epiche Jaina il più rilevante è il Padmapurāna, ossia il Rāmāyana opportunamente rielaborato nel 700 dal poligrafo Ravişeņa ad uso e consumo del culto Jaina. Rāmā qui chiamato Padma, non è autore di alcun atto violento, contrariamente al racconto originale, ed ogni sopruso viene fatto compiere a Lakşmaņa il quale come per tutti gli altri personaggi è fonte e destinazione di sciagure che si abbattono su di loro a causa delle passioni terrene e della concupiscenza, materiale più che sessuale, Padma raggiunge la liberazione non al fianco dell’amata Sitā ma dopo una vita da monaco asceta e dopo di lui tutti i protagonisti raggiungono la Mokşa a seguito del pentimento e dell’espiazione per il tramite del rifiuto della vita per la beatitudine eterna. Un orribile remake che probabilmente mantiene il suo fascino religioso solo nella lingua originale se letto da un pio fedele. La relativa giovinezza del culto Jaina nei confronti delle basi teologiche della fede Hindù che trasforma ma non respinge i fondamenti Veda, lascia nei seguaci di Mahāvīra un senso di inferiorità temporale quasi come a voler ammettere che solo se persa nella notte dei tempi la religione abbia un reale fondamento e pare che a scapito della credibilità lo si debba andare a creare qualora questo non ci sia. Ma probabilmente è solo la convivenza cui sono costretti in India a dare ai fedeli Jaina questa effimera necessità assolutamente non necessaria in quanto il postulato di Mahāvīra è. Senza spazio e senza tempo, puro semplice, difficile da credere, ancor più difficile da seguire, quasi impossibile da attuare ma è. E non ha bisogno di sostegni ma solo di fede, come ogni religione. Sono i seguaci che spesso e volentieri cercano sostegni ad una fede che probabilmente non alberga in loro ma da cui temono di allontanarsi e in cui sperano ma che il più delle volte solo cercano di fare propria.

Tutti i testi vengono insegnati durante l’apprendistato e sono comunque accessibili e rivelati a tutti i fedeli, questo in aperto contrasto con l’esoterismo Brāhmaņico che riservava solo alla propria casta la rivelazione delle verità della propria fede. Nel corso dei secoli il canone iniziale ha sopportato piccole variazioni dovute all’evolversi della lingua passata dal Pracrito al Sanscrito per poi confluire nell’Hindī panindiano e soprattutto nel medioevo sono state apportate delle censure ai racconti più crudi, soltanto al fine di esaltare ancor di più il concetto di Ahiṃsā. Il canone originale è però riconosciuto soltanto dalla corrente Śvetāmbara, mentre i Digambara riconoscono la validità di altri scritti, definiti procanonici decisamente ancora più restrittivi. Il canone completo non sempre trova l’approvazione di tutte le correnti, per cui alcuni dei Membri contenuti in essi sono ritenuti canonici da alcune e apocrifi da altre. L’accordo unificatore lo si trova però in un componimento del quale ogni corrente millanta la paternità, il Tattvārthasūtra di Umāsvāti, il primo trattato Jaina in Sanscrito che espone nel tipico stile Hindù dei Sūtra una chiara e semplice sintesi della dottrina Jaina. Il Libro fa parte integrante del culto Jaina, presente nei templi e utilizzato come fonte ispiratrice dei Maestri, di cui viene inoltre celebrata l’esistenza in una festa che si svolge annualmente. Fra i testi contenuti in esso i più comunemente conosciuti sono il Kalpasūtra che narra le vite dei ventiquattro Jiņa e l’Uttarādhyayanasūtra colmo di leggente che esaltano la fede Jaina. La bibliografia Jaina è molto ricca in ogni senso, sia come numero di copie che come preziosità di queste, in quanto, non potendo accumulare ricchezza i facoltosi Jaina utilizzano le donazioni alle copisterie, che si accaparrano i migliori scrivani e artisti abbellendo magnificamente i testi, come mezzo per la dissoluzione del Karman, in conclusione il Paradiso lo si finisce sempre per comprare con l’unico vero dio, il denaro.

Le prescrizioni religiose del culto Jaina sono comuni fra laici e monaci con la differenza che verso questi ultimi sono maggiormente restrittive e rigorose essendo l’esistenza monacale considerata superiore. Lo studio, l’insegnamento e l’ascesi divengono pratiche irrinunciabili, addirittura per  i monaci è consigliata, tranne che nella fase di estrema e ultima ascesi, la vita in congregazione proprio per non concedere la possibilità di estraniarsi dalle problematiche della vita in comune e anzi affrontarne le stimolazioni e le difficoltà proprio per consolidare il superamento della materialità sotto ogni punto di vista, anche quello dei rapporti umani. Nonostante la declamata parità dei sessi non tutte le correnti riconoscono al monachesimo femminile lo stesso valore che per gli uomini e spesso le femmine non ricevono gli stessi insegnamenti dei maschi, inoltre tra i Digambara, dove la nudità della carne è essenziale, le monache, che non sottostanno a questa prescrizione, hanno naturalmente una minore considerazione. Eccezion fatta che per i Terāpanthin, le varie correnti organizzano i gruppi monacali intorno ad un maestro indipendente che cura la salute fisica e spirituale dei confratelli. Le prescrizioni per tutti i Jaina sono regolate dai cinque grandi voti, che chiaramente divengono perentori solo per i monaci; non recare offesa a tutti gli esseri viventi, visibili e invisibili, non mentire, non rubare, che nella formula originale recita di non prendere ciò che non è stato dato ad includere di non fare propria nessuna cosa nemmeno quella trovata ma soltanto ciò che viene donato da altri, dove per altri si intende altri fedeli Jaina; rispettare la castità, più che per non generare quale completamento del integrale allontanamento dalle cose terrene ivi compresa la gioia dell’essere genitore; non avere proprietà, persino le pochissime cose del monaco, prima di divenire asceta completamente privo di tutto, sono doni appartenenti ad altri, doni di cui dispone ma di cui non ne ha il possesso. A differenza dei fedeli laici, consapevoli di una prossima reincarnazione a meno che non facciano il Voto della Vecchiaia per mezzo della promessa di morte per digiuno volontario, per i monaci è richiesto che il cammino intrapreso, prodromo alla Mokşa, termini con l’isolamento, questa volta necessario, e l’ascesi, inoltre questi devono sottoporsi alla dura prova delle ventidue torture, una serie di pratiche volte alla mortificazione del corpo, fra queste la sopportazione di caldo e freddo estremi, una insufficiente elemosina e le punture di insetti, come rappresentato dalla famosa statua che si trova a Śravaņa, in cui il monaco Sadhu è riprodotto nella posizione ascetica del Kāyotsarga, dritto immobile incurate degli animali e degli insetti che vagano sul suo corpo e delle liane che gli si attorcigliano intorno facendolo quasi divenire parte stessa della Jungla. La più considerevole è fra tutte le prove il digiuno forzato, che viene ripetuto anche più volte durante il cammino religioso e diviene passaporto per la liberazione quando questo dovesse portare alla morte, questa estrema pratica necessita di una notevole preparazione psicofisica ma è considerata il naturale completamento della carriera del Sadhu che diviene Jīva, vincitore della vita, la morte che porta ad una resurrezione non nella carne. Non tutti però sono in grado di raggiungere tali livelli spirituali e a rimedio di queste mancanze, soprattutto delle minori, i Maestri operano consigliando e preparando i propri adepti e a seconda delle necessità ovviano alle mancate ottemperanze alle prescrizioni tramite la comminazione di atti di espiazione per riparare al peccato, ne sono previsti dieci diversi, fra questi lo studio, la confessione ed il relativo pentimento. Una volta l’anno viene inoltre celebrato il Paryūşaņa, un rito di confessione collettiva aperto a monaci e laici tutti, durante il quale la comunità chiede perdono per i propri peccati e annuncia i buoni propositi per il futuro. Comuni a tutte le correnti Jaina sono i sei doveri quotidiani, gli Āvaśyaka, che obbligano sia i monaci che i laici e condensano l’essenza della fede nell’esperienza religiosa di ogni giorno: l’equanimità, per vincere le passioni; l’invocazione ai Jiņa per sostenere la fede; l’omaggio ai Maestri per sostenere materialmente la conservazione e la diffusione della fede; l’introspezione per analizzare la sostanza della propria anima e superare gli errori del passato; il raccoglimento che permette la conoscenza attraverso la fede; il digiuno volontario come monito e preparazione all’ultimo digiuno che porterà alla morte della carne e alla liberazione finale.

L’istituto monacale è accessibile a chiunque non ne abbia fisicamente o giuridicamente impedimento. Dall’età di sette anni e mezzo, per i Digambara invece solo i maggiorenni, il fedele può avviarsi alla pratica tramite il noviziato che si conclude dopo pochi mesi con il rito dell’iniziazione, la Dikşā. Il monaco conduce vita itinerante tranne che nella stagione delle piogge, il pullulare di vita di questo particolare momento gli impedirebbe di attenersi scrupolosamente all’Ahiṃsā. Durante questo periodo ci si raccoglie in ripari, gli Upāśraya, dove avvengono gli incontri con la comunità laica che in questo modo può ricevere i necessari insegnamenti. La giornata del monaco, con la testa rasata e trasandato negli abiti, è occupata dai suoi molti impegni spirituali, lo studio, la meditazione, l’insegnamento, ma anche momenti dedicati alla confessione dei peccati, alla mortificazione della carne e alla questua, che deve essere rivolta solo alla comunità Jaina la quale donerà soltanto acqua bollita, ossia privata di ogni essere vivente e cibi avanzati che deve consumare e non conservare. La colpa derivante dalla preparazione dei cibi ricadrà pertanto sul laico salvaguardando in tal modo la santità del monaco.

Anche i laici chiaramente devono sottostare alle prescrizioni religiose, anche se con restrizioni più leggere e adattamenti alla vita sociale, i cinque grandi voti divengono così i cinque voti minori che vedono trasformare la castità in fedeltà coniugale, l’assenza di proprietà in limitazione. Per i ricchi commercianti e banchieri Jaina è sufficiente che parte dei loro averi sia destinata al finanziamento delle opere religiose nelle varie forme, divulgazione, assistenza agli animali, costruzione di templi tanto che questi molto spesso raggiungono livelli di splendore che rasenta l’opulenza. Non ultima fra le più citate prescrizioni vi è l’elemosina ai monaci, i quali hanno chiaramente necessità di un sostegno esterno per ogni attività di sussistenza. Lo stretto contatto dei monaci con il laicato Jaina è il principale fattore che ha favorito la sopravvivenza del culto stretto nella morsa dei Veda, poi del culto Hindù, il più diretto discendente, del culto Buddha e dell’Islam. Ciò che ha strappato dall’India il Buddhismo è stato proprio l’estremo isolamento monacale votato alla sola intima introspettiva ricerca, il monaco Jaina dipende dal laico per la propria sussistenza finché non arriva all’Ascesi Pura e allo stesso tempo è prodigo di insegnamenti e consigli per tutti non solo nella cerchia cenobitica ma per l’intera comunità. Sostenendosi a vicenda monaci e laici sono progrediti comunitariamente condividendo il culto e facendo in modo che, anche se non completamente osservato dai laici, questo potesse continuare a tramandarsi. I monaci non sono visti come deserte isole di fede bastanti a se stesse ma come prolungamento della propria, fonte spiritualmente di ispirazione e materialmente di Karman positivo grazie alle azioni positive operate verso di essi.

Fra le varie differenze delle correnti Jaina si evidenzia quella dell’idolatria, non nel senso dell’adorazione quanto nel culto o meno delle statue rappresentanti i ventiquattro Jina, venerati non come strumento per la liberazione a cui si chiede grazia e aiuto materiale ma come illuminante esempio di comportamento. Per i non idolatri è essenziale il culto interiore tramite l’ascesi che porta a trascendere il corpo e l’io mentre gli idolatri si recano ai templi muniti di fiori riso e pasta di sandalo per lavare e profumare le statue dei Jiņa. Entrambe le correnti principali ricolmano di serenità il proprio animo recitando il Credo salvifico comune a tutti i Jaina: “Omaggio ai Jina, omaggio alle anime perfette, omaggio ai Maestri, omaggio ai precettori, omaggio a tutti i religiosi Jaina del mondo; ecco il quintuplice omaggio, distruttore di tutti i peccati, beneaugurante tra i beneauguranti.” È ben presente nelle fede Jaina il concetto che i Jiņa, prima di essere beati scampati alla triste trafila del Samsāra erano esseri umani come tutti e la bibliografia è ricca delle gesta spirituali e dei miracoli da loro compiuti grazie alla profondità della loro fede. A conferma di tale consapevolezza vengono commemorati i Cinque Avvenimenti Augurali, che cadenzano l’ascesa dei Sadhu: l’Incarnazione, che sottolinea la loro appartenenza al genere umano e non divino; l’ennesima ma ultima nascita, a evidenziare che anche per essi il cammino non sia stato semplice e abbiano dovuto attraversare molteplici vite prima di interrompere il Samsāra; la loro ordinazione monacale, la Dikşā, unica via per poter arrivare tramite lo studio, la preghiera e l’ascesi alla liberazione finale celebrata con il rito dello strappamento dei capelli; il risveglio alla vera fede, la comprensione dell’universo e l’accettazione di appartenenza a esso; infine la Liberazione, la morte per inedia che dona la beatitudine eterna. Anche se privo di un dio il culto Jaina pratica quindi la preghiera, anche se solo come via di ispirazione, non mancano pertanto i templi ove questa pratica viene esercitata, ricchi, abbelliti da meraviglie architettoniche e artistiche grazie alla capacità economica della comunità Jaina, monumentali fino a divenire città tempio quelli costruiti nel passato più essenziali quelli moderni. Nei templi albergano le immagini dei ventiquattro Tīrthaṃkara, la sola contemplazione di coloro che hanno raggiunto la Mokşa ispira il fedele Jaina alle rinunce che sole potranno portarlo al Nirvāņa. La preghierà comincia nell’intimità della casa dove è sempre presente un piccolo simulacro di tempio che ispira la meditazione, ogni mattina il pio Jaina prega invocando i Cinque Elementi dell’Universo e con le mani giunte si inchina ai quattro punti cardinali, se poi si reca al tempio deve farlo con estrema sollecitudine e la borsa piena, purtroppo anche un culto così spirituale deve poi affidarsi alle corrotte mani umane, dopo essersi tolto scarpe e calze segna la fronte con lo zafferano recita il Nissahi, per mondarsi da peccati e preoccupazioni ma poi quando entra fa a gara con gli altri fedeli per l’offerta più cospicua il cui premio è il diritto a lavare l’immagine del Tīrthaṃkara principale di quel tempio, la piccolezza umana è capace di mettersi in mostra sempre e comunque e anche se mille illazioni filosofiche la potrebbero giustificare la verità e che l’elemosina non la si fa mai per gli altri ma per noi stessi. Il Tīrthaṃkara viene liberato delle offerte floreali del giorno precedente e rimossi i gioielli che lo adornano, viene lavato e massaggiato per essere poi di nuovo adornato con nuove composizioni floreali e segnato con lo zafferano, durante il rito i fedeli cantano lodi al Tīrthaṃkara immersi nei profumi dell’incenso. L’ossequiante offre del riso in sacrificio, si prostra tre volte ricordando le virtù del Tīrthaṃkara e uscendo recita la preghiera del Avassahi che gli permette di tornare alle questioni del mondo. Tutta l’operazione naturalmente è eseguita con intensa spiritualità e con significati ben precisi, l’offerta del cibo al Tīrthaṃkara ne evidenzia la rinuncia per il proprio sostentamento, l’adorazione delle immagini evoca la consapevolezza della divinità potenziale che alberga in ogni uomo, l’oscillazione dei lumi rappresenta la conoscenza che proviene direttamente da Mahāvīra tutti questi atti vengono compiuti con estrema elevazione dello spirito e con il completo dominio sui sensi. All’interno dei templi si trovano spesso immagini di altre divinità, con il tempo infatti si è giunti ad una sorta di compromesso in quanto essendo per i laici impossibile il traguardo della Mokşa, è loro permesso di adorare déi, divinità di elevata spiritualità che però non hanno ancora raggiunto il Nirvāņa o importanti personaggi Jaina o traslati nel culto Jaina, ai quali vengono rivolte preghiere e intercessioni come nelle altre religioni e che vengono omaggiati con canti, feste e celebrazioni comunitarie. La cura degli ambienti dedicati al culto è la conduzione delle cerimonie è però affidata ad appositi addetti, Pujāri che molto spesso non sono di religione Jaina. I templi sono anche ovviamente il fulcro delle festività religiose Jaina, la festa principale è la Paryuşaņa, la fine dell’anno Jaina, che solitamente si svolge a fine agosto durante la stagione dei monsoni, dura circa dieci giorni durante i quali i capifamiglia sono esortati a vivere l’esperienza monacale almeno per un giorno intero digiunando e meditando in un monastero, l’ultimo giorno di festa tutti i Jaina digiunano e si astengono dal bere e nella preghiera finale si compie l’atto di pentimento verso tutti coloro che si possono essere offesi per atti commessi anche involontariamente e di perdono per tutte le offese ricevute, entrando nel nuovo anno senza rancori. Fra le feste più importanti i Jaina onorano il Divali, una festività Hindù che celebra Lakşmī, guardacaso la dea della ricchezza, associata alla Mokşa di Mahāvīra. Altri riti minori e personali sono i digiuni osservati nei periodi di luna piena e i pellegrinaggi nei luoghi santi.

Il simbolo per eccellenza della religione Jaina è lo Svastika, tristemente conosciuto per il furto cultuale eseguito dal regime nazista di Adolf Hitler che proprio nelle regioni originarie della razza Aria va a cercare le recondite e ancestrali radici germaniche esaltando quella superiorità, plausibilmente frutto degli insegnamenti del Rgveda, che gli avi di tutti gli Europei, non solo dei tedeschi e di tutti i mediorientali, Ebrei compresi, hanno probabilmente realmente avuto essendo riusciti ovunque al loro passaggio a imporsi sulle società indigene. Lo Svastika ha la forma di croce uncinata i cui bracci simboleggiano le condizioni possibili in cui l’anima può incarnarsi, umana, divina, ferina e demoniaca; la croce è sormontata da tre punti emblema del Triplice Gioiello, sovrastati da una falce di luna con inserito un punto a significare la dimora dell’Ātman liberato, il Nirvāņa beato ed eterno.

La religione Jaina è un culto di rinunce e spesso è difficile attendere agli impegni imposti, il Nirvāņa è un traguardo che richiede la sopportazione del dolore e la sublimazione della persona, la rinuncia al mondo e a se stessi e tutto questo senza poter contare sull’aiuto di alcuna divinità, solo sulle proprie capacità e sulla propria fede.

Il lungo percorso che porta alla Mokşa è comunque univoco sia per i monaci che per i laici, i quali teoricamente possono arrivare ad attenersi con il tempo e la pratica alle stesse norme che i monaci osservano e di fatto divenire asceti preparandosi all’abbandono dell’esistenza. A questa opportunità si oppongono le teorie Digambara i quali ritengono che, laiche o monache che siano, le donne non possono giungere alla Mokşa se prima non rinascono uomini. Il cammino inizia come sempre dalla Retta Conoscenza che comporta anche la padronanza delle cause delle tribolazioni umane attraverso il Karman, l’attaccamento alle normali necessità della vita ma anche al superfluo come vestiti e gioielli; i sentimenti negativi come invidia, ira, superbia e tutti gli altri a comporre l’elenco dei sette peccati capitali Cristiani; pensare, agire, discutere delle mondanità e infine ovviamente la falsa fede, intesa sia come venerare Dio o altri déi ma anche simulare la vera fede Jaina ovvero praticarlo esteriormente ma non in senso spirituale. In pratica l’accumulo di Karman può essere limitato soltanto rinunciando ad ogni attività. Vengono così individuate otto fonti di Karman, quattro negative che producono accumulo di Karman sull’Ātman ottenebrando la conoscenza, sviluppando l’attaccamento materiale e fomentando l’incapacità e quattro positive che non producono accumulo di Karman ma al tempo stesso non favoriscono la sua dissoluzione;  tre tempi e quattordici gradini che possono portare anche il comune fedele, con molta più lentezza e minori possibilità di un monaco, a quello stato di ascesi capace di avviare la via della liberazione. I gradini, Gunasthāna rappresentano ovviamente l’applicazione del Dharma Jaina alla propria vita e solo addentrandosi sempre più nei meandri spirituali della fede si può riuscire a salirne uno, i primi cinque rappresentano il raggiungimento della consapevolezza della Retta Conoscenza ovvero l’accettazione della propria fede passando dalla falsità e dal turbamento alla consapevolezza e alla rinuncia e solo dal sesto si affronta il cammino della Retta Fede pronunciando i dodici voti del laico Jaina che occorreranno per salire fino all’ottavo gradino. I primi cinque sono i voti limitanti, l’Ahiṃsā, la non violenza almeno verso le anime con più di un senso, si può ancora tirare un sasso in uno stagno e ammirare il propagarsi delle onde, un estensione quasi universale dell’unico comandamento di Gesù, “Ama il prossimo tuo come te stesso” mi piace far interagire fra di loro le varie religioni; Onestà, “Non dire falsa testimonianza”; Non rubare e questo collima perfettamente, Castità, “Non commettere atti impuri”; Limitazione della senso di proprietà e indifferenza dalle cose mondane, qui si va ben oltre il semplice “Non desiderare la cosa d’altri” ma diviene addirittura “Non desiderare la cosa”. Ovviamente non è semplice attenersi a tali voti anche perché è sufficiente il solo pensare l’azione a produrre Karman negativo e quindi il pio Jaina ne esprime altri tre, i voti sussidiari, che rendono più attuabili i primi cinque. Limitazione dei viaggi, meno ci si muove e meno opportunità ci sono di trasgredire, meno si vede meno si desidera, e la stanzialità limita anche la possibilità di offendere l’aria e la terra; limitazione all’utilizzo di utensili, meno cose ci sono necessarie meno ne desideriamo altre è questo inibisce la bramosia e la tentazione di averne altre magari rubandole, se nella stessa ciotola mangiamo e beviamo non abbiamo bisogno di due ciotole quindi non dobbiamo compiere alcuna azione che ci porti ad avere la possibilità di averne due con il rischio di trasgredire i voti espressi; non commettere azioni negative, né con il corpo, come anche solo possedere armi figuriamoci uccidere qualsiasi essere vivente, né con la parola come parlar male di altri o tramare contro essi. Gli ultimi quattro voti legano più saldamente il laico alla vera pratica della fede in senso spirituale aiutandolo ad approfondire la conoscenza dell’aspetto monacale della fede. Dedicarsi almeno una volta al giorno alla Samayjka, la meditazione pura, la Śukla Dhyāna,  della durata di sedici minuti, durante i quali i fedele contempla al di fuori di sé, contrariamente al Buddhismo, senza pensare male di alcuno e se possibile ripeterla mattino pomeriggio e sera, come una ricetta medica; trascorrere una giornata attenendosi scrupolosamente ai dettami dei tre voti sussidiari; vivere una giornata da monaco nel completo digiuno e lontano da tutto il superfluo e il pericoloso vestendosi come un monaco con le tre vesti diurne e le due notturne, in modo da rafforzare e consolidare il legame con l’istituto monacale; sostenere monaci e asceti attraverso i quattordici doni che essi possono elargire senza arrecar loro danno come cibo, acqua, vesti, coperte, letti e altri articoli strettamente necessari al sostentamento. L’osservanza di tutti questi voti porta non solo un beneficio materiale recando salute al corpo fisico ma aiuta l’anima a cominciare a liberarsi dai legami terreni, sia quelli negativi come l’invidia che quelli positivi come l’amore, un primo passo verso la non esistenza professando la Retta Fede. Nel corso della vita il laico Jaina può trovarsi a desiderare di progredire nel percorso spirituale, sia per rispondere alla richiesta del Triplice Gioiello e quindi esaudendo anche la terza richiesta, quella della Retta Condotta sia per avvicinarsi umilmente alla condizione monacale fautrice della possibilità del raggiungimento della Mokşa portandosi nella stretta scalata alla liberazione fino al dodicesimo gradino. Il nuovo cammino prevede undici passi corrispondenti a undici nuovi voti religiosi, il primo di questi prevede la devozione al Vero Deva, non inteso come divinità ma come esempio di devozione e spiritualità, il fedele si affida dunque ad un Tīrthaṃkara da emulare e ad un Maestro, un Vero Guru di cui seguire gli insegnamenti della Vera Dottrina, ovviamente quella Jaina, per ottemperare a questi impegni deve infine evitare nella maniera più assoluta le sette azioni cattive: il gioco d’azzardo, la carne, la lussuria, ubriacarsi, commettere adulterio, cacciare e rubare, in pratica un’ulteriore promessa di seguire le basi del Dharma Jaina. Osservare i dodici voti e prepararsi alla morte per digiuno volontario. Dedicarsi alla Samayjka tre volte al giorno. Vivere la giornata monacale almeno sei volte al mese. Mangiare solo vegetali crudi. Non mangiare dall’imbrunire all’alba per evitare che il buio permetta l’ingestione di qualsiasi animaletto e non bere qualora se ne sia ingerito uno per permetterne l’eventuale rigurgito senza annegarlo. Allontanare il coniuge e evitare atti seduttivi. Non intraprendere atti che in qualsiasi modo possano portare alla morte di qualsiasi essere. Comportarsi da novizio per il resto della vita. Cibarsi solo degli avanzi altrui. Indossare l’abito dell’Asceta composto da tre panni di giorno e due panni di notte. A questo punto anche il laico è diventato un Asceta, raggiungendo il tredicesimo gradino nello stato di Arhat, onniscienza, divenendo di fatto un Kevalin, avendo raggiunto il completo risveglio della propria conoscenza, Kevala Jñana, alla pari di un monaco cenobita o eremita, ovviamente arrivare a un tale grado di spiritualità non è semplice ma denso di difficoltà superabili soltanto con una estrema fede e diviene ineluttabile continuare il cammino verso la Mokşa. A questo grado di spiritualità il fedele, ormai Asceta in uno stato di totale purezza e libertà ma che ancora interagisce ovviamente con l’organismo fisico e anche con la sua componente psichica, svilupperà anche le ventuno qualità del sublime Jaina: contegno, pulizia, buon umore, apertura verso gli altri, misericordia, tema del peccato, schiettezza, saggezza, modestia, cortesia, moderazione, dolcezza, cura nel parlare, socievolezza, attenzione, applicazione allo studio, rispetto degli anziani e delle usanze, umiltà, gratitudine, benevolenza e ovviamente sollecitudine negli affari, ovvio! Che vi sia giunto dopo le peripezie della vita o grazie agli insegnamenti di un Guru il fedele Jaina che a questo punto è di fatto un Asceta sceglie in maniera definitiva questo percorso che lo porterà alla morte per fame e alla definitiva liberazione, il raggiungimento del quattordicesimo gradino, con la trasformazione del fedele da pio a Kevalin fino a divenire Siddha, perfetto, per interrompere completamente l’attività corporea prima nel fisico e poi nella mente e nello spirito rendendo l’Ātman definitivamente libero, puro e scevro da ogni contatto con l’organismo ed eternamente beato. Liberatosi di tutti i propri averi che ancora lo avessero accompagnato, non solo voluttuari ma anche essenziali, si rasa la testa e indossa l’abito del Sadhu, composto da tre tagli per la parte superiore del corpo e due per quella inferiore, o se Digambara, si vestirà di aria. Da questo momento in poi il Sadhu è pellegrino senza proprietà, la sua dotazione si compone delle vesti, di una ciotola o due, di un piumino per rimuovere gli insetti sul suo cammino, alcuni pezzi di stoffa per filtrare l’acqua da bere e l’aria che respira in modo da non ingerire alcunché di vivo, tutto ovviamente donatogli. I voti a cui si atterrà sono l’estremizzazione dei cinque Voti Limitanti del laico Jaina, l’Ahiṃsā assoluta verso qualsiasi entità anche con un solo senso, nessuna violenza neppure verso gli elementi naturali tanto che alla fine la morte per digiuno volontario diviene essenziale perché anche la sola presenza sulla terra rischia di offendere la terra stessa, anche l’ultimo respiro può essere dannoso per l’aria tanto che solo la morte permette l’assoluta certezza di non poter più nuocere a nessuno; la Verità nella parola, quando la morte è l’unico scopo non v’è più alcun motivo di nascondere la Verità al mondo; non avere niente che non sia stato dato, neppure il cibo né l’acqua, ultimi legami alla vita terrena; Castità, certo non nel corpo che ormai ha dimenticato ogni senso di voluttà ma nella mente e nello spirito, Castità quale indifferenza verso il sesso opposto sia questi umano, animale o divino, per cui anche spirituale; infine ciò che può apparire l’obbrobrio religioso assoluto, rinunciare ad amare. Già la parola “rinunciare” mette in evidenza quanto ciò sia contrario alla natura umana ma che questo sia un atto volontario e il culto Jaina, non avendo un dio creatore, non concepisce l’amore se non come effimero estremo attaccamento alla vita e al Samsāra quindi come una sorta di diabolico incantesimo che impedisce la Mokşa, la Maya Vedica che governa scelleratamente il mondo. Rinunciare all’amore, il più puro e semplice dei sentimenti, quello che una madre prova per un figlio e il figlio per la di lui madre senza alcun motivo, senza condizioni, senza dubbi, come si può rinunciare a questo? Ma non solo, l’amore è inteso come ogni benché minimo sentimento positivo. Dopo aver rinunciato ad ogni tipo di violenza il Jaina anela all’annientamento totale e lo fa rinunciando ad ogni tipo di amore, l’emozione di un sorriso, il pianto di un bambino, un tramonto, un fiore, una farfalla colorata che si abbandona al vento, una musica soave, niente di tutto questo oltrepasserà lo scudo che il Sadhu ha calato sul proprio corpo come una seconda pelle. Inconcepibile, razionalmente non riesco nella maniera più assoluta a credere che ciò possa essere possibile neanche dopo una lobotomia, anche il malefico Frankenstein rimane incantato dal suono del violino. Ma la rinuncia all’amore è essenziale per lasciare questo mondo senza rimpianti e senza rimorsi, non si potrà mai smettere di essere finche saremo ancora, neanche la pioggia sul corpo morente dopo la siccità darà sollievo al Sadhu nell’ultimo momento, non lascerà che quattro misere gocce di miele gli impediscano di vedere il burrone, i serpenti, l’elefante e gli inesorabili topini. La rinuncia all’amore è essenziale per i Jaina come per ogni altra religione per poter attraversare l’ignoto confine fra la vita e la morte, l’islamico rinuncerà all’amore su questa terra per l’amore nell’eternità e il Cristiano lo farà per superare la paura della morte e comprendere che non è questa la vita per cui si è nati ma la prossima e secondo il Vangelo di Matteo (10,34-11,1) Gesù ha spiegato bene che non è venuto a dare doni in questa vita ma a prometterne nella prossima “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.” L’occidente si è da sempre scandalizzato ritenendo stupidi ed eccentrici quelli che spregia col nome di santoni, quando in realtà questi Sadhu portano a compimento gli stessi obblighi della religione che l’occidente ancora finge di professare. Per il culto Jaina la figura del Sadhu è talmente importante ed essenziale dall’aver addirittura stabilito ufficiosamente ventisette qualità ideali che ne identificano la perfezione che porterà alla Mokşa, osservare i Cinque Voti, non mangiare con il buio, proteggere ogni essenza vivente, controllare i sensi, perdonare, avere la certezza che ogni azione non provochi danno a nessuna essenza vivente e nel crescendo che precede l’apoteosi della morte rinunciare all’amore fino all’amore per se stesso, controllare la mente, la lingua e il copro, sopportare le avversità nei ventidue modi prescritti e infine sopportare il dolore fino alla morte. Non credo a niente di tutto questo perché è razionale o solo frutto delle errate o incomplete traduzioni che spesso non vogliono o non riescono a trasmettere il reale senso di quanto espresso, il Sadhu nell’atto finale delle proprie rinunce potrà operare solo senza controllo altrimenti è solo un artifizio, un inganno verso gli altri e verso se stesso, non rinuncerà, non sopporterà ma semplicemente già non sarà e amore e dolore nulla potranno su di lui, altrimenti è come la conversione di Costantino sul letto di morte, il Cristiano l’accetta come ultima estrema speranza per il suo proprio personale Paradiso, ma la sente come una menzogna per tutte le rinunce, le violenze e le umiliazioni subite durante una vita da pio e devoto fedele, in poche parole, non è giusto! La mente ci può ingannare fino all’ultimo istante lo spirito invece sa e non ha bisogno di saperlo per sapere. Possiamo fingere di non sentire il dolore ma nel momento stesso in cui gli diamo un nome allora lo abbiamo provato, solo quando non ci importa più del dolore, perché non ci importa più della vita e non sappiamo neanche più cosa sia, possiamo subirlo senza sentirlo, solo allora sarà libertà, Mokşa, Nirvāņa.

Questo in teoria, in pratica molti fedeli Jaina pregano le divinità Hindù per motivi meramente mondani e materiali, nei templi Jaina si trovano le immagini di molte divinità Hindù e la maggior parte delle festività Jaina seguono il calendario e le usanze Hindù. Non è poi così facile rinunciare a questa vita, quelle quattro piccole gocce di miele sono estremamente seducenti. Jaina, un culto che non praticano neppure i suoi fedeli, però si può sempre far finta di crederci! Peccato! E grazia per tutti quelli che riescono ad attenersi a questo infinito elenco di prescrizioni, se l’ultimo onnisciente risale a duemilaquattrocento anni fa è chiaro che seguire il Dharma Jaina non è poi così semplice, tre milioni di persone ci provano, credendo più o meno fermamente di potere raggiungere il Nirvāņa. Miliardi di persone però credono che quelle quattro gocce di miele siano invece il vero senso della vita. Beh, ne riparleremo nella prossima.


INTERNO DI UN TEMPIO JAINA

GLOSSARIO

Ahiṃsā: non violenza, portata all’estremo impossibile. Non solo non usare violenza ma impedire quegli atti che anche inconsapevolmente possano risultare violenti persino verso la più piccola delle esistenze. Vegetarianesimo assoluto fino addirittura a vietare di cibarsi di alcuni tipi di piante; non consumare cibi dopo il tramonto per impedire che l’oscurità possa favorire l’ingestione di piccoli insetti; benda davanti alla bocca per impedire l’ingestione accidentale di insetti e la contaminazione dell’aria con vapori corporei; utilizzo di un piumino per liberare da insetti e animaletti la strada da percorrere; ospedali per gli animali.

Cinque Elementi dell’Universo: il Tempo, Kāla che si ripete ciclicamente in periodi di ascesa favorevoli alla Mokşa e di discesa sfavorevoli alla Mokşa; la propria natura, Sabhava, che favorisce o meno la possibilità di raggiungimento della liberazione; il Karman; il fato, Niyati, quasi una predestinazione se l’individuo non reagisce personalmente e individualmente; lo sforzo personale, Purushartha, l’arma per contrastare le avversità e per conquistare la liberazione.

Digambara: i vestiti d’aria, corrente Jaina ortodossa che, per i monaci e gli asceti, prevede la completa nudità. Rifiuta l’eguaglianza dei sessi.

Jīva: la monade spirituale, l’anima pura, il puro Ātman incorrotto dalla mondanità, prima e dopo l’esistenza terrena.

Karman: l’azione, le azioni che nella vita precedente hanno determinato lo stato della presente nascita, le azioni della vita presente che determineranno lo stato della futura nascita; sostanza impalpabile che si accumula sull’Ātman azione dopo azione, le cattive azioni accumulano Karman che si consolida, le buone azioni accumulano Karman che la sola fede Jaina può soffiare via, la non azione libera l’Ātman dal Karman e non ne fa accumulare di nuovo, solo a questo punto la morte per digiuno volontario libera definitivamente l’Ātman e lo rende capace di raggiungere il Nirvāņa.

Mūrtipūjak: corrente idolatra degli Śvetāmbara, ritualisti integralisti.

Nirvāņa: il Paradiso della non essenza, non un luogo ma uno stato, lo stato di beatitudine raggiunto dall’Ātman liberato, finalmente sicuro di non commettere più nessuna azione di alcun tipo certo di non dover più partecipare al mondo.

Sthānakvāsin: corrente non idolatra degli Śvetāmbara.

Śukla Dhyāna: la meditazione pura, la meditazione Jaina che al contrario di quella Buddhista amplia i confini al di fuori del Sé, la riflessione discorsiva volta alla comprensione e all’accettazione dell’Universo come insieme indiviso dei Jīva.

Śvetāmbara: i vestiti di bianco, corrente Jaina i cui monaci e asceti vestono con un essenziale abito bianco.

Terāpanthin: corrente Śvetāmbara. L’unica che riconosce un’organizzazione centralizzata con all’apice un proprio capo religioso.

***

ABHIYOGA: déi ausiliari agli Indra, gli déi supremi portatori di pioggia e tenebre. Partecipano alla consacrazione dei Tīrthaṃkara.

AMBIKĀ: divinità appartenente al seguito di un Tīrthaṃkara.

ARHAT: sadhu, che ha raggiunto il massimo stadio terreno di perfezione e conoscenza.

BHAVANAVĀSIN: ordine di déi abitanti la parte più alta e risplendente di gemme del mondo sotterraneo. Suddivisi in dieci classi, fra le quali i Principi dei Demoni, gli Asura-Kumāra, e i Principi dei Serpenti, i Naga- Kumāra.

DEVA: gli antichi déi del Rgveda, sopraffatti dalle nuove divinità, lasciano a queste la caratteristica della mortalità, nonostante vite quasi eterne, e la necessità di una redenzione da attuarsi con la completa sublimazione del Karman solo dopo il loro ritorno alla forma umana.

DEVĪ: divinità femminili incarnanti l’antica essenza della dea madre.

GANESHA: dio della scrittura e della saggezza, colui che supera tutti gli ostacoli. Figlio di Pārvāti e di Śiva e al comando del suo seguito. Ha forma di elefante con una sola zanna e il ventre prominente, suo Vāhana un topo. Reca fra gli altri l’Akshamālā, la zanna spezzata e un cappio con cui lega gli inganni. Invocato per superare ogni tipo di prova ritenuta estremamente ardua, trslato in toto dal culto Hindù, viene adorato dai laici.

INDRA: i più alti tra gli déi per ognuna delle classi in cui sono suddivisi i quattro ordini di divinità.

JIŅA: il vincitore delle passioni terrene e spirituali, colui che ha vinto l’attaccamento morale, fisico e sentimentale ottenendo il completo distacco dalla materia e giungendo all’onniscienza che libera dal Samsāra attraverso l’annichilimento del Karman.

JYOTISHKA: déi astrali, suddivisi in cinque classi: Soli, Lune, Pianeti, Fasi Lunari e Stelle.

MAHĀVĪRA: il grande eroe, appellativo riservato al codificatore della fede Jaina, Vardhamāna. Detto anche Jiņa, il vittorioso da cui il nome della religione professata. È accompagnato da due divinità, Shāsana-deva, Matanga, l’elefante, e Siddhayika, l’oca.

ŖŞABHA: il toro, il primo Tīrthaṃkara, primo re, ha insegnato arti e mestieri ai sudditi, conclude la sua esistenza come primo mendicante e con il raggiungimento dell’onniscienza diviene il primo Jiņa.

ŞAKRA: il vigoroso, il signore degli déi, Devadhipati, il più alto fra gli Indra.

ŞALĀKĀ-PURUSHA: i sessantatré attori del superamento della dimensione umana che si verifica durante un preciso movimento ascendente e discendente della ruota del tempo, fra gli altri i ventiquattro Tīrthaṃkara, i dodici Signori dell’universo, Cakravartin.

TĪRTHAṂKARA: i preparatori del guado, i predicatori della salvezza, Sadhu, Jiņa che si presentano nei momenti di obnubilamento umani per riportare l’universo sulla via della salvezza attraverso l’interruzione del Samsāra.

YAKSHAS: esseri semidivini ctoni al seguito di Kubera, vivono sull’Himalaya e custodiscono immensi tesori. La versione benevola viene adorata alla stregua di numi tutelari.